Estensione del giudizio di rilevanza della falsa dichiarazione sulle qualità personali da parte del consulente tecnico

Stefano Tovani
12 Settembre 2022

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte si è chiesta se il giudizio di rilevanza della falsità sia da parametrarsi sulla sola finalità di identificazione o anche su ulteriori finalità, di interesse oltre che per il pubblico ufficiale richiedente anche per ulteriori destinatari della dichiarazione medesima.
Massima

Le false dichiarazioni previste dall'art. 496 c.p. integrano un delitto a consumazione istantanea, cosicché il reato si perfeziona nel momento stesso in cui le dichiarazioni vengono rese al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio, non avendo alcuna rilevanza, ai fini della sussistenza del reato, l'eventuale successiva ritrattazione.

La condotta prevista dall'art. 496 c.p. presuppone che la falsa dichiarazione, quanto alla identità e alle qualità personali, non sia spontanea ma sia oggetto di una richiesta proveniente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di servizio nell'esercizio delle funzioni. Inoltre, il bene della fede pubblica, tutelato dalla norma incriminatrice, implica che il giudizio di rilevanza della falsità, ai fini della verifica della offensività della condotta, sia da commisurarsi non solo alla finalità di identificazione, bensì anche in relazione a ulteriori finalità, di interesse oltre che per il pubblico ufficiale richiedente anche per ulteriori destinatari della dichiarazione medesima.

Il caso

Nell'ambito di un processo penale per omicidio il consulente tecnico della difesa avrebbe reso di fronte alla Corte d'assise dichiarazioni (ritenute non veritiere) in merito alle proprie qualità personali, con particolare riferimento al titolo di studio conseguito. Imputato per i delitti di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e di false dichiarazioni sulla identità o sulle qualità personali proprie o di altri (art. 496 c.p.) il consulente veniva prosciolto con sentenza di non luogo a procedere per insussistenza dal fatto (originariamente qualificato ai sensi dell'art. 495 c.p. e poi riqualificato nel delitto previsto e punito dall'art. 496 c.p.). A seguito dell'appello del Pubblico Ministero avverso la sentenza di non luogo a procedere l'imputato veniva rinviato a giudizio per il solo reato di false dichiarazioni (art. 496 c.p.). Assolto dal GUP a seguito di giudizio abbreviato per difetto di rilevanza della falsa dichiarazione, era poi condannato dalla Corte di appello, proponendo così il ricorso per cassazione che ha dato vita alla sentenza in esame.

Al di là di varie questioni controverse che riguardano principalmente temi di merito e di prova del fatto, le questioni di diritto delle quali la sentenza in esame si è occupata riguardano, in sostanza, il valore della ritrattazione nel delitto di false dichiarazioni sulla identità o sulle qualità personali proprie o altrui (art. 496 c.p.) ed il grado di estensione del giudizio di rilevanza delle falsità.

Nei fatti, l'accusa contesta all'imputato, in sintesi, di aver dichiarato falsamente, quale consulente tecnico della difesa, di essere in possesso del titolo di studio di laurea in ingegneria quando, in realtà, egli avrebbe conseguito soltanto un titolo triennale rilasciato da un istituto privato. Emerge altresì che l'imputato, rispondendo alle domande in sede di controesame, avrebbe precisato la reale portata del titolo di studio conseguito, risultando assodato che per svolgere l'incarico di consulente in quel processo non fosse richiesto il titolo di laurea in ingegneria. Da qui il difetto di rilevanza della falsa dichiarazione affermato dal GUP in sede di giudizio abbreviato e invocato dalla difesa nel ricorso per cassazione.

La questione

Due le questioni controverse risolte dalla sentenza in esame.

La prima questione riguarda la rilevanza della ritrattazione successiva alla dichiarazione ai fini della punibilità del reato previsto dall'art. 496 c.p.

La seconda riguarda l'estensione del giudizio di rilevanza della falsità ai fini della verifica della tipicità della condotta, alla luce del principio di offensività; in particolare vi è da chiedersi se il giudizio di rilevanza della falsità sia da parametrarsi sulla sola finalità di identificazione o anche su ulteriori finalità, di interesse oltre che per il pubblico ufficiale richiedente anche per ulteriori destinatari della dichiarazione medesima.

Le soluzioni giuridiche

Entrambe le questioni sono state risolte dalla Suprema Corte in modo assai tranchant.

Quanto alla prima questione, la Corte ha ribadito che il delitto di false dichiarazioni previsto e punito dall'art. 496 c.p. è delitto a consumazione istantanea, che si perfeziona nel momento in cui la falsa dichiarazione è resa. Nessun pregio avrebbero quindi eventuali dichiarazioni successive così come nessun rilievo potrebbe avere l'eventuale ritrattazione, che non è prevista per questo reato quale causa di non punibilità (art. 376 c.p.). La sentenza in esame cita vari precedenti, concordi nel ribadire la natura istantanea del reato e l'irrilevanza della condotta successiva alla dichiarazione resa. Tra le altre: Cass. pen., sez. V, 16 novembre 2018, n. 8543: «Invero, come già affermato non solo dai Giudici del merito ma anche dallo stesso ricorrente, essendo il reato di cui all'art. 496 c.p. a consumazione istantanea, una volta esibito il documento contraffatto il reato si considera consumato e la condotta successiva diviene dunque ininfluente sul piano della integrazione materiale dello stesso»; sulla ritrattazione: Cass. pen., sez. V, 26 gennaio 1984, n. 2307: «Il delitto di cui all'art. 495 c.p. si consuma nel momento in cui la dichiarazione perviene al pubblico ufficiale, indipendentemente dalla sua riproduzione in un atto pubblico, essendo sufficiente la destinazione a tale riproduzione, che costituisce un elemento qualificativo della condotta, di per sé idoneo a determinare una più intensa lesione dell'interesse protetto che giustifica la più grave sanzione rispetto a quella prevista per l'ipotesi di cui all'art. 496 c.p. (Nella specie si è ritenuto irrilevante la ritrattazione del falso prima della formazione dell'atto pubblico)»; infine: Cass. pen., sez. V, 5 novembre 2021, n. 2676: «Nel delitto di falsa attestazione inerente ad una qualità personale del dichiarante non si richiede il dolo specifico, non essendo rilevante il fine perseguito dall'autore della falsità, ma è sufficiente la coscienza e volontà della condotta delittuosa, consumandosi il reato nel momento in cui la dichiarazione perviene al pubblico ufficiale, indipendentemente dalla sua riproduzione in un atto pubblico. (Fattispecie in cui la S.C. ha escluso che la successiva dichiarazione veritiera resa dall'imputato valga ad escludere l'integrazione del reato)».

La sentenza ha concluso questo primo punto analizzando il tema del dolo, poiché se è vero che la ritrattazione non è causa di non punibilità per il reato di false dichiarazioni è altresì vero che soltanto dalla lettura complessiva della dichiarazione può emergere la reale portata della dichiarazione stessa. Anche nell'analisi del dolo il percorso motivazionale è assai netto e conciso, affermandosi, in sostanza, che il delitto in esame non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente la coscienza e volontà di dichiarare il falso all'interlocutore.

Più interessante appare la seconda questione, attinente alla ritenuta irrilevanza della qualifica dichiarata rispetto al destinatario. La questione concerne, come anticipato, l'estensione del giudizio di rilevanza della falsità, con evidenti riflessi sul giudizio in merito all'offensività della condotta. In particolare, occorre chiedersi se la rilevanza sia da parametrarsi sulla sola finalità di identificazione personale o sia anche da commisurarsi ad ulteriori finalità, di interesse oltre che per il pubblico ufficiale richiedente anche per ulteriori destinatari della dichiarazione medesima. Il ragionamento della Suprema Corte prende avvio dal concetto di qualità personali, oggetto della dichiarazione sulla quale si è interrogati («… interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell'altrui persona …») ribadendo che anche il titolo di studio sia da considerarsi una qualità alla quale fa riferimento l'art. 496 c.p. (sul punto v. Cass. pen., sez. fer., 4 settembre 2012, n. 34536). Sul concetto di qualità personali la sentenza conclude affermando che: «Più recentemente è stato ribadito che nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento l'art. 495 c.p., comma 1, rientrano gli attributi ed i modi di essere che servono ad integrare l'individualità di un soggetto e, cioè, sia le qualità primarie, concernenti l'identità e lo stato civile delle persone, sia le altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali la professione, la dignità, il grado accademico, l'ufficio pubblico ricoperto, una precedente condanna e simili (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2019, n. 19695 Rv. 275920 01)».

Circa il giudizio di rilevanza della falsità rispetto al destinatario della dichiarazione la sentenza cita un precedente (Cass. pen., sez. V, 30 marzo 2016, n. 16725) il cui si era affermato: «Il requisito dell' “interrogazione”, infatti, richiede che la dichiarazione del privato sia rilevante in relazione alla funzione o al servizio esercitato dal destinatario dell'informazione falsa, interpretazione, questa, in linea con il principio di offensività, che, come è noto, opera non solo sul piano della “previsione normativa”, ma anche su quello della “dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato» (Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, Rv. 239921).

Mentre tale citata pronuncia finisce con il cassare la sentenza impugnata per mancanza di motivazione, la pronuncia in esame respinge il ricorso, giudicando ben motivata la sentenza della Corte di appello la quale «non si è limitata ad affermare la falsità della dichiarazione resa, ma ha esteso la valutazione anche al profilo della rilevanza, con motivazione congrua e logica, in relazione all'ufficio pubblico esercitato, nel caso concreto, dalla Corte di assise». Giunto al punto cruciale della motivazione la Suprema Corte contrappone le argomentazioni del GUP a quelle della Corte d'appello. Per il primo, rapportando le dichiarazioni false «alla funzionalità oggettiva della qualifica asserita rispetto all'accertamento tecnico», la condotta manca di offensività «in ragione della circostanza che non era richiesta la laurea in ingegneria per l'incarico consulenziale». Per la seconda, invece, il giudizio di rilevanza deve essere collocato in relazione al soggetto che riceve la dichiarazione (ossia, nel caso concreto, la Corte di assise) concludendo che ben possono «le false dichiarazioni influenzare e indurre in errore l'organo giudiziario sulla preparazione accademica del consulente e sul peso e l'autorevolezza delle sue analisi tecniche, tanto più che il consulente del Pubblico ministero era un militare, né ingegnere né tecnico laureato». Si osserva infine: «Se alla qualità di investigatore privato si aggiunge falsamente quella di ingegnere con una specializzazione di balistica criminologica è inevitabile che si offra un quid pluris significativo in termini di credibilità e autorevolezza, che integri l'offensività richiesta dalla norma incriminatrice».

Da qui la conclusione e l'affermazione del principio di diritto sopra riportato.

Merita un cenno anche la censura relativa alla mancanza di un interrogatorio in senso tecnico, che nel caso di specie non ci sarebbe stato. Anche questa censura viene respinta dalla sentenza in esame che sul punto osserva che «la norma incriminatrice non fa alcun riferimento all'interrogatorio, in senso tecnico … bensì l'espressione utilizzata è “interrogato”, con ciò volendo significare che la dichiarazione non può essere spontanea, come possibile invece nel caso dell'art. 495 c.p. bensì deve essere richiesta dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio». In altre parole, prosegue la sentenza in esame, è necessario (ma anche sufficiente) che la falsità si realizzi nella risposta alla domanda del pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni, quale che sia la finalità dell'atto.

Osservazioni

In punto di diritto l'aspetto più interessante della motivazione riguarda l'estensione del giudizio di rilevanza della falsità rispetto al destinatario della dichiarazione.

Sono astrattamente ipotizzabili due strade: la prima, più restrittiva, che considera priva di tipicità ogni falsa dichiarazione inerente lo stato o altre qualità non necessarie ai fini del tipo di interrogazione prevista; la seconda, più estensiva, che considera rilevante ogni falsità dichiarata, purché offensiva in concreto (occorrendo, cioè, che sia accertato «che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato») essendo il giudizio commisurato non solo alla finalità di identificazione, ma anche a finalità ulteriori, di interesse, oltre che per il pubblico ufficiale richiedente, anche per altri destinatari della dichiarazione.

La sentenza in esame ha decisamente optato per la seconda strada, considerando tipica ed offensiva l'attribuzione di una qualifica non ritenuta veritiera poiché da tale qualifica discenderebbe la maggiore autorevolezza del dichiarante, indipendentemente dalla legittimità nell'assunzione dell'incarico consulenziale, che prescinde dal possesso di detta qualifica.

Riferimenti
  • Degl'innocenti - Tovani, Sub art. 496, in Padovani (a cura di), Codice Penale, Tomo II, VII ed., Giuffrè, 2019, pp. 3345 ss.;
  • Mengoni, Sub art. 1, comma 1, lettera b-ter e lettera b-quinquies) L. 24 luglio 2008, n. 125, L pen 2009, 108 ss.;
  • Pagliaro, Falsità personale, ED 1967, XVI, 646.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.