La VI Sezione Penale si esprime sulla (controversa) nozione di profitto rilevante ai fini della confisca

Donato La Muscatella
23 Settembre 2022

La Corte di Cassazione torna su un tema di grande rilevanza pratica, oggetto, in passato, di un consistente filone giurisprudenziale, non sempre univoco nel definirne chiaramente presupposti dogmatici e conseguenze operative.

Lo fa, con una decisione che sviluppa linearmente i singoli passaggi, avendo cura di dar conto al lettore di numerosi precedenti, ciascuno dei quali di interesse per il giurista pratico.

Al contempo, enuclea una serie di parametri utili, quando la precisa qualificazione delle somme di danaro possedute da uno dei prevenuti non sia esplicita in atti, a ricondurre il sequestro preventivo all'una o all'altra forma di confisca.

Il caso. Il procedimento a quo riguarda un'inchiesta recente, nella quale sono stati coinvolti alcuni militari di Marina, in servizio presso un Comando Stazione Navale, ai quali si contesta, nei differenti ruoli ed in concorso tra loro, di aver abusato della qualità di pubblici ufficiali e dei correlati poteri per indurre i legali rappresentanti di alcune imprese locali a rinunciare all'esecuzione di lavoro già assegnati, dando così modo – ed utilità – ad altra impresa di aggiudicarsi dei successivi appalti.

Il Tribunale territorialmente competente aveva confermato l'originario decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, con cui erano state vincolate alcune somme, giudicate profitto dei reati di “Concorso in induzione indebita a dare utilità e turbata libertà degli incanti”.

Ricorre per la Cassazione dell'ordinanza la difesa di una delle persone sottoposte ad indagini, denunciando con articolato atto introduttivo: error in procedendo comportante la nullità del decreto di sequestro, che in narrativa richiamava la richiesta del Pubblico Ministero, mai notificata al prevenuto; ulteriore violazione di legge processuale, determinante l'inutilizzabilità delle conversazioni intercettate, in violazione dell'art. 270 c.p.p., ad esito di autorizzazione disposta in diversa indagine (e solo a posteriori emessa anche in quella per la quale si procedeva); omessa motivazione circa il periculum in mora, giustificato genericamente con clausole di stile riferite a tutti gli interessati e non ancorate alle concrete esigenze cautelari paventate per il ricorrente; infine, errata applicazione della legge penale con riguardo alla riqualificazione di alcuni episodi e, inoltre, alla individuazione del profitto di reato, posto che lo stesso Tribunale aveva riconosciuto la mancata percezione, da parte dell'impugnante, di un vantaggio economico.

La sentenza. Il Collegio – su parere difforme del Procuratore generale, che aveva insistito per la (integrale) dichiarazione di inammissibilità – annulla l'ordinanza impugnata limitatamente alla individuazione e quantificazione del profitto e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di provenienza, reputando inammissibili i restanti motivi di ricorso.

L'Estensore riesce nel difficile compito di coniugare sintesi ed esaustività, esponendo partitamente le ragioni che portano a condividere il punto di vista del difensore, a partire da una analitica rassegna degli orientamenti di legittimità in materia di profitto.

Si tratta, infatti, di un concetto sguarnito di supporto normativo specifico, non trovando una definizione generale non solo nei codici, ma pure nelle disposizioni speciali che regolano la confisca.

L'ulteriore aspetto significativo della motivazione, poi, è proprio connesso ai criteri da seguire per inferire la natura, cc.dd. diretta o per equivalente, della confisca cui è finalizzato il sequestro in argomento (nel provvedimento impugnato l'argomento non era stato affrontato).

La nozione di profitto rilevante ai fini della confisca. In primis, la Corte di Cassazione indaga l'aspetto definitorio, essenziale al fine di valutare le critiche (e gli interrogativi) del deducente.

Preliminarmente, evidenziano come, in assenza di puntuali indicazioni legislative, possano tracciarsi le caratteristiche del profitto rilevante per azioni cautelari unicamente per via pretoria, valorizzando: la c.d. pertinenzialità tra vantaggio economico e reato (tra le tante, si cita Cass. pen. n. 9194/1996); qualora si tratti di beni cc.dd. surrogati, l'immediatezza del reimpiego dei proventi illeciti, tale da assicurare la “riconoscibilità probatoria” dell'illiceità dei beni (richiamando Cass. pen. n. 38691/2009); la necessaria sussistenza di un incremento materiale del patrimonio del beneficiario, provocato dal delitto con la creazione, la trasformazione o l'acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica (come chiarito, tra le molte, da Cass. pen. n. 26654/2008).

Così definite le coordinate ermeneutiche, si indirizzano verso la più tutelante (e recente) lettura restrittiva, convalidata dal Massimo Consesso, che ha statuito «il principio, che questo Collegio condivide, secondo cui profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato […]» (Cass. pen. n. 31617/2015).

La tipologia di confisca. Ed allora, mancando tale nesso diretto nella fattispecie oggetto di scrutinio, sul piano procedurale il sequestro non può che reputarsi disposto in funzione della confisca per equivalente.

Qui, però, il principio solidaristico che permea la disciplina del concorso di persone incontra limiti evidenti, poiché potrà consentire di agire per l'intero importo ritenuto illecito nei confronti di ciascun indagato «solo nel caso in cui la natura della fattispecie concreta ed i rapporti economici ad essa sottostanti non consentano d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione».

Profilo, quest'ultimo, che la Corte circondariale aveva trascurato di esplorare, unitamente a tutti gli altri parametri capaci di identificare in concreto il futuro obiettivo del sequestro e, per altro verso, apprezzare l'eventuale effettivo accrescimento del patrimonio dell'interessato.

Sarà quindi indispensabile un nuovo approfondimento di merito che investighi tali elementi, che esorbitano il sindacato di legittimità.

Conclusioni. La sentenza in commento interviene a far chiarezza su un istituto complesso e regolato, di fatto, dalla stratificazione delle precedenti pronunce di legittimità, proponendo un'esegesi condivisibile e dotata del pregio di orientare alla prudenza la giurisdizione di merito, per capacità nomofilattica, su istituti non solo teoricamente complicati, ma, altresì, connotati da un significativo impatto sui diritti delle persone coinvolte.

*Fonte: DirittoeGiustizia

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