Omessa dichiarazione di entrate confluite sul conto corrente dell'imputato

Megi Trashaj
20 Ottobre 2022

Tra diritto al silenzio e onere probatorio dell'accusa. È configurabile, nel processo penale, una pregiudiziale tributaria? I due ordinamenti (penale e fiscale) sono connessi o godono di reciproca autonomia?
Massima

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa. Il dato indiziario fornito dalle risultanze delle indagini bancarie non può essere sorretto unicamente o in misura preponderante dal silenzio serbato dal contribuente.

Il caso

La Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza del giudice di prime cure che aveva condannato Tizio per il reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 74/2000.

In particolare, la Corte distrettuale aveva accolto le considerazioni svolte dal primo giudice, il quale, pur avendo fatto riferimento all'accertamento operato dall'amministrazione tributaria, ne avrebbe comunque operato un vaglio critico: sul conto corrente di Tizio sarebbero confluite somme superiori a 242.000 euro che dovevano considerarsi ricavi di esercizio non dichiarati e, pertanto, determinanti per il superamento della soglia di rilevanza penale della condotta omissiva.

Dal canto suo, Tizio aveva serbato un atteggiamento affatto collaborativo e di sostanziale silenzio rispetto alle contestazioni, salvo affermare che “parte” delle somme provenissero da rimesse dei genitori, circostanza che tuttavia non aveva trovato alcun supporto nel quadro indiziario, né nelle allegazioni del contribuente.

Tizio proponeva ricorso per cassazione, lamentando che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto verificare in maniera puntuale se e quali movimentazioni bancarie costituissero reddito non dichiarato del contribuente e se, in particolare, emergessero contestuali uscite bancarie, imputabili a costi di esercizio, che avrebbero condotto ad una quantificazione dell'imposta evasa inferiore alla soglia di rilevanza penale. Inoltre, il ricorrente lamentava l'erroneità delle considerazioni delle Corti di merito nella parte in cui non avevano dato alcun rilievo alle allegazioni circa la provenienza del denaro – almeno in parte – dai genitori dello stesso Tizio: a fronte di una dichiarazione di tal fatta, sarebbe stata la pubblica accusa a dover provare il contrario e cioè che tutte le entrate costituissero invece redditi di esercizio soggetti a tassazione.

La questione

La questione coinvolge un duplice profilo: da un lato la Cassazione è chiamata ad interrogarsi in merito all'utilizzabilità, in sede penale, degli accertamenti effettuati dall'amministrazione tributaria, specialmente quando questi si fondino su presunzioni come quella, rilevante nel caso di specie, prevista dall'art. 32 d.p.r. n. 600/1973, che configura come ricavi sia i prelevamenti sia i versamenti su conti correnti. In secondo luogo, viene in rilievo il ruolo del silenzio o dell'eventuale mendacio dell'imputato e, in particolare, se questo possa costituire elemento o argomento di prova idoneo a sorreggere la condanna unitamente alle presunzioni tributarie di cui si è detto.

In altri termini, rimane sullo sfondo la domanda: è configurabile, nel processo penale, una pregiudiziale tributaria? I due ordinamenti (penale e fiscale) sono connessi o godono di reciproca autonomia?

La risposta offerta dalla Corte trova ampio conforto nelle pronunce della medesima Cassazione già dagli anni '90.

Le soluzioni giuridiche

La decisione della Corte si inserisce in un quadro sostanzialmente omogeneo e consolidato di pronunce che da tempo ormai rigettano l'utilizzabilità delle presunzioni tributarie se non come argomenti di prova, da affiancare necessariamente ad altri elementi fattuali che emergano dalle indagini e dalla ricostruzione processuale.

Per meglio comprendere la portata dell'affermazione della Corte è necessario premettere e definire alcuni elementi. In primo luogo, quando la sentenza menziona le presunzioni tributarie, fa diretto riferimento all'art. 32 d.p.r. 600/1973, norma che disciplina alcuni profili dell'accertamento fiscale in materia di imposte sui redditi e che al comma 1, n. 2), prevede: “sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”. Il legislatore tributario, in altri termini, consente che, nell'accertamento delle imposte evase, ove il contribuente non fornisca elementi a proprio discarico, debbano essere considerati alla stregua di ricavi (e dunque soggetti a tassazione) i prelevamenti o i versamenti su conti correnti bancari di importo rilevante.

Nel caso di specie, Tizio vantava sul proprio conto delle entrate superiori a 242.000 euro, circostanza che aveva destato non solo l'interesse dell'amministrazione finanziaria, ma che determinava altresì il superamento della soglia di rilevanza penale prevista dall'art. 5 d.lgs. 74/2000, in virtù del quale “è punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila” (la cornice edittale è stata innalzata dal d.l. 124/2019, mentre in precedenza era prevista la pena della reclusione da 1 anno e 6 mesi a 4 anni). Ai fini della quantificazione dell'imposta evasa, la Cassazione ha più volte precisato «per la determinazione dell'imposta evasa ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve tenersi conto anche degli elementi negativi del reddito, a condizione che siano legittimamente detraibili, spettando esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l'ammontare dell'imposta evasa, da intendersi come l'intera imposta dovuta». Pertanto, sebbene i criteri tecnico-matematici per stabilire quali elementi di reddito siano o meno detraibili (e possano dunque abbattere l'ammontare dell'imposta evasa) siano comuni ad entrambi gli ordinamenti, il giudice penale non può attenersi supinamente alle considerazioni operate dall'amministrazione finanziaria e deve anzi effettuare una verifica «che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario» (cfr. Cass. pen., 23 settembre 2014, n. 38684).

Il rigore che si impone al giudice penale è d'altronde coerente con entrambi i profili fondamentali in tema di reati tributari che la Suprema Corte ha affermato negli ultimi anni: da un lato, vi è la necessità che l'organo decidente appuri con esattezza l'origine della ricchezza di cui si lamenta la mancata dichiarazione, non potendo a ciò bastare l'accertamento induttivo (né tantomeno presuntivo, ove possibile) dell'amministrazione finanziaria; in secondo luogo, se è vero che non esiste alcuna pregiudiziale tributaria e che i principi del diritto penale devono rimanere saldi, neppure può accollarsi all'imputato l'onere di vincere una qualsiasi presunzione che, anche ove non riguardi direttamente la sua colpevolezza (cosa che sarebbe in aperto contrasto con l'art. 27 della Costituzione), attenga comunque all'ambito delle condotte che assumono rilevanza penale. In altri termini: non solo sarebbe incostituzionale una presunzione di colpevolezza fondata esclusivamente sull'accertamento tributario, ma la giurisprudenza – correttamente – nega ogni cittadinanza anche a presunzioni sulla quantificazione dell'imposta evasa che, comunque, incidono sulla rilevanza penale del fatto.

La conclusione cui giunge la Cassazione non è peraltro un'inedita svolta pro reo, ma è del tutto coerente con l'autonomia del giudizio penale, che, sebbene debba “mutuare” dal settore tributario le regole per determinare l'imponibile, persegue finalità ed è retto da principi del tutto differenti.

La presunzione di cui all'art. 32 d.p.r. n. 600/1973, pertanto, non può essere trasposta tout court nell'ambito del processo penale e il giudice dovrà procedere ad un accertamento puntuale e sorretto da risultanze istruttorie “proprie”. D'altro canto, anche gli elementi negativi di reddito, favorevoli all'imputato, anche i costi non contabilizzati possono venire in rilievo (ai fini della riduzione dell'ammontare dell'imposta evasa) solo se in concreto emergano elementi fattuali che facciano sorgere almeno il dubbio circa la loro esistenza (cfr. Cass. pen., 29 maggio 2015, n. 37094 che ha trovato conferma anche in Cass. pen., 16 gennaio 2019, n. 8700).

Dunque, quale spazio residua alle presunzioni tributarie nel processo penale? La Cassazione in commento ritiene che possano assumere esclusivamente rilievo quali «dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa», sicché, ove non vi siano «elementi oggettivi di riscontro rispetto alle emergenze dei dati bancari», s'imporrà l'assoluzione.

La Corte specifica inoltre che nessun sostegno alle presunzioni tributarie potrebbe provenire dalla condotta serbata dall'imputato. Infatti «non è consentito al giudice desumere dal silenzio dell'imputato sulla giustificazione di apparenti entrate reddituali, elementi o indizi di prova a suo carico, atteso che allo stesso è riconosciuto il diritto al silenzio e che l'onere della prova grava sull'accusa […]. La negazione o il mancato chiarimento, da parte dell'imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare […] non potendo determinare alcun sovvertimento dell'onere probatorio». Quindi: l'imputato gode del diritto al silenzio, da cui il giudice può solo trarre (in via residuale) ulteriore conferma della colpevolezza quando vi sia un quadro d'accusa univoco e completo.

Osservazioni

Leggendo la sentenza in commento verrebbe quasi da chiedersi se davvero fosse necessario “scomodare” principi tanto elementari quanto fondamentali del diritto penale. La Cassazione richiama la presunzione di innocenza, da cui discende l'onere della prova in capo alla sola accusa; il principio nemo tenetur se detegere; ricorda che il giudice penale è portatore di competenze sufficienti e necessarie a decidere anche processi che richiedano un elevato grado di conoscenze tecniche (nell'ambito della prova scientifica si direbbe che egli è peritus peritorum); ribadisce l'autonomia del settore penale dagli altri rami dell'ordinamento. Tutto ciò “solo” per giungere alla conclusione – date tali altisonanti premesse, pressoché scontata – che non è possibile, nel caso di specie, addivenire alla condanna di Tizio senza che il giudice del merito accerti in concreto l'ammontare dell'imposta evasa e verifichi se davvero vi fossero altri costi di esercizio detraibili come lamentato dal ricorrente.

Invero, lo sforzo argomentativo della Cassazione non è senza ragione. È doveroso, in tal senso, considerare due fattori, l'uno di natura “empirico-criminologica”, l'altro di natura prettamente processuale.

Sul primo fronte è utile ricordare che la legislazione tributaria, in continua evoluzione, sembra muoversi a partire dai dati empirici sul triste primato che da anni caratterizza l'Italia: la Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva per l'anno 2021, pubblicata dal MEF, conferma infatti che la penisola gode sempre di un posto in prima fila quando si parla di compliance gap, evasione fiscale (soprattutto in tema di imposte indirette) ed economia sommersa, risultando tra i Paesi peggiori del contesto europeo.

Per rispondere a tali preoccupazioni provenienti dalle indagini “sul campo”, il legislatore penale è intervenuto di recente sulla normativa tributaria al fine di inasprire il trattamento sanzionatorio, partendo dal presupposto (per il vero indimostrato, cfr. R. Paternoster, Deterring Corporate Crime, in Criminology & Publica Policy, Vol. 15, 2016) secondo il quale questo sia il metodo politico-criminale più corretto per la deterrenza e quindi la prevenzione dell'illecito. Da ultimo in tal senso si veda il d.l. 124/2019, conv. con modifiche in l. n. 157/2019, (per il quale è stato riutilizzato il vecchio slogan “manette agli evasori” coniato dai commentatori con riferimento alla superata l. n. 516/1982) che ha inasprito il trattamento sanzionatorio di diverse disposizioni presenti nel d.lgs. 74/2000 (e, per quanto qui di interesse, dell'omessa dichiarazione di cui all'art. 5) e ha previsto la responsabilità “amministrativa” dell'ente ex d.lgs. n. 231/2001 per reati tributari (art. 25-quinduiesdecies d.lgs. 231/2001).

A fronte di tali trend sanzionatori, diretti sia all'inasprimento di pene che all'inclusione di nuovi soggetti (le corporation) tra gli autori dei reati tributari, pare più facile inquadrare le pronunce della Cassazione in materia (tra le quali può essere annoverata anche la sentenza in commento), che premono – in controtendenza rispetto al legislatore mosso da istanze “punitive” – nel rifiutare ogni automatismo o presunzione ai fini di condanna, pretendendo un accertamento serio ed “in concreto” che possa davvero garantire il superamento della soglia di convincimento del giudice “oltre ogni ragionevole dubbio”, principio quello del “beyond a resonable doubt” formalmente positivizzato all'art. 533 c.p.p. e avente fondamento negli artt. 25, comma 2, Cost., che stabilisce il principio di legalità, e 27, comma 3, Cost., che enuncia la funzione “rieducativa” della pena.

D'altro lato, venendo ai profili processuali, la Cassazione insiste nel ribadire il ruolo del giudice e la sua autonomia anche rispetto ad altri soggetti che intervengono nel processo penale. La Corte vuole probabilmente evitare che la presenza di relazioni particolareggiate e caratterizzate da elevati profili di tecnicismo (si pensi alle dettagliate relazioni della Guardia di Finanza) inducano il giudicante nella tentazione di seguire supinamente le conclusioni dell'amministrazione finanziaria e gli esiti del processo tributario senza operare un accertamento critico delle risultanze istruttorie e pretendendo che sia l'imputato a giustificare in modo convincente eventuali entrate reddituali. La Cassazione nega recisamente ogni sovvertimento dell'onere della prova, anche a costo di ribadire principi basilari del processo penale che sembravano “scontati”.

Per quanto riguarda invece il diritto al silenzio dell'imputato, l'esito della pronuncia in commento può essere considerato “scontato”, e quindi facilmente prevedibile, soprattutto a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha ribadito “il diritto fondamentale al silenzio” anche nei procedimenti volti all'irrogazione di sole sanzioni amministrative quando “dalle risposte alle domande” possa emergere la responsabilità del soggetto al quale è richiesta la dichiarazione (C. cost., 30 aprile 2021, n. 84).

È proprio alla luce di tali elementi e esigenze che sembra allora potersi spiegare la conclusione della Cassazione: le presunzioni tributarie non sono solo inidonee a costituire di per sé prova della commissione del reato, ma non godono di rilievo neppure indiziario «posto che nel reato di omessa dichiarazione è rimesso al giudice penale il compito di accertare l'ammontare dell'imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione» con quest'ultimo. Dunque: le presunzioni sono meri dati di fatto, che concorrono a formare un quadro probatorio necessariamente più ampio e corredato da elementi concreti di maggior pregio, che non possono mai fondare, di per sé, la condanna dell'imputato.

Un'ultima notazione: se le presunzioni non possono mai bastare alla decisione sulla responsabilità penale, diverse sono le conclusioni della giurisprudenza consolidata quanto all'utilizzabilità delle stesse in materia cautelare. Queste, infatti, «hanno valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti in assenza di elementi contrari e giustificare l'applicazione della misura cautelare reale. In materia di misure cautelari reali è noto, infatti, che, ai fini della applicazione della misura, non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ex art. 273 c.p.p., essendo sufficiente l'esistenza del fumusdel reato secondo la prospettazione della pubblica accusa sulla base della indicazione di dati fattuali operando un controllo non meramente cartolare sulla base fattuale nel singolo caso concreto» (Cfr. Cass. pen., 10 maggio 2018, n. 26274, che ha approfondito le conclusioni cui era già giunta Cass. pen., 13 febbraio 2013, n. 7078).

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