Il velo islamico nella recente sentenza della Corte di giustizia. Alla ricerca del c.d. diritto mite

Roberto Cosio
28 Ottobre 2022

Lavoro: il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se applicata in maniera generale e indiscriminata. Secondo la Corte, la religione e le convinzioni personali devono essere considerate un solo e unico motivo di discriminazione, altrimenti pregiudicando il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro stabilito dal diritto dell'Unione, più in particolare dalla direttiva 2000/78.
Premessa

Le questioni oggetto della recente sentenza della Corte di giustizia del 13 ottobre 2022 (C-344/20) sollevano problematiche che vanno al di là del caso esaminato.

Prima di tutto, in estrema sintesi, il fatto.

Il rinvio, da parte del Tribunale del lavoro di Bruxelles, ha avuto origine da una controversia tra LF e la SCRL, avente ad oggetto una domanda spontanea per uno stage che non è stata presa in considerazione a causa del rifiuto della candidata di conformarsi alla regola di neutralità interna imposta ai dipendenti dell'azienda.

Tale regola vietava la manifestazione, sul posto di lavoro, delle proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche di qualsiasi tipo, in particolare attraverso indumenti.

Il tema del velo islamico, che assume particolare attualità in relazione alla situazione in cui versano le donne in Iran (1), ha sollecitato la Corte di giustizia ad affrontare ancora una volta la questione se alle dipendenti in un'azienda privata, incluse le stagiste, possa essere vietato, sul posto di lavoro, di indossare un determinato indumento rispondente a precetti religiosi.

La Corte di giustizia, con la sentenza in esame, non riprende soltanto (integrandole) le affermazioni contenute nei suoi precedenti.

In realtà, la sentenza va oltre.

Per un verso, fornisce importanti chiarimenti sull'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78 (con un impatto potenzialmente rilevante sulla giurisprudenza, anche di legittimità italiana), affermando che i termini «religione» e «convinzioni personali» vanno trattati come due facce «dello stesso e unico motivo di discriminazione». Sotto questo aspetto si pone il problema se le affermazioni della Corte comportano un superamento dell'orientamento giurisprudenziale italiano, anche di legittimità, in tema di discriminazioni per ragioni sindacali.

Per altro verso, la Corte affronta il delicato tema del bilanciamento tra la libertà di religione e altri diritti fondamentali.

In questo contesto, la Corte si sforza di trovare un equilibrio tra un'interpretazione uniforme del principio di non discriminazione, nel contesto dell'applicazione della direttiva 2000/78 e l'esigenza di lasciare un margine di discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità del loro approccio al ruolo della religione in una società democratica.

In particolare, la controversia ha imposto un approfondito esame del potere discrezionale di cui dispongono gli Stati membri, ai sensi dell'art. 8 della direttiva 2000/78, di adottare disposizioni più favorevoli alla tutela del principio di parità di trattamento rispetto a quelle preiste da tale direttiva, in particolare considerando la religione e le convinzioni religiose come un motivo autonomo di discriminazione.

Da ultimo, la sentenza impone una riflessione sul c.d. diritto mite.

Concetto di teoria generale, oggetto di una profonda riflessione da parte delle Sezioni unite della Corte di cassazione in tema di esposizione del crocifisso.

Conviene peraltro procedere per gradi, ricordando alcune delle pronunce più significative in tema di discriminazione religiosa nell'ambito dell'ordinamento multilivello.

Uno sguardo sui precedenti

Le questioni oggetto della causa C-344/20 (decise il 13 ottobre 2022) si pongono sul solco delle sentenze WABE (cause riunite C-804/18 e C-341/19) (2) e delle due sentenze del 2017 G4S Secure Solutions e Bougnaoui e ADDH (3).

Le sentenze del 2017 ri riferiscono a fattispecie simili ma non identiche. Le questioni possono essere sintetizzate in due domande: a) se un datore di lavoro privato possa vietare ad una dipendente di fede musulmana di indossare un velo sul luogo di lavoro; b) se il datore di lavoro possa licenziarla qualora la dipendente rifiuti di togliere il velo sul luogo di lavoro. Chiamata a decidere se il divieto imposto dalle aziende costituisse un'illegittima discriminazione indiretta a danno delle fedeli mussulmane, ovvero, essendo giustificato dalla libertà d'impresa, potesse ritenersi una previsione legittima nell'ottica della direttiva antidiscriminatoria, la Corte ha ritenuto adeguato il “perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti” idonea a fungere da finalità legittima per una restrizione della libertà religiosa delle dipendenti, in quanto tale intenzione rientra nell'ambito della libertà d'impresa.

La Corte di giustizia lascia al giudice del rinvio di valutare “che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari” (4).

Le questioni di questo tipo sono sempre più frequenti, anche in Italia.

Si ricorda, ad esempio, la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 4 maggio 2016, che ha riformato la sentenza del Trib. di Lodi del 3 luglio 2014 (5).

Le questioni pregiudiziali relative alla religione sono state, peraltro, oggetto di due importanti pronunce della Corte di Lussemburgo nel 2018 (Corte giust. UE, 17 aprile 2018, n. C-414/16 e 11 settembre 2018, n. C-68/17). In un caso un ente religioso aveva rifiutato di prendere in considerazione la candidatura di una signora che nel suo curriculum aveva dichiarato di essere atea; nel secondo un ospedale cattolico aveva licenziato un primario di fede cattolica, sposato con rito religioso, che aveva divorziato e si era risposato con matrimonio civile. La Corte ha interpretato l'art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78/CE nel senso che nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata su tali fattori non costituisce discriminazione laddove questi ultimi rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. La Corte ha, altresì, affermato che, nel caso in cui la disparità di trattamento per motivi religiosi non possa essere giustificata in base a criteri posti dalla direttiva 2000/78, la tutela effettiva del divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o convinzione personale potrà comunque essere invocata direttamente dai singoli sulla base degli articoli 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che sanciscono, rispettivamente, il divieto di discriminazione per motivi religiosi e il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, in quanto tali diritti sono idonei a produrre effetti diretti e non necessitano di essere precisati mediante disposizioni di diritto dell'Unione o del diritto nazionale (6).

La Corte di giustizia, nella sentenza Cresco Investigation (Corte giust. UE, 22 gennaio 2019, C-193/17), si è, infine, occupata del trattamento ricevuto in Austria dagli appartenenti ad alcuni gruppi religiosi che godevano di un giorno di festività in più, anche retribuito in aggiunta, rispetto agli appartenenti ad altre fedi religiose o ai non credenti. La Corte di giustizia ha ritenuto che una normativa nazionale in virtù della quale il venerdì santo sia un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane e solo tali lavoratori abbiano diritto, se chiamati a lavorare in tale giorno festivo, ad un'indennità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte in tale giorno, costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione, in quanto tale previsione non costituisce una misura necessaria alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell'art. 2, par. 5, della direttiva, né una misura specifica destinata a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell'art. 7, par. 1.

Sul rapporto tra religione e convinzioni personali

Con la sua prima questione, il giudice di Bruxelles chiede, in sostanza, se l'articolo 1 della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che l'espressione «religione o (...) convinzioni personali» ivi contenuta costituisce un solo e unico motivo di discriminazione o se, al contrario, tale espressione riguardi motivi di discriminazione distinti.

La Corte di giustizia, richiamando la sentenza WABE e MH Müller Handel (7), afferma che, ai fini dell'applicazione della direttiva 2000/78, i termini «religione» e «convinzioni personali» vanno trattati come due facce «dello stesso e unico motivo di discriminazione».

Secondo tale precedente (8), come risulta dall'articolo 21 della Carta, il motivo di discriminazione fondato sulla «religione o le convinzioni personali» deve essere distinto dal motivo attinente alle «opinioni politiche o [a] qualsiasi altra opinione» e pertanto include tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali.

Quanto all'espressione «di qualsiasi tipo» impiegata per quanto riguarda le convinzioni personali menzionate nel regolamento di lavoro di cui si parla nel procedimento principale, la Corte ritiene “sufficiente constatare che la tutela contro la discriminazione garantita nella direttiva 2000/78 comprende solo i motivi tassativamente menzionati all'articolo 1 di tale direttiva, cosicché quest'ultima non comprende né le convinzioni politiche o sindacali né le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. La protezione di tali convinzioni personali da parte degli Stati membri non è pertanto disciplinata dalle disposizioni di detta direttiva”.

In sintesi, secondo la Corte di giustizia “l'articolo 1 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che l'espressione «religione o (...) convinzioni personali» ivi contenuta costituisce un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali”.

L'affermazione, formulata in forma assertiva, ha un impatto notevole sul diritto interno (letto in connessione con l'ordinamento UE).

Le discriminazioni per convinzioni personali sono contemplate negli artt. 10 e 19 del TFUE e nell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali. Sono poi oggetto di specifica considerazione, insieme ad altri fattori di discriminazione, da parte della direttiva 2000/78 del 27 novembre 2000.

Sotto il profilo nazionale, la materia è regolata dal D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come modificato dalla L. 23 dicembre 2021, n. 238 (9).

Dall'insieme normativo descritto, si ricava l'impressione che le “convinzioni personali” sono connesse a quelle religiose come si desume, sotto il profilo esegetico, dalla particella disgiuntiva “o” contenuta nella direttiva 2000/78 o dalla virgola contenuta nel D.lgs. n. 216/2003.

Resta il fatto che sul tema si registrano posizioni divergenti.

In dottrina, vi è chi (10) non le considera una fattispecie autonoma e chi (11), invece, attribuisce alle stesse un contenuto molto ampio, una sorta di norma di chiusura del diritto antidiscriminatorio.

Sul fronte giurisprudenziale si registrano significative pronunce.

La Corte EDU ha incluso tra le “convinzioni personali” una filosofia improntata sul pacifismo (12), la contrarietà ad un sistema educativo che prevede punizioni corporali (13), l'opposizione all'aborto (14), il veganismo e l'opposizione alla manipolazione di prodotti di origine animale o testati sugli animali (15), l'opposizione di coscienza al servizio militare (16).

Per quanto riguarda l'Italia, sia la giurisprudenza di merito (17) che la Cassazione (18) hanno ampliato ulteriormente la nozione di “convinzioni personali” facendovi rientrare anche le discriminazioni per motivi sindacali.

Quest'ultima sentenza di legittimità, che riprende in gran parte le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello di Roma, è particolarmente importante per lo spessore della motivazione che, nella parte che interessa, si trascrive:

“9.1. Con riguardo alla possibilità di includere nell'espressione "convinzioni personali" (le discriminazioni per ragioni sindacali) (…) la Direttiva 2000/78 stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, individuando il campo di applicazione del provvedimento, le azioni e le misure specifiche dirette ad evitare le discriminazioni sul luogo di lavoro.

9.2. Essa trova fondamento nell'art. 13 del trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull'Unione Europea, i trattati che istituiscono le Comunità Europee e alcuni atti connessi che, nella versione pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. C 340 del 10 novembre 1997 testualmente recita "Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e, nell'ambito delle competenze da esso conferite il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. " La contiguità dei due termini, religione e convinzioni personali, separati dalle altre definizioni da una virgola, pone in rilievo l'affinità dei due concetti, senza tuttavia confonderli.

9.3. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. Carta di Nizza) all'art. 21 ribadisce il divieto di qualsiasi forma di discriminazione. La versione ufficiale dell'art. 21 testualmente recita: "Non discriminazione 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali". L'elenco dei possibili motivi di discriminazione contenuti nell'art. 21, tra cui le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, non è esauriente, ma costituisce solo un tentativo di esemplificazione espresso dalla formula " in particolare".

9.4. Accedendosi ad una interpretazione delle norme coerente con la ratio della norma comunitaria letta alla luce dei principi fondamentali del Trattato, nel caso specifico può senz'altro ritenersi che la direttiva 2000/78/CE, tutelando le convinzioni personali avverso le discriminazioni, abbia dato ingresso nell'ordinamento comunitario al formale riconoscimento (seppure nel solo ambito della regolazione dei rapporti di lavoro) della libertà ideologica il cui ampio contenuto materiale può essere stabilito anche facendo riferimento all'art. 6 della TUE e, quindi, alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Infatti, se il legislatore comunitario avesse voluto comprendere nelle convinzioni personali solo quelle assimilabili al carattere religioso, non avrebbe avuto alcun bisogno di differenziare le ipotesi di discriminazione per motivi religiosi da quelle per convinzioni per motivi diversi. Il contenuto dell'espressione "convinzioni personali" richiamato dall'art. 4 d.lgs. 216/03 non può perciò che essere interpretato nel contesto del sistema normativo speciale in cui è inserito, restando del tutto irrilevante che in altri testi normativi l'espressione "convinzioni personali" possa essere utilizzata come alternativa al concetto di opinioni politiche o sindacali. Sicuramente l'affiliazione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati.

9.5. Nella giurisprudenza di questa Corte non si rinvengono precedenti specifici, tuttavia in alcune pronunce di legittimità, sia pure in fattispecie aventi diverso oggetto, incidenter tantum, l'espressione convinzioni personali è stata qualificata come professione di un'ideologia di altra natura rispetto a quella religiosa (in tal senso Cass. 10179/04 e, da ultimo, Cass. 3821/2011, che definisce la discriminazione per convinzioni personali come quella fondata su ragioni di appartenenza ad un determinato credo ideologico).

9.6. Pertanto, nell'ambito della categoria generale delle convinzioni personali, caratterizzata dall'eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, può essere ricompresa, diversamente da quanto sostiene la società, anche la discriminazione per motivi sindacali, con il conseguente divieto di atti o comportamenti idonei a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione dell'affiliazione o della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali” (19).

Questa ricostruzione delle discriminazioni sindacali nell'alveo di quelle per convinzioni personali ha, però, suscitato delle perplessità in dottrina.

Vi è chi (20) ha evidenziato che le discriminazioni sindacali sono solo quelle contemplate dall'art. 15 dello Statuto dei lavoratori e che non rientrano nel concetto di convinzioni personali e chi (21) ha osservato che la mera iscrizione ad un sindacato non costituisce una credenza in sé ma un elemento prettamente formale, che non dimostra la condivisione dell'ideologia sottostante.

Queste perplessità possono trovare sostegno nella causa C-344/20 (decisa il 13 ottobre 2022) laddove la Corte di giustizia ha affermato che i termini «religione» e «convinzioni personali» vanno trattati come due facce «dello stesso e unico motivo di discriminazione» e che la tutela contro la discriminazione garantita nella direttiva 2000/78 comprende solo i motivi tassativamente menzionati all'articolo 1 di tale direttiva, cosicché quest'ultima non comprende né le convinzioni politiche o sindacali né le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo. La protezione di tali convinzioni personali da parte degli Stati membri non è pertanto disciplinata dalle disposizioni di detta direttiva”.

La Corte di giustizia, in una successiva sentenza in tema di discriminazione per ragioni di età (22), ha, peraltro, ribadito che “i motivi di cui all'art. 1 (della direttiva 2000/78) sono elencati in modo tassativo” (punto 64) e che “tale disposizione non riguarda le discriminazioni fondate su motivi diversi da quelli espressamente elencati” (punto 66).

L'accoglimento di questa opzione ermeneutica (che esclude le discriminazioni sindacali dall'area delle convinzioni personali) non priva i lavoratori di una adeguata tutela considerato che l'art. 15 dello Statuto dei lavoratori si applica a qualsiasi tipologia di atti lesivi, a prescindere dal soggetto che li pone in essere: ciò corrisponde “alla qualificazione della libertà sindacale quale diritto assoluto di libertà facente capo al lavoratore, che, una volta affermatane la efficacia interprivata, è tendenzialmente protetto contro tutte le manifestazioni del potere privato capaci di lederlo effettivamente” (23).

Sulla distinzione tra discriminazione diretta e indiretta

Con la sua terza questione, che la Corte di giustizia esamina in secondo luogo, il giudice belga chiede, in sostanza, se l'articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una disposizione di un regolamento di lavoro di un'impresa che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose, filosofiche o politiche, di qualsiasi tipo, costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali», ai sensi di tale direttiva.

La Corte di giustizia, preliminarmente, richiama il suo precedente, espresso nella sentenza WABE e MH Müller Handel (24) dove ha dichiarato che una norma interna di un'impresa che vieta soltanto di indossare segni vistosi di grandi dimensioni di convinzioni segnatamente religiose o filosofiche può costituire una discriminazione diretta, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, “nei casi in cui tale criterio sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali determinate”.

Tuttavia, precisa la Corte, la questione sollevata nel caso di specie “riguarda una norma che non vieta di indossare segni vistosi di grandi dimensioni, bensì di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul luogo di lavoro” (punti 32 e 36).

La Corte, richiamati i suoi precedenti (punti 33-35), afferma “che una norma interna come quella di cui trattasi nel procedimento principale può istituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, che l'obbligo apparentemente neutro che essa contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia.

In questo contesto (eventuale discriminazione indiretta) entrano in gioco i consueti parametri di valutazione costituiti: a) dall'esistenza di una finalità legittima; e b) dalla “proporzionalità” dell'intervento.

Sotto il primo profilo (finalità legittima) la Corte ribadisce (25) che “la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima. Infatti, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un'immagine di neutralità rientra nella libertà d'impresa, riconosciuta dall'articolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo.

Tuttavia, precisa la Corte: “la semplice volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità, sebbene costituisca, di per sé, una finalità legittima, non è sufficiente, in quanto tale, a giustificare in modo oggettivo una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un'esigenza reale di tale datore di lavoro, che spetta a quest'ultimo dimostrare.

Tale interpretazione, conclude la Corte, “è ispirata dall'intento di incoraggiare per principio la tolleranza e il rispetto, nonché l'accettazione di un maggior grado di diversità e di evitare uno sviamento della creazione di una politica di neutralità all'interno dell'impresa a danno dei dipendenti che rispettano precetti religiosi che impongono di portare una determinata tenuta di vestiario”.

Le affermazioni della Corte sono molto importanti.

La Corte, in primo luogo, ribadisce, in linea con i suoi precedenti (26), che il divieto di discriminazione religiosa non costituisce una discriminazione diretta “ove tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata”.

Tale circostanza, però, non esclude una discriminazione indiretta qualora il giudice di rinvio accerti che “l'obbligo apparentemente neutro di contenuto” (norma interna) “comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia”.

In questo contesto, il ruolo del giudice nazionale è “centrale” (27).

Sotto il profilo della finalità legittima, la Corte ritiene che la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima, “in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo ”.

Infatti, afferma la Corte nella sentenza WABE, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un'immagine di neutralità rientra nella libertà d'impresa (28), riconosciuta dall'articolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo (29).

Affermazione che si pone in linea con la giurisprudenza della CEDU (30).

Una prassi che imponga ai dipendenti di indossare una uniforme o un determinato tipo di abbigliamento, infatti, rientra, secondo la giurisprudenza di Strasburgo (31), nella nozione di “finalità legittima.

Più delicato si presenta l'esame del requisito di “proporzionalità”.

Sotto questo profilo, occorre bilanciare il diritto del lavoratore di indossare simboli religiosi con la facoltà, per il datore di lavoro, di imporre restrizioni. Da questo punto di vista, non basta il requisito soggettivo (la volontà del datore di lavoro). Occorre, secondo la Corte, qualcosa di più: un'esigenza reale.

Per la prova di tale esigenza reale si può, in primo luogo, tener conto, in particolare, dei diritti e delle legittime aspettative dei clienti o degli utenti.

Ciò vale, ad esempio (come nel caso WABE), per il diritto dei genitori di provvedere all'educazione e all'istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche riconosciuto all'articolo 14 della Carta e per il loro desiderio di far educare i loro figli da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali allorché sono a contatto con i bambini al fine, segnatamente, di «garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini per quanto riguarda la religione, le convinzioni personali e la politica», come previsto dall'istruzione di servizio adottata dalla WABE”.

Ma non basta.

Occorre (anche) la prova: a) “del fatto che, in assenza di una tale politica di neutralità politica, filosofica e religiosa, sarebbe violata la sua libertà di impresa, riconosciuta all'articolo 16 della Carta, dal momento che, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui esse si inscrivono, egli subirebbe conseguenze sfavorevoli”; b) che la politica di neutralità “sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche e religiose, che tale norma comporta, si limiti allo stretto necessario (…) alla luce delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un tale divieto”.

Insomma, la volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità non è sufficiente per rendere legittima la sua condotta. Occorre la prova, che incombe sul datore di lavoro, di una esigenza reale che supporti il divieto.

Un ulteriore elemento probatorio che svolge un ruolo essenziale nel bilanciamento dei diritti in gioco.

Sul margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per introdurre disposizioni più favorevoli di quelle fissate dalla direttiva 2000/78

Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l'articolo 1 della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che osta a che disposizioni nazionali volte a garantire la trasposizione di tale direttiva nel diritto nazionale, le quali sono interpretate nel senso che le convinzioni religiose, filosofiche e politiche costituiscono tre distinti motivi di discriminazione, possano essere considerate, «per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste [in tale direttiva]», ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 1, di quest'ultima.

In sostanza, il giudice belga chiede alla Corte di chiarire il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella direttiva 2000/78, ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva.

Il considerando 28 della direttiva 2000/78 dispone che la direttiva si limita a fissare requisiti minimi, lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli.

Quanto enunciato nel considerando 28 della direttiva 2000/78 si concretizza nell'articolo 8 di quest'ultima, intitolato «Requisiti minimi».

In particolare, l'articolo 8, paragrafo 1, stabilisce che gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda la parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste dalla suddetta direttiva.

In tal senso, la direttiva 2000/78 contiene una disposizione in base alla quale gli Stati membri possono adottare una normativa che preveda un livello di protezione più elevato di quello garantito dalla direttiva (32).

L'articolo 8, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 prevede altresì che l'attuazione di tale direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri negli ambiti di applicazione della direttiva.

Nella sentenza Bulicke (33) la Corte di giustizia ha dichiarato che l'articolo 8 della direttiva 2000/78 non osta a una norma processuale nazionale, adottata al fine di attuare la direttiva stessa, che abbia l'effetto di modificare una normativa precedente che prevedeva un termine per chiedere un risarcimento in caso di discriminazione fondata sul sesso.

Nella causa Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, la Corte (34) ha ritenuto che l'articolo 8 della direttiva 2000/78 non osti ad una normativa nazionale in virtù della quale un'associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consisteva nel difendere in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale, sia automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti da tale direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno.

Nella sentenza WABE (35), infine, la Corte ha dovuto affrontare, da un punto di vista sostanziale, la questione se disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione e di coscienza potessero essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

La Corte, richiamando quest'ultimo precedente, ribadisce “che disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli ai sensi di tale disposizione, nell'ambito dell'esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”.

Ciò premesso, però, la Corte afferma che tale precedente non può trovare applicazione nel caso di specie.

I punti centrali della motivazione della sentenza, sotto questo profilo, sono quelli dal nn. 53 al 55 della decisione:

“53. È giocoforza constatare che ciò non è il caso delle disposizioni nazionali esaminate nella presente causa. Infatti, secondo le spiegazioni fornite dal giudice del rinvio, tali disposizioni avrebbero l'effetto di trattare la «religione» e le «convinzioni personali» quali motivi di discriminazione distinti.

54. Orbene, il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri non può estendersi fino a consentire a questi ultimi o ai giudici nazionali di scindere, in vari motivi, uno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all'articolo 1 della direttiva 2000/78, salvo mettere in discussione il testo, il contesto e la finalità di tale motivo e pregiudicare l'effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito da tale direttiva.

55. Infatti, poiché il motivo di discriminazione costituito dalla «religione o le convinzioni personali» copre tutti i dipendenti allo stesso modo, un approccio segmentato di tale motivo, secondo l'obiettivo perseguito dalla regola di cui trattasi, avrebbe la conseguenza di creare sottogruppi di dipendenti e di pregiudicare così il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito dalla direttiva 2000/78”.

La Corte, in questo contesto, si fa carico della “preoccupazione” espressa dal giudice di rinvio secondo cui “l'esistenza di un criterio unico, comprendente le convinzioni religiose e filosofiche, avrebbe l'effetto di ridurre il livello di tutela contro le discriminazioni dirette fondate su tali motivi, in quanto osterebbe ai confronti tra dipendenti, rispettivamente animati di convinzioni religiose e convinzioni filosofiche”.

La risposta si articola in due punti (58-59):

“58. Da un lato, e come rilevato da tale giudice, il problema di una siffatta comparabilità è rilevante solo ai fini della valutazione dell'esistenza di una discriminazione diretta. Orbene, la sussistenza di una discriminazione diretta è esclusa in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, come ricordato al punto 33 della presente sentenza.

59. Dall'altro, e in ogni caso, la Corte ha avuto l'opportunità di precisare che il divieto di discriminazione previsto dalla direttiva 2000/78 non è limitato alle sole differenze di trattamento esistenti tra persone che aderiscono a una religione o a convinzioni personali e quelle che non aderiscono ad una religione o a determinate convinzioni personali (v., in tal senso, sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19, EU:C:2021:594, punto 49). In altri termini, l'esistenza di un criterio unico, che comprenda la religione e le convinzioni personali, non osta ai raffronti tra i dipendenti animati da convinzioni religiose e quelli animati da altre convinzioni personali, né a quelli tra i dipendenti animati di convinzioni religiose diverse”.

Alla luce di quanto precede, la Corte risponde alla seconda questione: “dichiarando che l'articolo 1 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che disposizioni nazionali che garantiscono la trasposizione di tale direttiva nel diritto nazionale, le quali sono interpretate nel senso che le convinzioni religiose e le convinzioni filosofiche costituiscono due motivi di discriminazione distinti, possano essere considerate, «per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste [in tale direttiva]», ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 1, di quest'ultima”.

Dalla motivazione della sentenza si ricava una osservazione di fondo.

La Corte, in relazione al margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella direttiva 2000/78, formula un distinguo.

Quando si tratta di discriminazioni dirette (in presenza di disposizioni costituzionali) gli Stati membri possono introdurre disposizioni più favorevoli rispetto al contenuto della direttiva.

Tale facoltà, viceversa, risulta preclusa in caso di discriminazioni indirette (e previsioni nazionali di rango inferiore a quelle costituzionali).

Distinguo che deve orientare l'interprete e (prima ancora) il legislatore nel suo operato.

Il c.d. bilanciamento “mite”

Sul tema, vorrei ribadire alcune considerazioni svolte in un contributo precedente (36).

Le Sezioni Unite della Cassazione, il 9 settembre 2021, sono intervenute sulla questione dell'esposizione del crocifisso con la sentenza n. 24414.

Il “caso” tra origine da una circolare del dirigente scolastico dell'istituto professionale.

Con tale circolare il dirigente scolastico ha richiamato la delibera con cui gli studenti della terza classe, riuniti in assemblea, avevano deciso di tenere affisso il crocifisso durante tutte le ore di lezione; e dopo avere ritenuto la scelta degli studenti “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale, e con le leggi e la Costituzione di questo Paese”, ha invitato formalmente tutti i docenti “a rispettare e a tutelare la volontà degli studenti, autonomamente determinatasi ed espressa chiaramente nel verbale di assemblea”.

Poiché il ricorrente ha continuato a rimuovere il crocifisso durante le ore di lezione da lui tenute, ne è derivato, a seguito di ulteriore diffida, il procedimento disciplinare, anche per gli insulti rivolti dal docente al dirigente scolastico in presenza degli studenti, procedimento che si è concluso con l'irrogazione della sanzione della sospensione per trenta giorni.

La questione era stata rimessa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, con ordinanza interlocutoria del 18 settembre 2020, n. 19618 (37), sul rilievo che il ricorso prospettava una questione di massima rilevanza che richiedeva un bilanciamento fra le libertà e i diritti che garantiscono, da un lato, la libertà d'insegnamento e, dall'altro, il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni.

La motivazione della sentenza contiene un affresco dei principi definiti dalla Costituzione italiana, dalle Carte dei diritti e dalle Corti che ne sono interpreti.

Un esercizio di “nomofilachia” che si avvale “dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della sezione remittente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata della Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e dal contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero”.

Non è questa la sede per approfondire le varie (e complesse) questioni che la sentenza esamina (38).

È, però, importante sottolineare quell'approccio “mite” (39) che le sezioni unite hanno utilizzato nell'esame della vicenda (si veda pag. 19).

La premessa da cui muovono le Sezioni unite, largamente condivisibile, è che “occorre evitare che ci sia un tutto per una delle due libertà (in gioco) e un nulla per l'altra, che un diritto si trasformi in “tiranno” nei confronti dell'altro, che l'esito finale si identifichi, in violazione del principio pluralista, con una soltanto delle due opzioni in campo, che la tensione tra diritti di pari dignità si trasformi in scontro di valori” (p. 44).

Le Sezioni unite, in questo contesto, riprendono l'insegnamento della Corte costituzionale nella sentenza Ilva del 2013 (n. 85), ritenendo che non vi siano diritti assoluti nel pluralismo dei valori costituzionali (40).

Non esiste una gerarchia “astratta e statica” dei valori costituzionalmente garantiti.

Deve essere garantita, viceversa, una tutela “sistemica e dinamica” degli stessi che tenga conto di tutti gli interessi in gioco.

Il punto di equilibrio tra questi valori viene rimesso al bilanciamento del Legislatore che opera, però, sotto il controllo della Corte costituzionale attraverso l'utilizzo dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità.

Si tratta di una “gerarchia mobile" (41), un ordine “variabile” (42) tra valori fondamentali in ragione del caso concreto.

La strada da percorrere, precisano le Sezioni unite, “è quella dell'accomodamento ragionevole, intesa come ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, in cui tutti concedono qualcosa facendo, ciascuno, un passo nella direzione dell'altro” (pag. 44).

Nella materia in esame occorre evitare bilanciamenti assoluti e statici dei diritti in gioco.

Affermare, ad esempio, come fa la Corte di giustizia, che rappresenta una discriminazione diretta solo un simbolo religioso di grandi dimensioni può essere una lettura riduttiva.

Probabilmente, anche il divieto di indossare un simbolo religioso piccolo (ad esempio una collanina con un piccolo crocifisso) in un luogo di lavoro in cui si professa una religione musulmana potrebbe comportare una discriminazione diretta.

In questo contesto, è interessante segnalare una recente decisione della Corte Suprema dell'India, Aishat Shifa vs The State Of Karnataka (43), in cui la Corte, al fine di determinare l'eventuale violazione della libertà religiosa del divieto di utilizzo dell'hijab all'interno di istituti scolastici, si sofferma non già sulle dimensioni del simbolo religioso indossato, bensì sulla sua essenzialità come pratica religiosa.

Insomma, bisogna esaminare la situazione caso per caso, evitando affermazioni di principio assolute.

Il divieto di indossare dei segni deve essere limitato allo stretto necessario (44).

Credo, in questo contesto, che sia condivisibile l'approccio suggerito dall'Avvocato generale Athanasios Rantos nella causa C-341/19 (45), secondo cui “la politica di neutralità può quindi manifestarsi in varie forme, a condizione che sia perseguita in modo coerente e sistematico”.

Note

(*) Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto civile - Università Ca' Foscari di Venezia; Avvocato Giuslavorista presso il foro di Catania. Il contributo è frutto di una riflessione comune. Tuttavia, i paragrafi dal n. 1 al n. 5 sono da attribuire a Roberta Cosio, mentre il n. 6 a Roberto Cosio.

(1) Durante queste settimane di proteste in Iran per la morte della ventiduenne Mahsa Amini, la questione del velo sta monopolizzando l'attenzione dei media occidentali.

Le donne in Iran costituiscono da decenni la maggioranza (circa il 60%) degli studenti universitari, ma hanno tassi di occupazione di meno della metà rispetto agli uomini. Tuttavia, il velo sta assumendo rilevanza soprattutto per quel che rappresenta in Iran, cioè un obbligo normativo, per la dimensione sociale che sottende e per i conflitti latenti che implica.

Lo scorso inverno l'Agenzia per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha inoltrato agli altri organi di governo un documento di 119 pagine – Progetto Hijab e castità – approvato precedentemente dallo Shoraye A'Ali Enqelabe Farhangi (Consiglio supremo per la rivoluzione culturale). Questo documento – divenuto pubblico lo scorso agosto – delinea in modo abbastanza chiaro i punti principali del rafforzamento delle misure di controllo del dress code, e dispone, tra gli altri, l'introduzione di videocamere di sorveglianza nelle strade per monitorare ed eventualmente multare le donne non velate o mal velate, oppure per assegnarle a un “consulente” che le sottoponga a un percorso di “rieducazione” (e che ha potere di cancellare le eventuali multe); l'obbligo per lo staff ospedaliero di fornire indumenti “adeguati” alle pazienti che devono sottoporsi a chirurgia; l'introduzione di multe per chiunque disegni, importi, compri o venda indumenti “volgari”; nuovi provvedimenti e regole disciplinari per le attrici che lavorino in emittenti statali.

Il Progetto Hijab e Castità chiarisce esplicitamente i tre obiettivi di questa nuova politica: ripulire la società dall'inquinamento causato dalla non conformità col dress code islamico, costruire un modello di società islamica incentrato sul concetto di castità e preservare i valori e la lotta contro “l'invasione culturale”. Elenca poi quelle che ritiene essere le ragioni per cui si registra una “ostilità crescente” verso l'hijab: mancanza di responsabili del monitoraggio, sentenze non eseguite o non applicate, perdita del potere di deterrenza delle sanzioni, funzionari che non lo reputano una priorità.

La misura si pone a valle di una serie di regole imposte da tempo.

L'obbligo di indossare l'hijab discende dall'articolo 18 della Legge per la ricostruzione delle risorse umane del 1981, in prima epoca post-rivoluzione, in base alla quale il neonato regime dell'ayatollah Khomeini disponeva sanzioni per chi non lo indossasse. Nel luglio del 1984 l'Ufficio delle Corti rivoluzionarie apporta delle ulteriori modifiche, stabilendo il divieto di accesso agli uffici pubblici per le donne non velate o “mal velate”. Nel 2005 viene varata una prima legge Hijab e Castità, di cui il documento in questione costituisce in un certo senso un aggiornamento.

(2) Sul tema si veda V.A. Poso, La neutralità (politica, filosofica e religiosa) del datore di lavoro deve, quindi, prevalere sulla libertà dei lavoratori di indossare abiti o simboli evidenti delle proprie convinzioni religiose sui luoghi di lavoro?, in www.labor.it, 23 luglio 2021, R. COSIO, Il velo islamico. La gerarchia mobile tra la libertà religiosa e altri diritti, MGL, n. 3, 2021; G. MIANO, Il simbolismo religioso sul luogo di lavoro: l'omologazione a discapito della libertà religiosa, Lav. Giur., n. 2/2022, 145151.

(3) Corte giust., 14 marzo 2017, C-157/15 e C-188/15, entrambe edite su Lav. giur., 5/2017, con nota di R. COSIO e in www.labor.it, 24 marzo 2017, con nota di V.A. POSO

(4) Per una valutazione, anche critica, delle sentenze si veda E. Howard, Islamiche eadscarves and the Cjeu: Achbita and Bougnaoui, in Maastricht Journal and Comparative Law, 2017, vol. 24, pp. 348-366; J.H.H. Weiler, Je suis Achbita:à propos d'un arret de la Cour de justice de l'Union europèenne sul le hijab musulman, in Revue trimestrielle de droit europèen, 2019, pp. 85-104.

(5) Su tali sentenze si veda il commento di E. Tarquini, Il velo islamico e il principio paritario: la giurisprudenza di merito si confronta con i divieti di discriminazione, in www.labor.it, 4 maggio 2016. Per un commento alla sentenza della Corte d'Appello di Milano 4 maggio 2016 si veda M. Peruzzi, “Il prezzo del velo: ragioni di mercato, discriminazione religiosa e quantificazione del danno patrimoniale, in Riv. it. dir. lav., 2016, n. 5-6. Sul diritto al riposo tra religione ed organizzazione del lavoro, si veda Cass. 22 febbraio 2016, n. 3416, in Lav. giur., 2016, 6, pp. 565-572 con nota di V. AMATO.

(6) Sul tema si veda M. Ranieri, Il primo incontro della Corte di giustizia con le organizzazioni orientate: tra slanci e qualche timidezza, in Arg. dir. lav., 4-/2018, p. 1127 ss.

(7) CGUE sentenza del 15 luglio 2021, C‑804/18 e C‑341/19, punto 47.

(8) CGUE sentenza del 15 luglio 2021, C‑804/18 e C‑341/19, punto 47.

(9) In dottrina si veda, da ultimo, M. BARBERA e S. BORELLI, Il principio di eguaglianza e divieto di discriminazione, in Il lavoro privato (a cura di G. AMOROSO, V. DI CERBO e A. MARESCA), Milano, 2022, 1542-1609 e L. TRIA, La parità di trattamento nelle condizioni di lavoro e il divieto di discriminazione, in Il Diritto del lavoro nell'Unione europea (a cura di R. COSIO, F. CURCURUTO, V. DI CERBO e G. MAMMONE), Milano 2022, di prossima pubblicazione.

(10) Cfr. M.P. MONACO, Intervento, in AA.VV., Tra uguaglianza e differenze: il nuovo diritto antidiscriminatorio. Atti del convegno di Firenze del 19 giugno 2006, 34.

(11) Cfr. M.P. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, in AAVV, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, a cura di M. BARBERA, Milano, 2007, 47.

(12) Corte EDU , Arrowsmith . Regno Unito, 12 ottobre 1978, ricorso n. 7050/75.

(13) Corte EDU, 25 febbraio 1982, Campbell e Cosans c. Regno unito.

(14) Corte EDU, Knudsen c. Norway, 8 marzo 1985, ricorso n. 11045/84.

(15) Corte EDU, W c. Inghilterra, 1993, ricorso n. 18187/91.

(16) Corte EDU Bayatyan c. Armenia, 7 luglio 2011, ricorso n. 23459/2003.

(17) Corte di appello di Roma, 19 ottobre 2012, Riv. it. dir. lav., 2013, II, 180, con nota di M. MILITELLO.

(18) Cassazione sentenza 2 gennaio 2020, n. 1.

(19) La Corte di appello di Napoli, nella sentenza del 3 gennaio 2022, n. 3883 ha fatto un passo ulteriore, ricomprendendo nelle convinzioni personali anche la libertà di autodeterminazione contrattuale del lavoratore. Per una critica a tale evoluzione si veda M. C. CATAUDELLA, La libertà di autodeterminazione contrattuale rientra tra le “convinzioni personali”?, Giur. it., giugno 2022, 1438-1442.

(20) Cfr. A. VALLEBONA, Le discriminazioni per “convinzioni personali” comprendono anche quelle per affliliazione sindacale: un'altra inammissibile stortura a favore della Fiom-CGIL, Mass. giur. lav., 2012, 62.

(21) Cfr. C. TAMBURRO, Atti discriminatori e convinzioni personali, Mass. giur. lav., 2014, 744 ss.756.

(22) CGUE sentenza 20 ottobre 2022 C-301/21.

(23) M. BARBERA e S. BORELLI, Il principio di eguaglianza e divieto di discriminazione, cit., 1583.

(24) CGUE sentenza 15 luglio 2021, C‑804/18 e C‑341/19, punti 72 e 73.

(25) CGUE sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19, punto 63.

(26) CGUE, sentenze 14 marzo 2017, C-157/15, punti 30-32 e 15 luglio 2021, C-804/18 e C-341/19, punto 55.

(27) Sul tema si veda S. ANGELETTI, La questione del velo islamico nel luogo di lavoro (ancora) di fronte alla Corte di giustizia UE: Verso maggiori garanzie per il diritto di libertà religiosa, in www.diritti-cedu.unipg.it, 29 novembre 2021.

(28) La tutela conferita da tale articolo implica la libertà di esercitare un'attività economica o commerciale (Corte giust. UE, sentenza 16 luglio 2020, C-686/18, punto 82).

(29) In linea con quanto affermato nella sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15, punti 37 e 38.

(30) Sul tema dell'utilizzo del velo islamico con riferimento alla legge francese, si veda la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 1° luglio 2014, n. 43835/11, S.A.S. c. Francia.

(31) Si veda la sentenza della Corte di Strasburgo del 15 gennaio 2013, Eweida e a. c. Regno Unito. Sul tema, si veda E. Sorda, Lavoro e fede nella Corte di Strasburgo. Note a margine della sentenza Eweida e altri c. Regno Unito, in www.forumcostituzionale.it.

(32) Conclusioni presentate dall'avvocato generale Sharpston nella causa C-507/18, punto 82.

(33) CGUE sentenza 8 luglio 2010, C-246/09.

(34) CGUE sentenza 23 aprile 2020, C-507/18.

(35) CGUE sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19

(36) R. COSIO, Il velo islamico. La gerarchia mobile tra la libertà religiosa e altri diritti, cit.

(37) Cfr. R. Pescara, Esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e laicità dello Stato, in Nuova giur. civ. comm., 2/2021, p. 367 ss.

(38) Cfr. V.A. Poso, Croce e giustizia. La libertà religiosa e il principio di laicità dello Stato nelle aule delle scuole pubbliche dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 24414/20121. Quasi un racconto, in www.labor.it, 16 settembre 2021.

(39) Sul tema si veda G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992.

(40) Cfr. ivi, 16 ss.

(41) R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, p. 210.

(42) A. Morrone, Bilanciamento (Giustizia costituzionale), in Enc. dir. annali, vol. II, Milano, 2008, p. 185.

(43) Corte Suprema dell'India, 13 ottobre 2022, Aishat Shifa vs The State Of Karnataka.

(44) Corte giust. UE, sentenza 14 marzo 2017, C-188/15, G4S Secure Solutionis, punto 42.

(45) Conclusioni dell'Avvocato generale Athanasios Rantos, del 25 febbraio 2021, punto 80.