Ricorso di annullamento con contestuale domanda risarcitoria (art. 30)

Roberto Chieppa

Inquadramento

La domanda per il risarcimento dei danni derivanti da un provvedimento amministrativo illegittimo può essere proposta sia contestualmente all'azione di annullamento, sia successivamente.

In questo secondo caso il soggetto danneggiato può scegliere se proporla nell'ambito dello stesso giudizio di annullamento con motivi aggiunti oppure separatamente una volta concluso il giudizio di annullamento.

Con questa formula si intende dare indicazione per la proposizione della domanda di risarcimento contestualmente all'azione di annullamento.

Formula

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL [ ....] [1]

RICORSO [2]

Nell'interesse di

- [PERSONA FISICA] [3], nato/a a .... il .... (C.F. ....), residente in ...., via/p.za .... n. ...., elettivamente domiciliato/a in ...., via/p.za ...., n. ...., presso lo studio dell'Avv. [4] ...., C.F. .... [5], PEC .... [6], fax .... [7], che lo/la rappresenta e difende in forza di procura speciale alle liti .... [8] .

- [PERSONA GIURIDICA] [9], con sede legale in ...., via/piazza ...., n. ...., iscritta nel registro delle imprese di ...., n. ...., P.I. ...., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato/a in ...., via/piazza ...., n. ...., presso lo studio dell'Avv. [10] ...., C.F. .... [11], PEC .... [12], fax .... [13], che la rappresenta e difende in forza di procura speciale alle liti .... [14] .

[Per tutte le future comunicazioni e notifiche di cancelleria si indicano l'indirizzo di posta elettronica certificata .... ed il numero di fax .....] [15]

- ricorrente -

CONTRO

- [AMMINISTRAZIONE/ENTE/AUTORITÀ] [16], in persona del legale rappresentante pro tempore, [per legge rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale/distrettuale dello Stato] [17],

- resistente -

E NEI CONFRONTI DI

- Sig./ Sig.ra .... residente in ...., via/p.za .... n. .... [18]

- controinteressato -

PER L'ANNULLAMENTO

- del provvedimento ...., prot. n. ...., notificato in data .... [19], avente ad oggetto .... [20];

- di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale, ivi espressamente incluso .... [21] .

E PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO

FATTO

[ ....] [Indicare già nel fatto le conseguenze dannose derivanti dal provvedimento impugnato]

DIRITTO

1. [indicare i motivi per quali si ritiene illegittimo l'impugnato provvedimento, indicando nella loro descrizione una o più delle seguenti tipologie di vizi: incompetenza dell'autorità o organo che ha emanato l'atto, violazione di legge (con indicazione degli articoli della Costituzione, di legge o di altra normativa che si assume violata), eccesso di potere (indicando ove ricorra una delle figure sintomatiche, quali ad esempio: irragionevolezza, illogicità o contraddittorietà dell'atto, travisamento o erronea valutazione dei fatti, disparità di trattamento, ingiustizia manifesta, difetto di istruttoria, difetto di motivazione)]

2. Risarcimento del danno

Il provvedimento qui impugnato ha causato e sta causando ingenti danni al ricorrente.

Tali danni consistono:

- nella ritardata attribuzione del provvedimento richiesto (in caso di interessi legittimi pretensivi) con conseguente impossibilità del ricorrente nel (iniziare l'attività ecc.);

- nella privazione del bene della vita già attribuito ed ora sottratto per effetto del provvedimento impugnato (in caso di interessi legittimi oppositivi);

- eventuali altri elementi (altre ipotesi, quali ad esempio l'interesse negativo in caso di responsabilità precontrattuale).

Sotto il profilo oggettivo è evidente l'ingiustizia del danno conseguito a seguito dell'adozione del provvedimento illegittimo e altrettanto evidente è il nesso di causalità tra danno e provvedimento, in quanto .... (spiegare)

Con riferimento all'elemento soggettivo, l'illegittimità del provvedimento costituisce indice presuntivo della colpa della parte resistente, che in alcun modo può nel caso di specie invocare alcun errore scusabile (non necessario nel contenzioso appalti), in quanto (descrivere circostanze di fatto e di diritto a sostegno della presunzione).

La quantificazione del danno pari ad Euro .... già emerge in questa fase dai seguenti elementi (indicare) che ci si riserva di meglio specificare nel corso del giudizio e in relazione ai quali, solo ove si ritenga necessario un approfondimento al fine di verificare la quantificazione della somma richiesta, si chiede in via subordinata di disporre una Consulenza tecnica di ufficio.

La presente domanda non è alternativa alla domanda di annullamento e il risarcimento viene chiesto solo a complemento della tutela ottenibile con l'annullamento del provvedimento illegittimo e, solo in via subordinata, in sua sostituzione qualora non risulti più possibile ottenere gli effetti conformativi della sentenza di annullamento.

La somma spettante a titolo di risarcimento del danno va maggiorata a titolo di interessi e rivalutazione monetaria.

Si chiede, infine, la trasmissione della sentenza alla competente Procura della Corte dei Conti, derivando dall'eventuale sentenza di condanna al risarcimento del danno una danno erariale (eventuale).

[indicare eventuali altre istanze istruttorie]

P.Q.M.

Si chiede al Tribunale adito, respinta ogni contraria istanza, di disporre l'annullamento del provvedimento impugnato, come indicato in epigrafe, nonché di ogni altro atto antecedente, conseguente e comunque connesso.

Si chiede altresì di condannare la parte resistente al risarcimento dei danni nella misura di Euro .... o nella misura maggiore che sarà dimostrata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione monetaria [con trasmissione della sentenza alla competente Procura della Corte dei Conti (eventuale)].

Con riserva di dedurre ulteriormente nel corso di causa e di proporre eventualmente motivi aggiunti di impugnazione.

Con vittoria di spese e onorari.

Si producono i seguenti documenti:

1) [copia del provvedimento impugnato ove disponibile]

2) [copia di eventuali atti antecedenti, conseguenti e connessi]

3) [ ....] [22]

Ai sensi dell'art. 13, comma 6-bis, d.P.R. n. 115/2002 («Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia»), si dichiara che il valore del presente procedimento è pari a Euro .... Il contributo unificato, già versato, dovrà, pertanto, applicarsi nella misura determinata in relazione allo scaglione di appartenenza, per un importo pari a Euro .... [rinvio a Formula “Dichiarazione ai fini del contributo unificato”]

Luogo e data ....

Firma Avv. [23] ....

PROCURA

[Rinvio a formula “Procura speciale alle liti rilasciata a singolo avvocato” e formule correlate]

ISTANZA ABBREVIAZIONE DEI TERMINI (EVENTUALE)

[Rinvio a formula “Istanza abbreviazione dei termini”]

RELATA DI NOTIFICA

[Rinvio a formula “Relata di notifica a persona fisica” e formule correlate]

DEPOSITO INFORMATICO

Ai sensi e per gli effetti dell'art. 136, comma 2, c.p.a., il presente atto è depositato con modalità telematiche [24] .

È stato definitivamente abrogato (cfr. art. 4 d.l. n. 28/2020) l'obbligo di depositare una copia cartacea conforme all'originale telematico del ricorso e degli scritti difensivi.

[1]Il ricorso si deve proporre dinnanzi al T.A.R. nella cui circoscrizione territoriale ha sede l'amministrazione che ha emesso l'atto, ovvero nel cui ambito regionale sono limitati gli effetti diretti dell'atto (cfr. art. 13, comma 1 c.p.a.). Nel caso di controversie relative al pubblico impiego, il T.A.R. competente sussiste il foro speciale indicato dall'art. 13, comma 2 (ossia il T.A.R. nella cui circoscrizione).

[2]Il contenuto del ricorso è disciplinato dall'art. 40 c.p.a. Va rammentato che, ai sensi dell'art. 44 c.p.a., lo stesso deve recare, a pena di nullità, la sottoscrizione del ricorrente (se sta in giudizio personalmente) o del difensore (con indicazione, in questo caso, della procura speciale).

[3]In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con mod., in l. n. 111/2011).

[4]In caso di procura rilasciata a più difensori, si dovrà indicare per ciascuno di essi i dati indicati (C.F., fax, etc.).

[5]L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011 conv. con modif. nella l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. nella l. n. 24/2010. Con riferimento specifico al processo amministrativo, sebbene l'art. 40 c.p.a., lett. a), faccia riferimento generico agli “elementi identificativi” del ricorrente, del suo difensore e delle parti, tale indicazione è imposta dall'art. 13, comma 6-bis, d.P.R. n. 115/2002. Per i ricorsi incardinati dopo l'avvio del PAT, l'indicazione del codice fiscale del difensore e della parte, oltre che dell'indirizzo PEC e Fax, è comunque richiesta anche nella compilazione dei campi del modulo per il deposito telematico.

[6]Ai sensi dell'art. 136 c.p.a. “I difensori indicano nel ricorso o nel primo atto difensivo un recapito di fax, che può essere anche diverso da quello del domiciliatario. La comunicazione a mezzo fax è eseguita esclusivamente qualora sia impossibile effettuare la comunicazione all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi, per mancato funzionamento del sistema informatico della giustizia amministrativa. È onere dei difensori comunicare alla segreteria e alle parti costituite ogni variazione del recapito di fax o di indirizzo di posta elettronica certificata. Ai fini dell'efficacia delle comunicazioni di segreteria è sufficiente che vada a buon fine una sola delle comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il collegio difensivo”.

[7]L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 136, comma 1, c.p.a., e dall'art. 13, comma 6-bis, d.P.R. n. 115/2002. Ai sensi di quest'ultima norma, gli importi dovuti a titolo di contributo unificato “sono aumentati della metà ove il difensore non indichi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio recapito fax, ai sensi dell'art. 136 [c.p.a.]».

[8]La procura, ove necessaria, può essere apposta in calce o a margine dell'atto di appello o, comunque, nelle forme stabilite dall'art. 83 c.p.c.. Per i ricorsi depositati successivamente al 1 gennaio 2017, ai quali si applica il Processo Amministrativo Telematico (‘PAT'), il difensore procede al deposito della copia per immagine della procura conferita su supporto cartaceo e ne attesta la conformità all'originale, ai sensi dell'articolo 22 del d.lgs. n. 82/2005 (“Codice dell'Amministrazione Digitale”; CAD), mediante sottoscrizione con firma digitale (cfr. art. 8, comma 2, delle Regole tecnico-operative del PAT, all.to 1 al d.P.C.S. 28 luglio 2021). V. Formula “Attestazione di conformità ai fini del deposito della copia per immagine della procura rilasciata su supporto analogico”.

[9]In caso di proposizione del ricorso nell'interesse di una persona giuridica, si dovrà indicare la denominazione della società, la sede legale, l'eventuale iscrizione al registro delle imprese, la partita IVA, il codice fiscale, con l'indicazione del rappresentante legale per mezzo del quale la società sta in giudizio.

[10]Vedi nt. 4.

[11]Vedi nt. 5.

[12]Vedi nt. 6.

[13]Vedi nt. 7.

[14]Vedi nt. 8.

[15]In caso di pluralità di difensori, può essere utile indicare l'indirizzo (di fax e/o PEC) al quale si desidera ricevere le comunicazioni inerenti il procedimento.

[16]A titolo esemplificativo, nel caso di Ministero, il ricorso sarà proposto contro il Ministero “in persona del Ministro in carica”; in caso di Comune, “in persona del Sindaco in carica”, in caso di un'autorità indipendente o altro ente pubblico o concessionario di pubblici servizi, “in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore”.

[17]In caso di amministrazioni statali, si applicano le norme vigenti per la difesa in giudizio delle stesse, che prevedono il patrocinio da parte dell'Avvocatura dello Stato territorialmente competente (quella nel cui distretto ha sede il T.A.R. adito; v. artt. 1, l. n. 260/1958 e 10, comma 3, l. n. 103/1979). Le funzioni dell'Avvocatura dello Stato nei riguardi dell'amministrazione statale sono estese alle regioni a statuto ordinario che decidano di avvalersene con deliberazione del consiglio regionale da pubblicarsi per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nel Bollettino ufficiale della regione (art. 10, comma 1, l. n. 103/1979).

[18]Ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.a., il ricorso va notificato ad almeno uno dei controinteressati individuati nell'atto stesso.

[19]Occorre, ovviamente, provvedere ad indicare numeri e date. In caso di mancata notifica o comunicazione, indicare il momento in cui lo stesso è stato conosciuto.

[20]Appare utile indicare altresì una breve descrizione dell'oggetto e del contenuto del provvedimento.

[21]Indicare eventuali atti prodromici, preparatori o consequenziali di cui si chiede l'annullamento.

[22]Copia di eventuale altra documentazione utile alla comprensione del contesto fattuale e/o alle ragioni del ricorso. V. anche Formula [“Attestazione di conformità ai fini del deposito di copia informatica di atto, provvedimento o documento originale analogico”].

[23]Per i ricorsi depositati in giudizio dopo la data del 1° gennaio 2017 e, quindi, soggetti alla normativa sul processo amministrativo telematico (PAT), l'atto di parte sottoscritto dal difensore, deve essere redatto in forma di pdf nativo digitale sottoscritto con firma PAdES e depositata in giudizio con le modalità telematiche previste dall'art. 6 delle Specifiche tecniche del PAT di cui all'all.to 1 del d.P.C.S. 28 luglio 2021 (attraverso il modulo denominato “Modulo Deposito Ricorso”).

[24]Ai sensi dell'art. 13, comma 1-ter, dell'allegato 2 al c.p.a., introdotto dall'art. 7, del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, il Processo amministrativo telematico si applica ai giudizi introdotti con i ricorsi depositati, in primo o in secondo grado, a far data dal 1 gennaio 2017. Ai ricorsi depositati anteriormente a tale data, continuano ad applicarsi, fino all'esaurimento del grado di giudizio nel quale sono pendenti alla data stessa e comunque non oltre il 1 gennaio 2018, le norme previgenti. Ai fini del deposito telematico, il ricorrente dovrà utilizzare gli appositi moduli presenti sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa.

Commento

Quando proporre la domanda di risarcimento del danno

La scelta di quando proporre la domanda di risarcimento del danno attiene alla strategia processuale della parte e tale strategia può variare a seconda della singola fattispecie, del tipo di danno che si chiede e degli elementi probatori a disposizione.

In questa sede si tratterà della domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo e della sua proposizione contestualmente alla domanda di annullamento del provvedimento fonte del danno.

In questi casi la parte danneggiata può scegliere se proporre la domanda di risarcimento subito insieme all'azione di annullamento o successivamente (con motivi aggiunti nell'ambito dello stesso giudizio o con ricorso autonomo dopo aver ottenuto l'annullamento dell'atto entro il termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento).

La scelta in favore della contestuale proposizione di domanda di annullamento e di risarcimento del danno è certamente possibile, ma va valutata attentamente in relazione alle prove dell'esistenza del danno e della sua quantificazione che si ha a disposizione.

In alcuni casi può non essere opportuno presentare una domanda di risarcimento del danno contestualmente all'azione di annullamento, in quanto in quel momento non si ha piena contezza dell'esistenza di un danno e di conseguenza della sua quantificazione.

Si deve tenere presente che nel processo amministrativo, la fase dell'esecuzione della pronuncia del giudice si pone in un momento anteriore rispetto a quello del risarcimento e, in particolare del risarcimento per equivalente.

Molto spesso, l'azione di risarcimento svolge tendenzialmente un ruolo di completamento della tutela risultante dal giudicato amministrativo demolitorio, quando sopravviene un ostacolo insuperabile alla soddisfazione dell'interesse del ricorrente e il ruolo di completamento presuppone che sia certo il modo in cui l'amministrazione si è conformata alla decisione.

Mentre in taluni casi è ben possibile che, già al momento della pronuncia della sentenza di annullamento, risulti chiaramente che non è più utile per il ricorrente il riesercizio conforme a diritto della funzione, potendo il giudice amministrativo immediatamente accogliere la domanda di risarcimento del danno per equivalente, in molti altri casi il giudice della cognizione non è in grado di prevedere già all'atto dell'annullamento se ed in che misura l'ottemperanza che eventualmente verrà assicurata dall'amministrazione alla sentenza potrà effettivamente ripristinare la situazione soggettiva lesa.

Ad esempio, in presenza di interessi legittimi pretesivi, quasi sempre la pretesa risarcitoria ha ad oggetto proprio il pregiudizio connesso alla mancata attribuzione del bene finale e, quando l'esito del giudizio di annullamento non contiene l'accertamento della spettanza di tale bene, ai fini dell'esame della domanda risarcitoria si dovrà attendere se il riesercizio del potere da parte della P.A. conduca, o meno, all'attribuzione al privato del bene richiesto e in questo caso si potrebbe prospettare il riconoscimento del danno per il ritardo nel conseguimento dell'utilità finale.

L'attribuzione del bene della vita costituisce in questi casi un aspetto esecutivo del giudicato, che si colloca anteriormente rispetto alla domanda di risarcimento del danno, consistente nella mancata attribuzione del medesimo bene.

In tutti quei casi in cui la domanda del privato è diretta a conseguire il bene della vita, molto spesso la possibilità e i limiti entro cui attribuire il bene dipendono dal momento in cui l'amministrazione esegue il giudicato.

Ad esempio, in materia di appalti, se l'annullamento in sede giurisdizionale dell'aggiudicazione interviene nell'immediatezza dei fatti, consente al ricorrente di stipulare il contratto con la P.A.; al contrario se interviene quando il contratto con l'originario aggiudicatario è stato non solo stipulato ma in parte eseguito, l'esecuzione della pronuncia (e, quindi, l'attribuzione del bene della vita, l'appalto) è possibile solo parzialmente per la parte residua non eseguita, mentre per la prima parte la tutela non può che avvenire attraverso il risarcimento per equivalente; se il rapporto è interamente eseguito, l'unica forma di tutela è il risarcimento, sempre per equivalente.

La rapidità del giudizio e una tempestiva ottemperanza da parte dell'amministrazione al contenuto della sentenza, elide o riduce significativamente l'area del danno risarcibile.

In questo può essere utile chiedere contestualmente al g.a. anche la condanna all'adozione di uno specifico provvedimento, in modo da avere l'accertamento della pretesa sostanziale fatta valere già nel giudizio di annullamento del diniego (v. formula “Domanda di condanna al rilascio di un determinato provvedimento”).

Sulla base delle precedenti considerazioni è chiaro che spesso solo all'esito dell'ottemperanza di un giudicato di annullamento è possibile accertare e quantificare il danno risarcibile per equivalente. Laddove non risulta più satisfattiva la pronuncia di annullamento, supplisce la tutela risarcitoria e il momento in cui emerge con chiarezza lo spazio per l'esecuzione del giudicato e per il risarcimento del danno è proprio quello dell'ottemperanza.

Da ciò consegue, che la contestuale proposizione di domanda di annullamento e di domanda di risarcimento dovrebbe essere limitata a quei casi in cui già al momento della proposizione del ricorso vi è chiarezza sulla esistenza del danno e sul nesso di causalità (ad es., in caso di provvedimenti incidenti su interessi legittimi oppositivi).

Altrimenti si rischia di proporre la domanda di risarcimento in modo generico con il rischio che la stessa venga respinta e che si formi il giudicato su tale reiezione.

Ovviamente se maggiori certezze sulla spettanza del risarcimento si acquisiscono in corso di causa, ben potrà il ricorrente proporre la domanda di risarcimento con motivi aggiunti nell'ambito dello stesso giudizio e se al momento della decisione l'annullamento non può fornire più alcuna utilità il giudice potrà limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'atto da far valere appunto ai fini risarcitori (art. 34, comma 3).

Se la domanda di risarcimento viene proposta unitamente a quella di annullamento, può accadere che il giudice di primo grado possa respingere la domanda di annullamento senza esaminare quella di risarcimento; in questo caso, la domanda può essere riproposta con l'atto di appello ai sensi dell'art. 101, comma 2, ma è stato ritenuto che, ove non riproposta e riformata la sentenza che respinge l'azione di annullamento, la domanda di risarcimento possa essere riproposta in un nuovo giudizio nel termine previsto dall'art. 30, comma 5 (120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; Cons. St. III, n. 5014/2018).

In questi casi, si deve tuttavia fare attenzione a fare completo affidamento nella possibilità di riproporre la domanda, in quanto se dalla sentenza di primo grado si può desumere che la domanda di risarcimento è stata respinta unitamente a quella di annullamento, sarà necessario riproporre nell'atto di appello anche la domanda di risarcimento.

In sostanza, la non riproposizione di una domanda (nell'esempio, di risarcimento) nell'atto di appello deve essere il frutto di una attenta scelta che dipenda da una specifica strategia processuale e deve fondarsi sulla certezza che si tratti di un mancato esame e non di un rigetto anche implicito della domanda insieme al rigetto del ricorso; in assenza di particolari esigenze appare preferibile riproporre la domanda di risarcimento in appello, ovviamente con gli adeguati supporti probatori.

Il contenuto della domanda di risarcimento (il rischio di introdurre la domanda con mere clausole di stile)

La giurisprudenza ha in alcuni casi escluso che la domanda risarcitoria debba essere articolata come autonomo motivo di ricorso indicante le ragioni della pretesa: essa, trovando il suo fondamento nelle stesse censure che sorreggono la separata, ma contestuale domanda di annullamento e che si configurano quindi come causa petendi, potrebbe essere contenuta anche nelle sole «conclusioni» (Cons. St. VI, n. 973/2004).

Tuttavia, ciò non può comportare che sia sufficiente inserire una mera clausola di stile con cui si chiede in modo generico il risarcimento dei danni che derivano dal provvedimento impugnato, in quanto la domanda deve essere formulata in modo che emergano gli elementi costitutivi della ritenuta fattispecie di responsabilità dell'amministrazione e deve essere supportata con argomenti probatori di carattere specifico.

Il consiglio è, quindi, quello di non limitarsi ad inserire la domanda di risarcimento nelle sole conclusioni di un ricorso incentrato sull'annullamento, ma di dedicare un apposita parte del ricorso a tale domanda.

Altrimenti il rischio è quello di vedere la domanda respinta o dichiarata inammissibile con il rischio anche di formazione di un giudicato sfavorevole sul punto; infatti, una volta non ottenuto l'accoglimento della domanda di risarcimento proposta in sede di giudizio di cognizione la stessa domanda non può essere riproposta in sede di ottemperanza perché altrimenti sarebbe violato il principio del ne bis in idem (Cons. St. VI, n. 12/2018).

Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che la parte, la quale in sede di decisione giurisdizionale non abbia ottenuto dal giudice adito il risarcimento del danno richiesto, non può riproporre con un giudizio di ottemperanza il petitum che gli era stato espressamente negato dalla sentenza ottemperanda, ostandovi non solo il principio del ne bis in idem, ma anche i confini propri del giudizio di ottemperanza (Cons. St. VI, n. 12/2018) e tale ineccepibile conclusione conferma la pericolosità per la parte di proporre una domanda di risarcimento non adeguatamente istruita e supportata da elementi probatori, essendo preferibile attendere a proporla quando si ha piena contezza del danno e della sua quantificazione e si hanno gli elementi per dimostrare la sussistenza dei presupposti per il risarcimento.

Numerose sono i precedenti giurisprudenziali di domande respinte o dichiarate inammissibili perché proposte con mere clausole di stile (Cons. St. V, n. 6387/2001), senza essere fondate su una puntuale prospettazione del danno, in relazione alle concrete modalità della fattispecie e alla illegittimità procedimentale che ha determinato l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione (Cons. St. VI, n. 244/2000).

Non sembra opportuno inserire tali generiche richieste di condanna al risarcimento del danno al solo fine di prospettare all'amministrazione il rischio di un risarcimento e indurla in questo modo a rivedere, anche in autotutela, la posizione assunta. Il rischio di un risarcimento può anche essere prospettato nel ricorso o in via stragiudiziale in altri modi, senza la presentazione formale di una domanda, il cui rigetto ha poi delle conseguenze.

Se l'intenzione è quella di richiamare le amministrazioni alle proprie responsabilità vi sono anche altre modalità, quali ad esempio quella inserita nella formula come eventuale di richiesta di trasmissione della sentenza alla competente Procura della Corte dei Conti.

Pertanto, tornando alla questione del momento in cui proporre la domanda di risarcimento, si ribadisce che se non si hanno i suddetti elementi quando si propone il ricorso introduttivo è opportuno rinviare ad un momento successivo la proposizione della domanda di risarcimento.

I profili probatori

In materia di risarcimento del danno non sono applicabili i principi generali che regolano l'istruttoria e l'onere della prova validi nel giudizio amministrativo di annullamento.

È noto che l'istruzione probatoria nel processo amministrativo di legittimità è governata dal c.d. principio dispositivo attenuato dal metodo acquisitivo. In base a tale principio sul ricorrente non grava «l'onere della prova», come accade nel processo civile, ma «l'onere del principio di prova», nel senso che egli è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, potendo il giudice acquisire d'ufficio gli elementi probatori indicati dalle parti ovvero ritenuti comunque necessari.

Il c.d. principio dispositivo attenuato con metodo acquisitivo si giustifica in ragione della disponibilità degli elementi probatori in capo alla pubblica amministrazione nel processo amministrativo di legittimità. Laddove tali elementi rientrino nella disponibilità del ricorrente, come accade nel giudizio risarcitorio, ove soprattutto (se non esclusivamente) l'istante è a conoscenza di quali danni ha subito ed è in possesso degli elementi idonei a provarli, il giudizio non può essere governato dal principio dell'onere della prova, ma occorre che il ricorrente supporti la propria domanda dimostrando la sussistenza del danno medesimo.

Il ricorrente deve necessariamente allegare e dimostrare in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa risarcitoria e il metodo acquisitivo può essere utilizzato unicamente laddove siano stati allegati tali fatti, ma il privato, per la sua posizione di disparità sostanziale con l'amministrazione, non sia in grado di provarli (Cons. St. VI, n. 973/2004).

In base alla regola generale racchiusa nell'art. 2697 c.c., il danneggiato ha l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa) per illecito della p.a.

Ovviamente ciò non significa che la puntuale dimostrazione del danno debba essere fornita fin dalla proposizione del ricorso contenente la contestuale domanda di annullamento, in quanto l'assolvimento dell'onere della prova del ricorrente deve essere valutato solo al termine della fase istruttoria e non necessariamente nel ricorso introduttivo.

È anche sbagliato proporre la domanda e affidarsi nel corso del giudizio ad una mera richiesta al giudice di disporre una CTU; infatti, la consulenza tecnica, pur disposta d'ufficio, non è certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall'art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche non possedute (Cons. St. VI, n. 1261/2004).

Nella formula la richiesta di Ctu viene, di conseguenza, prospettata in via subordinata solo nell'ipotesi in cui il giudice ritenga necessario un approfondimento al fine di verificare la quantificazione della somma richiesta.

Va inoltre considerato che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall'altro non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l'apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno» (Cons. St. III, n. 2181/2019, che richiama Cass. II, n. 4310/2018).

La dimostrazione dell'elemento oggettivo della responsabilità

Con riferimento all'elemento oggettivo dell'illecito, il ricorrente dovrà provare

a) la sussistenza di un evento dannoso qualificato come ingiusto;

b) l'esistenza del nesso di causalità, che ponga l'evento dannoso come conseguenza di una condotta (positiva o omissiva) della p.a.

Ovviamente, per i danni da provvedimento illegittimo l'illegittimità dell'atto amministrativo, che si assume essere stato causa del danno, è un requisito necessario ma non sufficiente per la fondatezza dell'azione risarcitoria.

Il nesso di causalità è più facilmente dimostrabile in presenza di interessi legittimi oppositivi, per i quali non è necessaria la prognosi sull'esito favorevole delle aspettative dell'interessato, in quanto il collegamento con il bene della vita si è già consolidato in virtù di un precedente provvedimento e tanto basta a pretendere la riparazione delle conseguenze patrimoniali sfavorevoli dell'illegittimità dell'azione amministrativa, anche in ipotesi di successivo (legittimo) riesercizio del potere amministrativo sempre in senso sfavorevole al privato (Cass. I, n. 157/2003).

Tuttavia, quando viene annullato un provvedimento incidente su interessi legittimi di tipo oppositivo, l'eventuale successivo (e legittimo) riesercizio del potere può limitare nel quantum il danno risarcibile, perché altrimenti vi sarebbe una ingiustificata iper-protezione degli interessi legittimi oppositivi.

Tale rischio è peraltro in parte evitato dopo l'entrata in vigore dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, con cui alcuni vizi sono stati privati del carattere invalidante nel caso in cui emerga in giudizio che il contenuto del provvedimento non poteva che essere quello concretamente adottato dall'amministrazione.

La semplice lesione degli interessi legittimi pretensivi non è invece sufficiente a configurare un danno ingiusto perché il privato non è titolare del bene della vita ma aspira ad ottenerlo e non è certo che l'atto amministrativo, sebbene illegittimo, abbia ingiustamente negato l'ampliamento della sfera giuridica dell'istante.

In questi casi quasi sempre la pretesa risarcitoria ha ad oggetto proprio il pregiudizio connesso alla mancata attribuzione del bene finale. In ipotesi siffatte, il giudice è chiamato a formulare un giudizio, laddove possibile, sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene o dell'utilità finale, mentre quando a seguito dell'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo, persistano in capo all'Amministrazione significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, il risarcimento del danno può riconoscersi solo dopo e a condizione che l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere (come le compete, per effetto del giudicato), abbia riconosciuto all'interessato il bene della vita; in quest'ultima ipotesi, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento del bene richiesto (Cons. St. VI, n. 1945/2003).

È stato anche affermato che al privato pregiudicato da un provvedimento amministrativo riconosciuto illegittimo, ma senza l'accertamento della spettanza del bene della vita, non può essere riconosciuta la facoltà di abdicare alla pretesa di rinnovo del procedimento, di fatto optando per il solo risarcimento del danno, al di fuori delle ipotesi in cui la perdita del bene sia imputabile alla p.a. per il tempo trascorso e per le sopravvenienze (Cons. St. V, n. 5737/2019); anche se tale principio non appare condivisibile in assoluto, essendo necessaria una verifica caso per caso delle ragioni che inducono il privato a richiedere il solo risarcimento.

in sede di giudizio di risarcimento il g.a., quindi, deve formulare un giudizio prognostico ex ante, verificando se il «bene della vita» cui il privato aspirava sarebbe stato da lui verosimilmente perseguito al netto dei vizi di legittimità che hanno affetto il provvedimento sfavorevole.

In generale, si può rilevare che permane una tendenza della giurisprudenza a legare il risarcimento del danno al giudizio di spettanza sul bene della vita illegittimamente negato dalla p.a. (v. Cons. St. IV, n. 653/2022), anche se la dottrina ha più volte evidenziato come possano porsi in rapporto di causalità con illegittimità compiute dalla p.a. anche danni non direttamente collegati alla mancata attribuzione del bene della vita.

Cons. St. IV, n. 358/2019 ha affermato che la risarcibilità del danno da mero ritardo a prescindere dalla spettanza del bene della vita presuppone di regola la natura imprenditoriale del soggetto che assume essere stato leso dal ritardo dell'amministrazione nell'emanazione del provvedimento – ancorché legittimamente di segno negativo – dovendosi invece ritenere che, negli altri casi, sia indispensabile la prova della spettanza del bene della vita cui si ricollega la posizione di interesse legittimo). Si osserva che tale ultima limitazione non appare giustificabile da alcune previsione normativa, dovendo invece il diritto al risarcimento derivare non dalla natura imprenditoriale o meno del soggetto danneggiato, ma dalla capacità dello stesso di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con il mero ritardo configurabile a prescindere dalla spettanza del bene della vita.

La dimostrazione dell'elemento soggettivo della responsabilità

Ai fini dell'accertamento della responsabilità della P.A., è necessario dimostrare anche la sussistenza dell'elemento soggettivo, consistente nella colpa dell'amministrazione.

Prima della sentenza 500/1999, la giurisprudenza riteneva la colpa sussistente in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dall'atto amministrativo.

La tesi è stata abbandonata con la sentenza n. 500/1999, con cui la Cassazione ha affermato che il giudice deve svolgere una penetrante indagine estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (per il quale è richiesta la colpa grave, a differenza dell'amministrazione che risponde anche a titolo di colpa lieve), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

Il Consiglio di Stato si è in parte discostato da tale criterio, utilizzando il parametro della gravità della violazione commessa dall'amministrazione, anche alla luce dell'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell'apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento (Cons. St. IV, n. 3169/2001), o ricorrendo alle semplificazioni probatorie (presunzioni) consentite dall'ordinamento processuale, in modo che l'illegittimità dell'atto ritenuto lesivo dell'interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l'indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell'amministrazione (Cons. St. V, n. 4239/2001).

Molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell'errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla quaestio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia.

Spetta al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la presunzione relativa di colpa, che spetterà poi all'amministrazione vincere; dovrà essere prestata particolare attenzione al carattere vincolato o discrezionale dell'attività svolta: in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.

Pur restando all'interno dello schema della responsabilità extracontrattuale, che richiede che il privato fornisca tutti gli elementi probatori per dimostrare la sussistenza dei requisiti dell'illecito, non è, tuttavia, richiesto al danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, potendo essere invocata la presunzione semplice derivante dall'illegittimità dell'atto e spettando poi all'amministrazione la dimostrazione della scusabilità dell'errore (Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. VI, n. 1944/2015).

L'errore è, in sostanza, scusabile quando la P.A. di fronte ad una scelta interpretativa ha optato per una soluzione che solo ex post si è rivelata chiaramente errata, mentre al momento della decisione vi era una obiettiva situazione di incertezza sulla strada da seguire, integrata ad esempio dall'esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata. L'incertezza del quadro normativo di riferimento è, quindi, il principale indice della sussistenza di un errore scusabile (Cons. St. IV, n. 7082/2019).

In materia di appalti non è necessario dimostrare l'elemento soggettivo della colpa, in quanto la Corte di Giustizia ha affermato che il diritto dell'Unione europea osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un'amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all'amministrazione suddetta (Corte Giust., 30 settembre 2010, C-314/09).

La giurisprudenza interna si è immediatamente adeguata al principio comunitario, ritenendo che la nuova regola vigente in materia di risarcimento dei danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici configura una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante dall'esigenza di garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici (Cons. St. V, n. 772/2016; Cons. St. V, n. 5686/2012; Cons. St. V, n. 5115/2014, che hanno esteso la regola a tutti gli appalti pubblici (non solo a quelli comunitari, ma non a settori diversi dagli appalti).

La quantificazione del danno

Spetta al ricorrente provare, oltre al danno, la sua quantificazione.

Il ricorrente deve fornire in modo rigoroso la prova dell'entità del danno; se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di allegare circostanze di fatto precise e quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subito (Cons. St. V, n. 2967/2008).

Con riferimento alla quantificazione del danno, il giudice amministrativo ha a disposizione una peculiare tecnica processuale: può “stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine” (art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998; ora art. 34, comma 4, c.p.a.). In caso di mancato accordo, il danneggiato può ricorrere al giudice affinché determini, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta a titolo di risarcimento. Si tratta di uno strumento (facoltativo per il giudice) che non è utilizzabile per determinare l'an del risarcimento, ma a cui può farsi ricorso solo nella fase successiva della liquidazione del danno.

Va ricordato che il privato può opporsi all'utilizzo di tale strumento ai sensi dello stesso art. 34 comma 4 (v. formula: “Opposizione alla determinazione dei criteri ex art. 34, comma 4 in caso di condanna pecuniaria”).

Nel settore degli appalti, la giurisprudenza ha distinto il danno subito da un concorrente, che si sarebbe aggiudicato l'appalto se l'amministrazione avesse operato correttamente, dal danno subito per la perdita della chance di aggiudicarsi la gara (e cioè quando non riesce a provare che l'aggiudicazione dell'appalto spettava a lui in assenza della illegittimità commessa dall'amministrazione). Nel primo caso, si riconosce a titolo di mancato guadagno l'utile economico che sarebbe derivato all'impresa dall'esecuzione dell'appalto, presuntivamente quantificato nel 10% dell'importo a base d'asta, come ribassato dall'offerta presentata, a volte ulteriormente ridotto al 5% nel caso in cui l'impresa non dimostra di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze per l'espletamento di altri servizi.

Quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria, la somma commisurata all'utile d'impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura. Secondo altra giurisprudenza il risarcimento della chance sarebbe ammissibile solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita, che dovrebbe essere almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative (Cons. St. V, n. 3249/2015Al riguardo era stata rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione se spettasse, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico (Cons. St. V, n. 118/2018 in relazione ad una fattispecie in cui la consistenza della chance ammontava al 20 % essendoci cinque operatori qualificati nel mercato interessato); la Plenaria ha tuttavia restituito gli atti alla sezione remittente potendo la definizione della questione interferire con profili già esaminati dalla sezione con la sentenza non definitiva (Cons. St., Ad. plen. n. 7/2018). La giurisprudenza successiva ha tuttavia ribadito che il richiamo alla ‘elevata probabilità' (ad es., almeno pari al 50 %) di realizzazione, quale condizione affinché la chance acquisti rilevanza giuridica, è fuorviante, in quanto così facendo si assimila il trattamento giuridico della chance alla causalità civile ordinaria (ovvero alla causalità del risultato sperato), mentre la risarcibilità della perdita di chance è stata elaborata al fine di ‘traslare' sul versante delle situazioni soggettive e, quindi, del danno ingiusto, un problema di causalità incerta non per accertare l'esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il ‘valore' economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile (Cons. St. VI, n. 6268/2021, che ha anche sottolineato che la tecnica risarcitoria della chance presuppone una situazione di fatto immodificabile, che abbia definitivamente precluso all'interessato la possibilità di conseguire il risultato favorevole cui aspirava).

Sotto altro profilo, va rilevato che in senso critico nei confronti del criterio presuntivo dell'utile di impresa, è stato sostenuto che il criterio è desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d'asta; tale riferimento, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l'imprenditore ben più favorevole dell'impiego del capitale e in tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno (Cons. St. V, n. 2967/2008, che ritiene preferibile l'indirizzo minoritario che esige la prova rigorosa, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto; prova desumibile, in primis, dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara o da indici fattuali circostanziati che consentano il ricorso a perizie contabili integrative).

Nell'ipotesi di responsabilità precontrattuale il danno risarcibile consiste, secondo la costante giurisprudenza, nella diminuzione patrimoniale che è diretta conseguenza del comportamento del soggetto che ha violato l'obbligo della correttezza, definito comunemente “interesse contrattuale negativo”. In tal caso, possono essere riconosciute, a titolo risarcitorio, le spese sopportate per la partecipazione alla gara e la eventuale perdita delle occasioni di lavoro alternative, per la quale è necessaria la dimostrazione dell'entità dell'asserito pregiudizio derivante dalla perdita di altre occasioni.

V. anche la formula “Memoria per la quantificazione del risarcimento per equivalente”.

Le modalità di proposizione della domanda di risarcimento del danno

La domanda di risarcimento è una domanda a contenuto cognitorio, che va necessariamente formulata con un atto ritualmente notificato alla controparte (e non con semplice memoria depositata) nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio.

Tale problema ovviamente non si pone in caso di proposizione della domanda contestualmente all'azione di annullamento nello stesso ricorso; in caso di proposizione successivamente ma nello stesso giudizio servirà un ricorso per motivi aggiunti ritualmente notificato.

Altra questione che non si pone in caso di domanda di risarcimento contestuale a quella di annullamento è il problema della notificazione ai controinteressati, oggi disciplinato dall'art. 41, comma 2, c.p.a. (v. formule relative al ricorso autonomo per risarcimento).

Il rapporto tra domanda di annullamento e di risarcimento

La domanda di risarcimento è a volte complementare rispetto all'azione di annullamento e altre volte alternativa rispetto agli effetti ottenibili con l'annullamento.

Come già detto, spetta al ricorrente decidere la propria strategia processuale nel rapporto tra domanda di annullamento e di risarcimento e il g.a. non può sostituirsi in questo al ricorrente, come confermato dalla giurisprudenza, secondo cui il g.a. non può ex officio limitarsi a condannare l'Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda del ricorrente, a nulla potendo rilevare che l'annullamento possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati o che sia decorso un lungo periodo di tempo dall'adozione degli atti (Cons. St., Ad. plen., 13 aprile 2015 n. 4).

Di conseguenza, quando la domanda si pone almeno in parte in rapporto di alternatività con quella di annullamento, sarà opportuno per il ricorrente precisare che intende perseguire in via prioritaria i benefici derivanti dall'azione di annullamento e solo in via subordinata ottenere il risarcimento per equivalente, qualora non sia più possibile perseguire l'effetto conformativo derivante dall'annullamento.

L'opzione in favore della tutela risarcitoria non esonera il privato dalla dimostrazione di tutti gli elementi dell'illecito, compreso quello oggettivo e, di conseguenza, in caso di annullamento di un diniego senza accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale non si potrà ottenere il risarcimento per la mancata attribuzione del bene della vita se non si dimostra che quel bene della vita spettava.

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