Legge Pinto: rimedi preventivi nel giudizio civile innanzi al Giudice di Pace

Michele Liguori
16 Novembre 2022

Il Focus tratta il tema dell'onere posto a carico della parte privata, a pena di inammissibilità della domanda di equa riparazione, di esperire alternativamente uno dei rimedi preventivi previsti dalla L. Pinto nel processo civile presupposto svoltosi innanzi al Giudice di Pace che, allo stato, non pare sia stato espressamente affrontato e risolto dal giudice di legittimità.
Introduzione. Il diritto al giusto processo che deve avere una durata ragionevole

L'art. 6, par. 1, primo alinea, Convenzione EDU - rubricato “Diritto a un equo processo” - dispone: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.

L'art. 13 Convenzione EDU - rubricato “Diritto a un ricorso effettivo” - a sua volta dispone: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

L'art. 47, commi 1 e 2, Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea - rubricato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale” - a sua volta dispone: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare”.

Il combinato disposto di tali norme sovranazionali, pertanto, prevede, per quello che qui rileva:

  • il diritto al giusto processo che deve avere una durata ragionevole;
  • il diritto di ogni persona, i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati (come quello della ragionevole durata del processo, che rileva nel caso in esame), a un ricorso effettivo dinanzi a un'autorità nazionale.

Tali principi, successivamente, sono stati recepiti dall'art. 111, commi 1 e 2, Cost. - nel testo novellato dalla L. Cost. 23 novembre 1999 n. 2 - che oggi dispone:

“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

L'equa soddisfazione

L'art. 34 Convenzione EDU - rubricato “Ricorsi individuali” - dispone: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un'organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d'essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l'esercizio effettivo di tale diritto”.

L'art. 41 Convenzione EDU - rubricato “Equa soddisfazione” - a sua volta dispone: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.

Il combinato disposto di tali norme sovranazionali, pertanto, prevede, per quello che qui rileva, che la parte provata, in caso di violazione del giusto processo che deve avere una durata ragionevole, ha diritto ad “un'equa soddisfazione”, sintagma che, nel lessico comune e giuridico, è divenuto “un'equa riparazione”.

La legge 24 marzo 2001 n. 89 (c. d. Legge Pinto)

La legge 24 marzo 2001 n. 89 - denominata comunemente Legge Pinto - prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l'irragionevole durata del processo.

La Legge Pinto è stata emanata per la necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi in modo da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte EDU sancita espressamente dall'art. 35 Convenzione EDU che dispone: “la Corte non può essere udita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne”.

Su detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema nazionale (ed europeo) di protezione dei diritti dell'uomo.

Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la Convenzione EDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione EDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale.

Tale protezione deve essere “effettiva” (art. 13 Convenzione EDU) e, cioè, tale da porre rimedio alla doglianza senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo.

La Legge Pinto prevede e disciplina, sinteticamente:

a. il diritto della parte a esperire i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo (art. 1-bis);

b. i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo (art. 1-ter) el'inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dalla parte che non ha esperito i rimedi preventivi nel processo presupposto (art. 2, comma 1), di cui, per quanto riguarda il processo civile, si tratterà nel paragrafo che segue;

c. il diritto all'equa riparazione e il termine ragionevole di durata del processo (art. 2) pari, per il processo civile che qui rileva, a:

- 3 anni in primo grado, 2 anni in secondo grado e 1 anno nel giudizio di legittimità;

- 6 anni nel caso in cui il processo si sia svolto effettivamente in tutti i gradi di giudizio;

d. la misura dell'indennizzo (art. 2-bis) oscillante, di regola, tra l'importo minimo di € 400,00 e quello massimo di € 800,00 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo (art. 2-bis) che:

- può essere incrementato fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo;

- può essere diminuito:

(-) fino al 20% quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40% quando le parti del processo sono più di cinquanta;

(-) fino ad 1/3 in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel giudizio presupposto;

- non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice;

e. il procedimento (art. 3) che va instaurato con ricorso al presidente della Corte di Appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto ed è strutturato sulla falsariga di quello monitorio (Cass. 8 novembre 2021 n. 32524; Cass. 8 novembre 2021 n. 32517; Cass. 15 dicembre 2020 n. 28450);

e. i soggetti nei cui confronti va proposta la domanda (art. 3) e, cioè;

- il Ministero della Giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario;

- il Ministero della Difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare;

- il Ministero dell'Economia e delle Finanze negli altri casi;

f. il termine perentorio di proponibilità della domanda (art. 4) che è quello di 6 mesi dalla data di deposito della decisione che conclude il processo presupposto, anche se la giurisprudenza di legittimità, più correttamente, fa decorrere tale termine dalla data in cui la parte ha avuto effettiva conoscenza della decisione che conclude il processo (Cass. 26 ottobre 2018 n. 27250; Cass. 18 ottobre 2018 n. 26163; Cass. 30 marzo 2018 n. 7994; Cass. 29 maggio 2017 n. 13509; Cass. 20 ottobre 2015 n.21294); la Consulta, per quello che qui rileva, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (Corte cost. 26/4/2018 n. 88);

g. la notificazione del ricorso e del decreto monitorio di accoglimento della domanda (art. 5) che deve essere perfezionata nel termine perentorio di 30 giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento, pena l'inefficacia dello stesso, anche se la giurisprudenza di legittimità, più correttamente, fa decorrere tale termine dalla comunicazione del decreto stesso alla parte ricorrente (Cass. 12 aprile 2019 n. 10365; Cass. 21 marzo 2017 n. 7185);

h. il procedimento di opposizione (art. 5-ter) che va proposto:

- nel termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione del decreto monitorio ovvero dalla sua notificazione;

- con ricorso davanti alla Corte di Appello al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto;

i. le sanzioni processuali (art. 5 quater) applicabili alla parte ricorrente - oscillanti tra l'importo minimo di € 1.000,00 e quello massimo di € 10.000,00 - nel caso in cui la domanda di equa riparazione è dichiarata:

- inammissibile;

- ovvero manifestamente infondata;

l. l'esecuzione forzata nei confronti dei Ministeri (art. 5-quinquies) che prevede numerose limitazioni in danno delle parti private creditrici;

m. le modalità di pagamento delle somme liquidate (art. 5-sexies) e gli oneri posti a carico delle parti private creditrici.

I rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo civile in fase di merito

L'art. 1-bis, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 - articolo inserito dall'art. 1, comma 777, lett. a), legge 28 dicembre 2015 n. 208 - dispone: “La parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa”.

Tale norma - che definisce diritto quello che è un vero e proprio onere - identifica il fatto costitutivo del diritto all'equo indennizzo per relationem, riferendosi a una specifica norma della Convenzione EDU.

L'art. 1 bis, comma 2, legge 24 marzo 2001 n. 89 - articolo inserito dall'art. 1, comma 777, lett. a), L. 28 dicembre 2015 n. 208 - a sua volta dispone: “Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'art. 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione”.

L'art. 1-ter, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 - articolo inserito dall'art. 1, comma 777, lett. a), L. 28 dicembre 2015 n. 208 - a sua volta dispone: “Ai fini della presente legge, nei processi civili costituisce rimedio preventivo a norma dell'articolo 1-bis, comma 1, l'introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del c.p.c.

Costituisce altresì rimedio preventivo formulare richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183-bis c.p.c., entro l'udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis. Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, costituisce rimedio preventivo proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell'art. 281-sexies c.p.c., almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis. Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice istruttore quando ritiene che la causa possa essere decisa a seguito di trattazione orale, a norma dell'art. 281-sexies c.p.c., rimette la causa al collegio fissando l'udienza collegiale per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale”.

L'art. 2, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 - comma sostituito dall'art. 1, comma 777, lett. b), L. 28 dicembre 2015 n. 208 - a sua volta dispone: “E' inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventiviall'irragionevole durata del processo di cui all'art. 1-ter”.

L'art. 2, comma 2-bis, primo e secondo alinea, legge 24 marzo 2001 n. 89 - comma aggiunto dall'art. 55, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012 n. 134 - a sua volta dispone: “Si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell'atto di citazione”.

Il combinato disposto di tali norme, pertanto, prevede che la domanda di equa riparazione è inammissibile se nel giudizio civile presupposto non siano stati esperiti i rimedi preventivi costituiti alternativamente da:

  • introduzione del giudizio con ricorso ex artt. 702 bis e segg. c.p.c.;
  • richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183-bis c.p.c. entro l'udienza di trattazione o almeno 6 mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2 bis (e, cioè, se il giudizio si è svolto in un solo grado di giudizio, entro 2 anni e 6 mesi dall'introduzione del giudizio stesso);
  • presentazione - nelle sole cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione ivi quelle comprese in fase di appello - di istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c. almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2 bis (e, cioè, se il giudizio si è svolto in un solo grado di giudizio, entro 2 anni e 6 mesi dall'introduzione del giudizio stesso).
La non effettività dei rimedi preventivi

I rimedi preventivi previsti dalla Legge per i processi civili in generale e innanzi indicati non sono realmente effettivi e in parte non sono decisivi.

Il primo rimedio preventivo - introduzione del giudizio con ricorso ex artt. 702-bis e segg. c.p.c. - è effettivo soltanto nel caso in cui la causa, anche eventualmente a seguito di domanda riconvenzionale, richieda un'istruttoria sommaria (per esempio in caso di causa documentale).

In tutti gli altri casi, invece, non è effettivo (perché non garantisce alcuna efficacia acceleratoria) in quanto la forma del rito sommario scelto dall'attore non vincola il giudice.

Questi, infatti:

- ai sensi dell'art. 702-ter, comma 2, c.p.c. - nel testo implementato dalla Consulta che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'ultimo periodo di tale norma (Corte cost. 26/11/2020 n. 253) - qualora ritenga che con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il Tribunale giudica in composizione collegiale, può disporre il mutamento del rito fissando l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c. (con un notevole rallentamento del processo per la duplicazione dell'udienza di trattazione);

- ai sensi dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c., qualora ritenga che le difese delle parti richiedano un'istruzione non sommaria (come avviene nella totalità dei casi in cui sia necessaria un'attività istruttoria), deve disporre (“dispone”) il mutamento del rito e, con ordinanza non impugnabile, fissa l'udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c. (con un notevole rallentamento del processo);

- ai sensi dell'art. 702 ter, comma 4, c.p.c., qualora ritenga che la causa relativa alla domanda riconvenzionale richieda un'istruzione non sommaria, deve disporre (“ne dispone”) la separazione (con un notevole rallentamento del giudizio separato per la fissazione dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c. e la duplicazione dell'udienza di trattazione).

Il secondo e il terzo rimedio preventivo - richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario e istanza di decisione a seguito di trattazione orale - non sono effettivi (perché non garantiscono alcuna efficacia acceleratoria), né decisivi per vari ordini di motivi.

In primis in quanto non vincolano il giudice che, pertanto, può accogliere ma anche rigettare le richieste, come avviene in pratica nella totalità dei casi per l'eccessivo carico di lavoro di ciascun giudice che non consente un'accelerazione di alcuna decisione.

In secundis in quanto l'art. 1 ter, comma 7, legge 24 marzo 2001 n. 89 - articolo inserito dall'art. 1, comma 777, lett. a), legge 28 dicembre 2015 n. 208 - dispone: “Restano ferme le disposizioni che determinano l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti”.

Tale norma, pertanto, non consente in alcun modo al giudice di accogliere istanze volte ad accelerare la decisione di alcune cause più recenti in danno di altre più datate.

In tertiis in quanto è il giudice che:

  • deve garantire il buon andamento del processo, ex art. 97, comma 1, Cost., anche a prescindere il comportamento delle parti;
  • deve esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del processo, ex art. 175, comma 1, c.p.c., ancora una volta anche a prescindere il comportamento delle parti.

In quartis in quanto l'art. 183 bis c.p.c. dispone: “Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'articolo 702-ter e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria”.

Tale norma, pertanto, consente al giudice di disporre, ove lo ritenga possibile in relazione alla complessità della lite e dell'istruzione probatoria, il mutamento del rito senza alcuna sollecitazione o istanza di parte.

In quintis in quanto l'art. 281-sexies, comma 1, c.p.c. dispone: “[…] il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in un'udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

Anche tale norma, pertanto, consente al giudice di disporre, ove lo ritenga possibile o anche solo utile, la discussione orale della causa senza alcuna sollecitazione o istanza di parte.

La Corte EDU, chiamata varie volte a giudicare la legittimità dei rimedi preventivi volti a evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, li ha ritenuti ammissibili o, addirittura, preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo ed esclusivamente se effettivi e, cioè, se in grado di velocizzare effettivamente la decisione da parte del giudice competente.

La Corte EDU, in particolare, ha autorevolmente e condivisibilmente rilevato che:

  • un rimedio, per essere considerato efficace, deve essere in grado di porre direttamente rimedio alla situazione lamentata e avere una ragionevole prospettiva di successo;
  • i mezzi di ricorso a disposizione di un contendente a livello nazionale sono “efficaci” ai sensi dell'art. 13 Convenzione EDU se consentono al contendente:

- di ottenere una decisione anticipata da parte dei giudici interessati;

- di fornire un adeguato risarcimento per i ritardi già subiti;

  • il miglior rimedio in assoluto è, come in molti settori, la prevenzione;
  • un rimedio mirato unicamente ad accelerare i procedimenti, anche se auspicabile per il futuro, può non essere sufficiente a porre rimedio a una situazione in cui è chiaro che il procedimento si è già protratto per un periodo eccessivo (Corte EDU, sez. I, 28 aprile 2022, Verrascina e altri c. Italia, ricorso 15566/13 e altri 5 riuniti; conf. Corte EDU, grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c/ Italia; conf., in dottrina, M. Liguori, Legge Pinto: è possibile proporre ricorso per l'eccessiva durata del processo prima della sentenza definitiva? in questa rivista, 25 maggio 2022).

La Corte EDU, ancora, pronunciatasi in ordine al rimedio preventivo nel giudizio amministrativo costituito dall'istanza di prelievo (art. 54, comma 2, D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 133/1998, poi previsto dall'art. 71 c.p.a.) - che costituisce l'archetipo di gran parte dei rimedi preventivi introdotti dall'art. 1, comma 777 e 781, legge 28 dicembre 2015 n. 208 - ha esaminato diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal D.lgs. 2/7/2010 n. 104 ed ha conclusivamente ritenuto che la norma viola gli artt. 6, par. 1 e 13 Convenzione EDU in quanto il rimedio preventivo non può essere considerato un rimedio effettivo ai sensi dell'art. 13 della Convenzione EDU e ciò soprattutto perché il sistema giuridico nazionale non prevede alcuna condizione volta a garantire l'esame dell'istanza di prelievo (Corte EDU 25/2/2016, sez. I, 25 febbraio 2016 n. 17708, Olivieri e altri c. Italia; conf. Corte EDU 9 ottobre 2014, Xynos c. Grecia; Corte EDU 2 giugno 2009, Daddi c. Italia, relativa alla disciplina antecedente alle previsioni contenute ora nel codice del processo amministrativo del 2010).

La S.C., a sua volta, ha affermato che “L'eterogeneità delle ipotesi previste dai diversi settori processuali dell'ordinamento non è ricondotta a unità dalla legge n. 89 del 2001 che deve necessariamente interpretarsi alla stregua dalle linee direttrici promananti dalla giurisprudenza Europea […] In tal senso, deve richiamarsi la giurisprudenza della Corte EDU, per la quale, ai fini della "effettività" dei ricorsi relativi a cause concernenti l'eccessiva durata dei procedimenti, la migliore soluzione in termini assoluti è la prevenzione. Ciò comporta che, rispetto all'obbligo di esaminare le cause entro un termine ragionevole, imposto dall'art. 6, paragrafo 1, CEDU agli Stati contraenti, alle eventuali carenze del sistema giudiziario può sopperire nella maniera più efficace un ricorso finalizzato ad accelerare i procedimenti. Tale ricorso è da preferire ad un rimedio meramente risarcitorio, ma è "effettivo" soltanto nella misura in cui rende più sollecita la decisione da parte del tribunale interessato ed è adeguato solo se non interviene in una situazione in cui la durata del procedimento è già stata chiaramente eccessiva (Corte Europea dei diritti dell'uomo, sentenza 25 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, e, più di recente, sentenza 30 aprile 2020, Keaney contro Irlanda)” (Cass. 24 maggio 2022 n. 16741).

Le decisioni della Consulta sui rimedi preventivi

La Consulta, a sua volta, dopo aver ritenuto costante (e per certi versi vincolante) la giurisprudenza della Corte EDU innanzi indicata:

- ha autorevolmente e condivisibilmente affermato che “L'art. 1, commi 777, 781 e 782, della legge n. 208 del 2015 ha modificato la legge n. 89 del 2001, tra l'altro introducendo una serie di rimedi preventivi il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione (art. 2, comma 1, della legge Pinto, come modificata) - per i processi che al 31 ottobre 2016 non abbiano ancora raggiunto una durata irragionevole né siano stati assunti in decisione (art. 6, comma 2-bis, della legge Pinto come modificata) - e che, in relazione alle diverse tipologie processuali, consistono o nell'impiego di riti semplificati già previsti dall'ordinamento (art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto come modificata) o nella formulazione di istanze acceleratorie (art. 1-ter, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge Pinto come modificata) [...] Nella fattispecie, da un lato, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall'altro, per espressa previsione normativa, «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» (art. 1-ter, comma 7, della legge Pinto come modificata)” e, pertanto, ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.) - come sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 - nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto” (Corte cost. 26 aprile 2018 n. 88);

- ha autorevolmente e condivisibilmente affermato, in ordine al rimedio preventivo costituito dall'istanza di prelievo nel processo amministrativo, che “mentre per la giurisprudenza europea il rimedio interno deve garantire la durata ragionevole del giudizio o l'adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale ed il rimedio preventivo è tale se efficacemente sollecitatorio - l'istanza di prelievo, cui fa riferimento l'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 (prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla legge n. 208 del 2015), non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente (ex art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo, la parte «può» segnalare al giudice l'urgenza del ricorso), con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera "prenotazione della decisione" (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio),risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l'obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata” e, pertanto, ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 54, comma 2, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'Allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) e dall'art. 1, comma 3, lettera a), numero 6, del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell'articolo 44, comma 4, della l. 18 giugno 2009, n. 69)” (Corte cost. 6 marzo 2019, n. 34);

- ha autorevolmente e condivisibilmente affermato, in ordine al rimedio preventivo costituito dall'istanza di accelerazione del processo penale, che “nel contesto della disposizione qui censurata, la suddetta istanza, non diversamente dall'istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce infatti un adempimento necessario ma una mera facoltà dell'imputato e non ha - ciò che è comunque di per sé decisivo - efficacia effettivamente acceleratoria del processo. Atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente. La mancata presentazione dell'istanza di accelerazione nel processo presupposto […] non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l'esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell'art. 117, primo comma, Cost.” e, pertanto, ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.), nel testo introdotto dall'art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134” (Corte cost. 10 luglio 2019, n. 169);

- ha autorevolmente e condivisibilmente affermato, sempre in ordine al rimedio preventivo costituito dall'istanza di accelerazione del processo penale, che “Il deposito dell'istanza di accelerazione nel processo penale, pur presentato come diritto alla stregua dell'art. 1-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, opera, piuttosto, come un onere, visto che il mancato adempimento, in base al comma 1 del successivo art. 2, comporta l'inammissibilità della domanda di equa riparazione. Tuttavia, la presentazione dell'istanza, che pur deve intervenire almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini ragionevoli fissati per ciascun grado dall'art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, non offre alcuna garanzia di contrazione dei tempi processuali, non innesta un modello procedimentale alternativo e non costituisce perciò uno strumento a disposizione della parte interessata per prevenire l'ulteriore protrarsi del processo, né implica una priorità nella trattazione del giudizio, come chiarisce il comma 7 dell'art. 1-ter della stessa legge, in base al quale restano fermi, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, i criteri dettati dall'art. 132-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).

In tal senso, l'istanza di accelerazione prevista dalle norme censurate, quale facoltà dell'imputato e delle altre parti del processo penale, non rivela efficacia effettivamente acceleratoria del giudizio, atteso che questo, pur a fronte dell'adempimento dell'onere di deposito, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di ragionevole durata, senza che la violazione dello stesso possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità della parte. La mancata presentazione dell'istanza di accelerazione nel processo penale può eventualmente assumere rilievo ai fini della determinazione della misura dell'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non deve condizionare la proponibilità della correlativa domanda” e, pertanto, ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, in relazione all'art. 1-ter, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208” (Corte cost. 30 luglio 2021 n. 175).

Le stesse considerazioni della Consulta poste alla base delle decisioni innanzi indicate - in base a un'interpretazione adeguatrice delle norme sui rimedi preventivi costituzionalmente orientata al rispetto del principio di eguaglianza (conf., per l'interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata al rispetto del principio di eguaglianza, Corte cost. 3 gennaio 2020 n. 1) - valgono (o dovrebbero valere) anche per due dei tre rimedi preventivi previsti per il processo civile dall'art. 1 ter, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 quali:

- la richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183 bis c.p.c. entro l'udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis (e, cioè, se il giudizio si è svolto in un solo grado di giudizio, entro 2 anni e 6 mesi dall'introduzione del giudizio stesso);

- la presentazione di istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell'art. 281-sexies c.p.c. almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis (e, cioè, se il giudizio si è svolto in un solo grado di giudizio, entro 2 anni e 6 mesi dall'introduzione del giudizio stesso).

Anche tali rimedi, infatti, al pari degli altri esaminati dalla Corte EDU e dalla Consulta relativi al processo amministrativo e penale:

- non sono effettivi in quanto il sistema giuridico nazionale non prevede alcuna condizione volta a garantire l'esame e l'accoglimento delle istanze (passaggio dal rito ordinario al rito sommario e/o decisione a seguito di trattazione orale);

- sono, quindi, una mera condizione formale;

- producono, pertanto, l'effetto di ostacolare irragionevolmente e ingiustamente l'accesso alla giustizia al fine di ottenere un'equa riparazione per la durata irragionevole del processo civile.

La Consulta, però, non è stata dello stesso avviso ed ha dichiarato “non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.), sollevata, in riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848” (Corte cost. 23 giugno 2020 n. 121).

Tale decisione, però, non appare condivisibileed è auspicabile un ripensamento in materia.

A fronte dell'istanza della parte all'autorità giudiziaria di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183-bis c.p.c. o di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell'art. 281 sexies c.p.c., infatti, come innanzi esposto non vi è alcun obbligo del giudice né di accogliere, né di pronunciarsi sull'istanza che, quindi, non sembra in concreto (o, almeno, nei risultati) differenziarsi vuoi dall'istanza di prelievo nel processo amministrativo, vuoi dall'istanza di accelerazione del processo penale, ritenute per tali ragioni dalla medesima Consulta un adempimento meramente formale in contrasto con gli artt. 6 e 13 Convenzione EDU (Corte cost. 6 marzo 2019 n. 34 sull'istanza di prelievo nel processo amministrativo; Corte cost. 10 luglio 2019 n. 169 sull'istanza di accelerazione del processo penale).

Né, di contro, appare decisiva l'argomentazione posta dalla Consulta alla base della sua decisione che fa leva sulla circostanza che si tratterebbe di condotte della parte di carattere collaborativo con l'autorità giudiziaria.

La giurisprudenza europea e quella di legittimità, infatti, hanno sempre considerato il comportamento delle parti quale indice concreto per valutare, nel merito, se la durata irragionevole del processo presupposto (o parte di essa) sia dipesa da una condotta della parte, non già condizionando la procedibilità della domanda di indennizzo a tale comportamento.

La Corte EDU, in particolare, nelle pronunce innanzi indicate, ha costantemente affermato che una condotta inerte, abusiva o poco collaborativa della parte può incidere sul diritto all'indennizzo o sull'entità dello stesso, ma non condizionare la proponibilità della domanda di equa riparazione (Corte EDU 25 febbraio 2016, sez. I, 25 febbraio 2016 n. 17708, Olivieri e altri c. Italia; conf. Corte EDU 9/10/14, Xynos c. Grecia; Corte EDU 2 giugno 2009, Daddi c. Italia, relativa alla disciplina antecedente alle previsioni contenute ora nel codice del processo amministrativo del 2010).

I rimedi preventivi nel giudizio civile innanzi al Giudice di Pace

Dei tre rimedi preventivi previsti dalla Legge per i processi civili in generale e innanzi indicati:

- i primi due certamente non sono applicabili ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace;

- il terzo, invece, ha creato un contrasto giurisprudenziale ancora in atto.

Il primo rimedio preventivo: introduzione del giudizio con ricorso ex artt. 702 bis e segg. c.p.c.

Il primo rimedio preventivo - introduzione del giudizio con ricorso ex artt. 702 bis e segg. c.p.c., che è l'unico in parte effettivo per quanto innanzi esposto - non è applicabile ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace in quanto l'art. 702 bis, comma 1, primo alinea, c.p.c., dispone: “Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere proposta con ricorso al tribunale competente”.

Tale norma, pertanto, prevede espressamente che il procedimento sommario di cognizione è applicabile esclusivamente alle controversie di competenza del Tribunale in composizione monocratica, con la conseguenza che non si applica mai davanti al Giudice di Pace (Cass. 6 luglio 2021 n. 19078; Cass. 29 ottobre 2019 n. 27591; Cass. 11 novembre 2011 n. 23691).

La parte, pertanto, che intenda proporre la sua domanda, in sede civile, innanzi al Giudice di Pace non può proporre la stessa con ricorso ex artt. 702-bis e segg. c.p.c.

Il secondo rimedio preventivo: richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183-bis c.p.c.

Il secondo rimedio preventivo - richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183 bis c.p.c. - analogamente, non è applicabile ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace in quanto, come innanzi esposto, il procedimento sommario di cognizione previsto dagli artt. 702-bis e segg. c.p.c. è applicabile esclusivamente alle controversie di competenza del Tribunale in composizione monocratica, con la conseguenza che non si applica mai davanti al Giudice di Pace.

La parte, pertanto, che abbia proposto la sua domanda, in sede civile, innanzi al Giudice di Pace non può richiedere allo stesso giudice il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, inapplicabile innanzi a quel giudice.

Il terzo rimedio preventivo: presentazione di istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c. Contrasto giurisprudenziale

Il terzo rimedio preventivo - presentazione di istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c. - ha creato un contrasto giurisprudenziale ancora in atto.

Secondo un primo orientamento tale rimedio è applicabile ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace per due ragioni.

In primis in quanto “alla decisione del giudice di pace si applicano (art. 311 c.p.c.) le norme stabilite per la decisione del Tribunale in composizione monocratica capo terzo-bis, inserito, con efficacia dal 2 giugno 1999, dal d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 68, che può avvenire a seguito di trattazione scritta o mista - art. 281-quinquies c.p.c., analogo all'art. 275 c.p.c., per la deliberazione collegiale del Tribunale - o a seguito di discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c.” (Cass. Sez. Un. 1° agosto 2012, n. 13794).

In secundis in quanto le forme decisorie orali delle cause innanzi al Giudice di Pace “risultano simili ma non perfettamente equivalenti a quelle disciplinate dall'art. 281-sexies, se si considera, ad esempio, che il deposito della sentenza da parte del giudice di pace può avvenire, ai sensi dell'art. 321 c.p.c., entro 15 giorni dalla discussione, e non deve essere contestuale al verbale di udienza come nell'ipotesi dell'art. 281-sexies c.p.c., con conseguente differenziazione anche del dies a quo del termine per l'impugnazione” (App. Napoli decreto monocratico 24 luglio 2022 n. 2367; conf. App. Napoli decreto monocratico 16 aprile 2021 n. 1382).

Secondo un altro orientamento, invece, tale rimedio non è applicabile ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace in quanto “il legislatore, nel delineare il procedimento innanzi al GdP ex artt. 311 e ss. c.p.c., ha dettato una disciplina autonoma e del tutto peculiare in ragione della diversità ontologica di tale rito rispetto a quello ordinario svolgentesi innanzi al Tribunale ed anche al soppresso Pretore…Ne consegue l'inapplicabilità degli artt. 702 bis e ss. c.p.c. innanzi al GdP [...] ma anche dell'art. 281-sexies c.p.c. poiché l'art. 321 c.p.c. già prevede che il g. di p. “quando ritiene la causa matura per la decisione invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. a sentenza è depositata in cancelleria dopo 15 giorni dalla discussione”. Dunque, negli artt. 319, 320, 321 e 322, sono dettate una serie di disposizioni in tema di costituzione delle parti, trattazione e decisione della causa e conciliazione non contenziosa, che delineano appunto un procedimento speciale ispirato agli obiettivi di concentrazione e celerità della trattazione, che rendono incompatibili i rimedi acceleratori previsti per il Tribunale” (App. Napoli decreto collegiale 22 settembre 2021 n. 2698 che ha revocato, sul punto, App. Napoli decreto monocratico 16 aprile 2021 n. 1382; conf. App. Napoli decreto monocratico 16 marzo 2021 n. 643).

La soluzione preferibile

La soluzione preferibile appare quella del secondo orientamento che ritiene che tale rimedio non è applicabile ai giudizi civili innanzi al Giudice di Pace, per due ordini di motivi.

In primis in quanto gli artt. 319, 320, 321 e 322 c.p.c. regolano il giudizio innanzi al Giudice di Pace e dettano una serie di disposizioni in tema di costituzione delle parti, trattazione e decisione della causa e conciliazione non contenziosa, che delineano un procedimento speciale ispirato agli obiettivi di concentrazione e celerità della trattazione.

L'art. 321 c.p.c., in particolare e per quello che qui rileva, dispone: “Il giudice di pace, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. La sentenza è depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla discussione”.

La discussione orale, pertanto, non solo è già prevista per tutti i giudizi innanzi al Giudice di Pace, ma è anche l'unica forma di trattazione della causa prevista nella fase decisionale.

La Consulta, dal canto suo, ha confermato in generale tale assunto ed ha autorevolmente e condivisibilmente affermato che “Il legislatore, nel delineare il procedimento innanzi al giudice di pace, ha dettato una disciplina autonoma e del tutto peculiare, in ragione della diversità ontologica di tale rito rispetto a quello ordinario, svolgentesi davanti al tribunale e davanti al pretore; le disposizioni speciali contenute nel Capo III del Titolo II del Libro secondo del codice di procedura civile dimostrano come si sia voluto nettamente differenziare il procedimento davanti al giudice di pace, attribuendo ad esso una particolare connotazione, rappresentata dalla massima semplificazione delle forme. Caratteristiche proprie del procedimento in esame sono infatti la proposizione della domanda introduttiva in forma verbale e la mancata previsione di termini per la costituzione delle parti, che non trovano riscontro nelle regole processuali dettate per il procedimento davanti al tribunale. Affatto particolari sono poi le modalità di costituzione in giudizio del convenuto, che non ha l'onere della preventiva redazione della comparsa di risposta, né del suo deposito, essendogli attribuita la facoltà di costituirsi in udienza mediante la proposizione anche orale delle proprie difese e di eventuali domande riconvenzionali…è allora evidente l'erroneità del presupposto da cui muove il giudice a quo, nel ritenere applicabile anche al procedimento innanzi al giudice di pace quel citato regime di preclusioni e decadenze, che è invece incompatibile con la struttura semplificata del rito in esame, la cui disciplina è stata volutamente e non irragionevolmente differenziata da quella del procedimento ordinario” (Corte cost. 29 maggio 1997 n. 154).

Deve ritenersi, pertanto, che in tema di equa riparazione l'art. 1 ter, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 deve interpretarsi - anche in ossequio al canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla Costituzione e alla Convenzione EDU - nel senso che non rientrano nel perimetro di applicazione della norma i processi civili che si svolgono innanzi al Giudice di Pace in quanto è già prevista la trattazione orale della causa nella fase decisionale, in analogia con lo schema dell'art. 281- sexies c.p.c..

In secundis in quanto lo schema di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281 sexies c.p.c. è esclusivo del procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica dopo l'avvenuta abrogazione dell'art. 12, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, norma che estendeva alle controversie societarie il modello di decisione di cui appunto all'art. 281 sexies c.p.c.

Tale assunto è confermato dal capo “III-bis - del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica”, aggiunto dall'art. 68 d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51 e in cui è inserito l'art. 281-sexies c.p.c.

La parte, pertanto, che abbia proposto la sua domanda, in sede civile, innanzi al Giudice di Pace non è tenuto a (né può) presentare al giudice alcuna istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281 sexies c.p.c. in quanto la trattazione orale è già prevista dall'artt. 321 c.p.c. come l'unica forma di trattazione della causa nella fase decisionale.

L'irrilevanza dell'assunto secondo cui le norme stabilite per la decisione del Tribunale in composizione monocratica si applicano anche alla decisione del Giudice di Pace

A mio giudizio, a nulla rileva, sullo specifico punto, il primo assunto posto dall'orientamento contrario alla base della sua scelta e, cioè, la non recentissima decisione delle Sezioni Unite secondo cui “alla decisione del giudice di pace si applicano (art. 311 c.p.c.) le norme stabilite per la decisione del Tribunale in composizione monocratica capo terzo - bis, inserito, con efficacia dal 2 giugno 1999, dal d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 68, che può avvenire a seguito di trattazione scritta o mista - art. 281 quinquies c.p.c., analogo all'art. 275 c.p.c., per la deliberazione collegiale del Tribunale - o a seguito di discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c.” (Sez. Un. 1° ottobre 2012 n. 13794).

Ciò per due autonome ragioni.

In primis in quanto l'art. 311 c.p.c., pur posto dalle Sezioni Unite alla base della sua decisione, dispone: “Il procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale, in composizione monocratica, in quanto applicabili”.

Tale norma, pertanto, estende le norme del procedimento davanti al Tribunale a quello davanti al Giudice di Pace, ma con l'eccezione di “tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni”.

L'art. 321 c.p.c., come innanzi esposto, per le cause davanti al Giudice di Pace, pone la regola espressa della trattazione orale della causa nella fase decisionale.

In secundis in quanto l'assunto delle Sezioni Unite, secondo cui la decisione anche del Giudice di Pace, analogamente a quella del Tribunale, può avvenire a seguito di trattazione scritta o mista o a seguito di discussione orale, non scalfisce il precedente assunto secondo cui la regola generale, prevista dal combinato disposto degli artt. 311 e 321 c.p.c., è la discussione orale della causa nella fase decisionale.

Ne consegue:

  • da un lato, l'irrilevanza delle altre forme di trattazione della causa nella fase decisionale previste per il rito ordinario innanzi al Tribunale, anche se estese al giudizio innanzi al Giudice di Pace;
  • dall'altro lato, l'inapplicabilità al giudizio innanzi al Giudice di Pace del rimedio preventivo costituito dalla richiesta di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c.

L'irrilevanza dell'assunto secondo cui la forma decisoria orale delle cause civili innanzi al Giudice di Pace risulta simile ma non perfettamente equivalente a quella disciplinata dall'art. 281-sexies c.p.c.

Sempre a mio giudizio a nulla rileva, altresì, sullo specifico punto, il secondo assunto posto dall'orientamento contrario alla base della sua scelta e, cioè, che la forma decisoria orale delle cause civili innanzi al Giudice di Pace risulta simile ma non perfettamente equivalente a quella disciplinata dall'art. 281-sexies c.p.c.

Tale assunto, infatti, anche a voler prescindere da tutte le considerazioni innanzi esposte, non è né rilevante né decisivo in quanto il termine di 15 giorni per il deposito della sentenza da parte del Giudice di Pace è un posterius rispetto alla forma di trattazione della causa e in ogni caso:

- da un lato, è un termine veramente modesto rispetto al termine ragionevole del processo;

- dall'altro lato, è un mero termine massimo entro il quale il giudice deve depositare la sua sentenza il ché non esclude che possa depositarla contestualmente alla discussione orale o il giorno successivo o i giorni successivi.

Il precedente di legittimità sui rimedi preventivi nel rito lavoro

La giurisprudenza di legittimità, seppur non ha affrontato direttamente la medesima questione, ha affrontato e risolto una questione identica e relativa ai rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo svoltosi nelle forme del rito lavoro ove pur è previsto il deposito della sentenza entro 15 giorni dalla pronuncia (art. 430 c.p.c.) che, come innanzi esposto, è lo stesso termine previsto per il deposito della sentenza da parte del Giudice di Pace (art. 321 c.p.c.).

La S.C., in particolare, ha ritenuto inapplicabili i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo svoltosi con il rito lavoro ed ha autorevolmente e condivisibilmente affermato che “In tema di equa riparazione, l'art. 1 ter, comma 1, della l. n. 89 del 2001 deve interpretarsi - anche in ossequio al canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU - nel senso che non rientrano nel perimetro di applicazione della norma i processi che si svolgono con il rito lavoro in quanto, a seguito della modifica dell'art. 429, comma 1, c.p.c. è già previsto che il giudice, all'udienza di discussione, decida la causa e proceda alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e in diritto della decisione, in analogia con lo schema dell'art. 281-sexies c.p.c.” (Cass. 24 maggio 2022 n. 16741).

I suddetti principi, seppur affermati in relazione al processo che si svolge nelle forme del rito lavoro, potrebbero a mio giudizio essere applicati, per identità di ratio, anche al processo innanzi al Giudice di Pace ove, come innanzi esposto, è già previsto che il giudice, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa.

Conclusioni

Deve ritenersi, pertanto, per tutto quanto fin qui esposto, che i rimedi preventivi previsti dall'art. 1 ter, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89 sono inapplicabili ai giudizi civili svoltisi innanzi al Giudice di Pace, con conseguente inapplicabilità degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1 e 2, comma 1, legge 24 marzo 2001 n. 89.

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