Mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione in appello

Mattia Caputo
18 Novembre 2022

Pur consentendo l'ordinamento la modifica della primigenia domanda di adempimento in domanda di risoluzione, anche in grado di appello e, dunque, il mutamento del petitum, è però precluso alle parti fondare una tale modifica su una causa petendi differente.
Massima

E' vero che l'art. 1453, comma 1, c.c., dispone che nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto e che, secondo il comma 2 del medesimo articolo, la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento, mutamento che – secondo la giurisprudenza di questa Corte – può essere fatto nel corso del giudizio di primo grado, nonché in appello e persino in sede di rinvio (cfr., per tutte, Cass. n. 13003/2010). Tale facoltà può essere esercitata, però, a condizione "che si resti nell'ambito dei fatti posti a base della indempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine" (ancora Cass. n. 13003/2010).

Il caso

Tizio, in qualità di promissario acquirente di un bene immobile, conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Bologna, Caio, promittente venditore e procuratore dell'altro comproprietario Sempronio, chiedendo emettersi sentenza che ai sensi dell'articolo 2932 c.c. tenesse conto del consenso non prestato dai convenuti per la stipulazione del contratto definitivo di vendita; l'attore allegava che questi fossero, appunto, inadempienti rispetto agli obblighi assunti con la sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita e, in particolare, a quello di prestare il consenso alla conclusione del definitivo Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e disponeva il trasferimento del cespite immobiliare in favore di Tizio, subordinandolo alla corresponsione del prezzo residuo.

Avverso tale sentenza proponeva appello Tizio, concludendo nell'atto introduttivo del gravame per la riforma parziale della pronuncia di primo grado, segnatamente in ordine all'ammontare del prezzo residuo che egli era tenuto a versare, essendo venuto nel frattempo a conoscenza dell'esistenza di un pignoramento immobiliare sull'immobile “sub iudice”. All'udienza di precisazione delle conclusioni del processo di appello Tizio chiedeva revocarsi integralmente la sentenza impugnata e pronunciarsi la risoluzione del contratto preliminare ai sensi dell'articolo 1453 c.c. e condannare gli appellati, promittenti venditori, al risarcimento del danno, ponendo alla base del mutamento della domanda ex art. 2932 c.c. in domanda di risoluzione per inadempimento, di essere venuto nel frattempo a conoscenza della “grave difformità” dell'immobile rispetto a come descritto.

La Corte d'Appello di Bologna dichiarava inammissibile la domanda attorea di risoluzione del preliminare per inadempimento sulla base della motivazione per cui l'appellante ha introdotto nel giudizio secondo grado un fatto, cioè la difformità non sanabile dell'immobile rispetto ai progetti licenziati, non solo non sopravvenuto nel corso del processo - e, che, dunque, ben avrebbe potuto essere dedotto al momento della proposizione del gravame -, ma anche totalmente “nuovo”, rispetto all'originario inadempimento lamentato, vale a dire il rifiuto dei promittenti venditori alla stipulazione del contratto definitivo di vendita.

Contro tale decisione Tizio proponeva ricorso per Cassazione articolato su un solo motivo di doglianza, cioè violazione e falsa applicazione dell'articolo 1453, comma 2, c.c., per non avere la Corte d'Appello felsinea applicato tale disposizione o averla applicata falsamente, essendo consentito al contraente non inadempiente, proprio in forza di tale norma, di esercitare lo ius variandi della originaria domanda di adempimento in domanda di risoluzione, in deroga ai principi generali che governano le decadenze e le preclusioni.

La questione

L'ordinanza in commento riguarda una questione di grande rilievo pratico, cioè quella della individuazione di quali siano i limiti che il contraente non inadempiente incontra laddove intenda, in ossequio al disposto di cui al secondo comma dell'articolo 1453 del Codice Civile, modificare l'originaria domanda di adempimento in domanda di risoluzione e restituzione (nonché, se del caso, risarcimento dei danni) in grado di appello.

Le soluzioni giuridiche

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione con l'ordinanza che qui si annota ha risposto in modo assolutamente chiaro e convincente alla questione sottoposta al suo esame.

La Suprema Corte, infatti, richiamando la propria consolidata giurisprudenza, ha sancito che se è indubbio che il contraente non infedele rispetto ai propri obblighi contrattuali possa certamente mutare la domanda originariamente proposta di adempimento (volta, cioè, ad ottenere proprio l'esecuzione dell'obbligazione ex contractu assunta dalla controparte, nella specie la prestazione del consenso alla stipula di un contratto definitivo di vendita) in domanda di risoluzione per inadempimento (diretta, cioè, ad una pronuncia costitutiva che determini lo scioglimento delle parti dal vincolo contrattuale) e risarcimento del danno, e ciò finanche nel giudizio di secondo grado, è altrettanto indubbio che tale mutamento della domanda debba fondarsi pur sempre sullo stesso, identico inadempimento originariamente allegato in giudizio. Laddove ciò non accada, la domanda di risoluzione, espressione dell'esercizio dello ius variandi previsto dall'articolo 1453, comma 2, c.c. dovrà considerarsi inammissibile, essendo basata su un nuovo tema di indagine, una nuova causa petendi, che finisce per incorrere nelle preclusioni invalicabili di cui agli articoli 183 e 345 c.p.c.

Per la Corte di Cassazione, dunque, pur consentendo l'ordinamento la modifica della primigenia domanda di adempimento in domanda di risoluzione, anche in grado di appello o in sede di rinvio da altro giudizio di impugnazione e, dunque, il mutamento del petitum (da rimedio conservativo ed attuativo del vincolo contrattuale ad uno caducatorio, eventualmente affiancato da quello, generale e minimale, risarcitorio) è però precluso alle parti fondare tale modifica su una causa petendi differente rispetto a quella inizialmente introdotta ritualmente in giudizio. Vale a dire che l'inadempimento allegato da chi chiede ab origine l'adempimento del contratto – secondo il dettato del riparto dell'onere della prova delineato dalla stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la storica sentenza n. 13533 del 2001 – deve essere il medesimo che giustifica anche la domanda, mutata, di risoluzione. Qualora ciò non avvenga, infatti, finisce per essere introdotto nel processo un nuovo tema di indagine, in violazione delle preclusioni processuali, con conseguente inammissibilità della domanda di risoluzione, così come modificata.

Né tantomeno, per la Seconda Sezione Civile, una siffatta possibilità può dirsi riconosciuta dalla pronuncia delle Sezioni Unite Civili n. 8510 del 2014, come sostenuto dal ricorrente, atteso che in essa è stato precisato che è consentito esercitare lo ius variandi della domanda di adempimento in domanda di risoluzione in ogni fase, stato e grado del processo, con contestuale introduzione anche della domanda risarcitoria, ma a patto che i fatti dedotti a fondamento della domanda risolutoria coincidano con quelli posti alla base della domanda di adempimento originariamente proposta.

Seguendo questo iter argomentativo la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso proposto da Tizio, atteso che quest'ultimo in grado di appello aveva mutato la domanda iniziale di adempimento (sotto forma di esecuzione forzata in forma specifica di cui all'articolo 2932 c.c.) in domanda di risoluzione e restituzione dell'indebito, basandola però non già sull'inadempimento allegato originariamente in giudizio – cioè il mancato consenso dei promittenti venditori rispetto alla stipulazione del contratto definitivo di vendita – ma su uno diverso, ovvero la difformità non sanabile dell'immobile promesso in vendita rispetto ai progetti licenziati.

Osservazioni

La decisione che qui si annota si caratterizza per aver fatto piana applicazione dei principi generali processualcivilistici e, pertanto, appare da salutare con favore.

La Seconda Sezione, infatti, in linea di continuità con la precedente giurisprudenza della Suprema Corte, ha offerto un'interpretazione della facoltà riconosciuta dall'articolo 1453, comma 2, c.c. al contraente non inadempiente di modificare l'originaria domanda di adempimento in domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e ripetizione dell'indebito e, eventualmente, risarcimento dei danni, assolutamente conforme a quello che è il regime delle preclusioni che governa il processo civile.

Infatti, nel processo di primo grado il thema decidendum, che costituisce il frutto delle allegazioni delle parti, vede il suo sbarramento finale nella prima memoria ex art. 183, comma 6, n. 1), c.p.c., oltre la quale non è più consentito introdurre ritualmente in giudizio fatti o temi di indagine, salvo che si tratti di circostanze “nuove”, cioè sopraggiunte successivamente allo spirare, appunto, delle preclusioni.

Analogamente, poi, nel giudizio di appello, vige il rigido divieto di ius novorum sancito dall'articolo 345 c.p.c., per cui non è consentito alle parti formulare domande o eccezioni nuove, se non entro i limiti rigidamente stabiliti dal legislatore.

Fatta questa premessa, dunque, la decisione della Suprema Corte risulta assolutamente coerente con il reticolato di norme sopra individuato, atteso che il ricorrente intendeva nel giudizio di secondo grado – peraltro in sede di precisazione delle conclusioni – mutare la domanda originaria di adempimento in domanda di risoluzione del contratto preliminare di compravendita e restituzione di quanto da egli versato ai promittenti venditori, ponendo alla base della domanda “variata” non già l'inadempimento inizialmente e ritualmente allegato nel processo di primo grado, bensì un altro, del tutto differente e, appunto, mai dedotto in precedenza. La conseguenza inevitabile è che la domanda, così come modificata, sia pure astrattamente ammissibile, non lo è però in concreto, in quanto fondata su fatti e temi di indagine del tutto nuovi, peraltro introdotti per la prima volta nel processo di appello.

Occorre considerare, comunque, che la decisione adottata dalla Corte d'Appello nel caso di specie, di declaratoria di inammissibilità della domanda di risoluzione come risultante dall'esercizio dello ius variandi da parte del promissario acquirente, sarebbe stata di identico segno laddove fosse stata emessa nel giudizio di primo grado: infatti, il limite delle preclusioni e del mutamento della domanda ex art. 1453, comma 2, c.c., basato però pur sempre sul medesimo, identico inadempimento su cui si fonda la domanda originaria di adempimento, vige anche nel processo di primo grado, come si è visto poc'anzi. Ragion per cui il mutamento in sede di precisazione delle conclusioni della domanda di cui all'articolo 2932 c.c. in domanda di risoluzione del contratto e ripetizione di indebito è sì consentito in primo grado, ma a condizione che si basi sullo stesso inadempimento che inizialmente sorreggeva la domanda di adempimento; in caso contrario, dunque, si tratterà di una vera e propria mutatio libelli, non consentita e, come tale, inammissibile.

Da ultimo, poi, deve rilevarsi come la pronuncia in esame si ponga in una ideale linea di continuità anche con l'orientamento più recente della Suprema Corte, espresso a Sezioni Unite con le sentenze n. 12310 del 2015 e n. 22404 del 2018, per cui si ha emendatio libelli della domanda (e non mutatio, anche nel caso in cui uno o entrambi gli elementi identificativi della domanda, cioè il petitum e la causa petendi vengano modificati, sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale originariamente dedotta in giudizio. Invero, l'emendatio libelli è sì consentita laddove si ancori alla medesima vicenda sostanziale originariamente introdotta in giudizio, ma pure sempre fino allo spirare del termine ex art. 183, co. 6, n. 1), c.p.c., oltre il quale ogni modifica è preclusa alle parti e diviene, quindi, inammissibile.

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