Il VAR, i calci di rigore e il “nuovo” golden goal

21 Novembre 2022

EU – ITA: 1-0. ITA – EU: 1-0. Nota a Cassazione penale 4 febbraio 2022 (dep. 27 aprile 2022), n. 16226.
Premessa

La Corte di cassazione, con la sentenza in esame, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da F.A. avverso il decreto con cui la Corte di Appello di Catanzaro aveva già attribuito la stessa sorte alla richiesta di c.d. “revisione europea” del procedimento di prevenzione. Esso era stato celebrato a Reggio Calabria, definito in primo grado con decreto del 16 giugno 1998 e confermato in secondo grado dal decreto del 16 luglio 2004, con cui era stata disposta (anche) la confisca dei beni.

Procedimento giudicato unfair dalla Corte E.d.u., Sezione Seconda, con decisione del 13 maggio 2014, ric. n. 5382/08.

La Corte di Strasburgo accertò la violazione dell'art. 6, § 1, C.E.D.U., a seguito (temporalmente, mantenendo pieno di contenuti autonomi il proprio sindacato) della dichiarazione unilaterale con cui il Governo italiano riconobbe la violazione.

Più esattamente, il dispositivo europeo fu il seguente: «La Corte all'unanimità prende atto dei termini della dichiarazione del governo convenuto riguardante la mancanza di pubblicità del dibattimento (articolo 6 § 1 della Convenzione) e delle modalità previste per garantire il rispetto degli impegni presi; Decide di cancellare questa parte del ricorso dal ruolo in applicazione dell'articolo 37 § 1 c) della Convenzione; Dichiara il resto del ricorso irricevibile». Nel dettaglio, l'irricevibilità colpì la censura ex art. 1, Prot. 1, C.E.D.U., in relazione alla quale la Corte E.d.u. si determinò in tal modo: «non rileva alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli».

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16226/22, ha dichiarato la inammissibilità per ragioni di forma e di sostanza: si sarebbe dovuto azionare il rimedio revocatorio di cui all'art. 7 l. n. 1423/56 ratione temporis, in luogo di quello disciplinato dall'art. 28 d.lgs. n. 159/11.

Peraltro, date le caratteristiche strutturali della impugnazione esperita e prevista dall'art. 28 cit., «il ricorrente avrebbe dovuto specificamente rappresentare – onde rendere concreto l'interesse all'azione giudiziaria – le ragioni per cui l'avvenuta celebrazione, nel contraddittorio delle parti, pur se in camera di consiglio, abbia compromesso l'esito della decisione in termini a sé favorevoli, che, invece, la pubblicità della udienza avrebbe evitato» (v. § 11.3).

Il caso (con qualche anticipata osservazione)

La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso «per l'assorbente ragione che, nell'introdurre il giudizio di revisione europea, il ricorrente ha completamente omesso di rappresentare il proprio interesse concreto all'impugnazione, non risultando indicato in quali termini la riapertura del processo e la garanzia della pubblicità avrebbero consentito di ripristinare prerogative processuali asseritamente violate (come il diritto al contraddittorio o alla prova), e permesso al ricorrente di conseguire un esito a lui più favorevole» (v. § 1 del «Considerato in diritto»).

La S.C. ha ritenuto logicamente doveroso affrontare la questione preliminare, «controversa nel presente giudizio, relativa alla interpretazione del contenuto della decisione adottata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella causa F. c. Italia».

Vero. È sicuramente uno dei nodi più difficili da sciogliere, tenuto conto del bailamme giudiziario cui il ricorrente è stato sottoposto: inutilmente, dato che tutti i rimedi azionati – dall'incidente d'esecuzione alla revisione europea, per l'appunto – si sono rivelati inefficaci.

Si anticipi che la esegesi del dispositivo europeo è certamente meno complicata di quella avente a oggetto la trama motiva tessuta dalla Corte Suprema, sez. I, 13 luglio 2018 (dep. 8 novembre 2018), n. 50919, in prima battuta e dalla sentenza in commento della Sezione Quinta, in seconda… istanza.

Si reputa sommessamente che tanta, troppa sia stata la confusione generata dagli Ermellini e che ha definitivamente segnato lo strike out dell'interessato.

Tuttavia, se si sbircia la sentenza della Corte E.d.u., al § 23 si legge: «Infine, la Corte sottolinea che, qualora il Governo non rispettasse i termini della sua dichiarazione unilaterale, questa parte del ricorso potrebbe essere nuovamente iscritta al ruolo in applicazione dell'articolo 37 § 2 della Convenzione [Josipović c. Serbia (dec.), n. 18369/07, 4 marzo 2008]».

Al fine di comprendere tutti i passaggi, è necessario ripercorrerne la storia. Per farlo, si segua il filo del «Ritenuto in fatto» tracciato dalla Sezione Quinta.

Risultato vittorioso a Strasburgo, F. decise di adire il Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, con le forme dell'incidente d'esecuzione ex art. 670 c.p.p.; il Collegio, però, rigettò la richiesta nel 2015, ritenendo che nessuna conseguenza ulteriore – rispetto al carattere non equo del giudizio di prevenzione – potesse derivare dalla decisione del 13 maggio 2014.

La Corte d'appello reggina intervenne a conferma, aggiungendo (si veda sub § 1.3) che «l'Italia si è adeguata alla necessità di prevedere la facoltà di udienza pubblica in primo grado, nei procedimenti di prevenzione, con l'adozione del d.lgs. n. 159/2011, in tal modo eliminando il vizio sistemico dell'ordinamento interno, e, pertanto, aveva ritenuto intangibile il giudicato di prevenzione, pure in presenza di un accertamento di violazione, peraltro, limitata ad un particolare aspetto del rito, non potendo farsi discendere dalla previsione di adeguamento contenuta nell'art. 46 Conv. Edu un obbligo di rimozione degli effetti del giudicato interno, specie lì dove la riapertura del giudizio non sia stata sollecitata, come strumento di riparazione, dalla stessa Corte Edu».

Si osservi appena: l'obbligo di rimozione (in questo caso) implica(va) davvero l'avvio di un nuovo procedimento o, piuttosto, un “semplice” non exequatur da parte del Giudice nazionale?

Anche perché il riferimento all'art. 46 C.E.D.U. è tutt'altro che pertinente.

Si prosegua.

La Corte di cassazione, sez. I, sentenza 13 luglio 2018, n. 50919, rigettò il gravame proposto avverso la decisione della Corte d'appello, «ritenendo che il ricorso avanzato con le forme dell'incidente di esecuzione, secondo il modello di cui all'art. 670 c.p.p.domandando, non già la riapertura del procedimento definitivo, quanto la dichiarazione di inesigibilità del provvedimento di confisca con immediata restitutio in integrum – non fosse idoneo a dare sfogo alla doglianza attinente al vizio originario di formazione del titolo, detto rimedio afferendo, piuttosto, ad eventi sopravvenuti che ne travolgano la validità, e individuava, quale strumento adeguato, invece, il mezzo revocativo, sub specie del contenitore procedimentale di cui all'art. 7 della legge n. 142(3)/195(6) (revoca anche ex tunc), (disposizione ora collocata nel testo dell'art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, e nell'art. 28 del medesimo decreto legislativo quanto alle misure patrimoniali), con il quale dare ingresso a una revisione europea».

Quanto testé riportato è il contenuto del § 1.4.1 della sentenza n. 16226/2022 in esame, con cui la Sezione Quinta ha dichiarato inammissibile l'ennesimo e ultimo rimedio che il ricorrente potesse inoltrare. O meglio: dovesse inoltrare, proprio “alla luce” del passaggio motivo della sentenza n. 50919 e doppiamente enfatizzato come sopra. Così pronunciandosi nel 2018 ed esauriti inutilmente tutti i gradi di giudizio relativi all'incidente d'esecuzione, la Suprema Corte aveva “esortato” F. ad attivare lo strumento disciplinato proprio dall'art. 28 d.lgs. n. 159/2011.

Ciò che, concretamente, costui fece, la “revisione europea” risultando l'ultimo baluardo. Baluardo che, tuttavia, si rivelò un ologramma, poiché il ricorso fu dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello di Catanzaro con decreto del 17 marzo 2021.

Il Collegio catanzarese puntualizzò che «la Corte EDU sia chiara nello stabilire sufficiente riparazione il riconoscimento della violazione, una volta constatato l'impegno del governo italiano e della legislazione interna, per come rimodellata dalla Corte costituzionale, di evitare in futuro violazioni di tal genere […], anche in considerazione del rifiuto della proposta risarcitoria, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo».

A suo parere, ciò equivale(va) a una dichiarazione di cessazione della materia del contendere e non all'espresso riconoscimento del diritto fatto valere in giudizio.

Si permetta di riportare nuovamente il dispositivo del Giudice europeo: «La Corte all'unanimità prende atto dei termini della dichiarazione del governo convenuto riguardante la mancanza di pubblicità del dibattimento (articolo 6 § 1 della Convenzione) e delle modalità previste per garantire il rispetto degli impegni presi; Decide di cancellare questa parte del ricorso dal ruolo in applicazione dell'articolo 37 § 1 c) della Convenzione; Dichiara il resto del ricorso irricevibile».

Quindi, la violazione era stata “confessata” dal Governo, riconosciuta/dichiarata dalla Corte E.d.u. e, con essa, anche la fondatezza della doglianza così come la sussistenza del diritto (leso).

Adita la Corte di cassazione, il risultato fu il medesimo (segue…).

La decisione (e qualche amara riflessione in conclusione)

(Segue…) e la ragione la presente (v. § 1 del «Considerato in diritto»): «Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, per l'assorbente ragione che, nell'introdurre il giudizio di revisione europea, il ricorrente ha completamente omesso di rappresentare il proprio interesse concreto all'impugnazione, non risultando indicato in quali termini la riapertura del processo e la garanzia della pubblicità avrebbero consentito di ripristinare prerogative processuali asseritamente violate (come il diritto al contraddittorio o alla prova), e permesso al ricorrente di conseguire un esito a lui più favorevole».

Lo si dica subito: leggendo la sentenza tutta d'un fiato, la tentazione del plauso è forte.

Molto forte.

Ecco, infatti, cosa si legge sub § 11.2: «La Corte di appello di Catanzaro ha rilevato che l'atto difensivo si è sottratto all'onere di “indicare la rilevanza in termini di sopravvenienza degli elementi di prova nuova (…). L'osservazione chiama in causa l'interesse ad agire, che costituisce il presupposto di ogni impugnazione (art. 568 comma 4 c.p.p.), e deve essere sempre correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare, il quale sussiste solo se il mezzo di impugnazione proposto sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente (…). La peculiarità della violazione accertata dalla Corte Edu – ovvero la assenza di pubblicità dell'udienza – porta, invero, a ritenere che la parte, nel richiedere, attraverso lo strumento della revisione, la riapertura del processo (restitutio in integrum), ovvero, nel caso di specie, la celebrazione ex novo, dell'udienza dinanzi alla Corte di appello, avrebbe dovuto dare dimostrazione, quantomeno in termini di allegazione, del risultato utile conseguibile, una volta assicurata la garanzia della pubblicità».

Rileggendola e metabolizzandola, l'idea muta e nella nuvoletta si scorge questo pensiero: “Buffo! Si potrebbe dire la stessa cosa, ma a parti invertite”.

Proprio perché il ricorrente non aveva interesse alla celebrazione di un nuovo procedimento – il primo strumento azionato era stato l'art. 670 c.p.p., infatti – ma a far valere il principio della c.d. “invalidità derivata”, il risultato è mancato.

E non poteva essere diversamente.

Da qui il paradosso.

Al pensiero della vittoria che fu sul campo francese, la gioia di F. la si immagina affine al sentimento di Alice in un momento di amara ilarità: quello in cui il cappellaio matto le fa gli auguri di “Buon NON compleanno”.

Eh… già.

Sì perché, quella della revisione europea pare essere stata una non scelta, un percorso obbligatorio. E illusorio.

Ché poi, riflettendo ad alta voce, si giunge a una considerazione assai peregrina: lo strumento della revisione è certamente subordinato ai casi tipizzati dall'art. 630 c.p.p. (Giano dell'art. 28 d.lgs. n. 159/11 o meglio: il secondo Giano del primo) che, non a caso, così esordisce: La revisione può essere richiesta (…).Quello che esige la sopravvenienza/scoperta di prove nuove è “solo” uno tra questi.

Perciò, si compulsa la mente: quale che sia stato lo sforzo difensivo realmente – talvolta, si sa, giunge immeritata e a sorpresa la inammissibilità – che senso ha avuto l'intervento additivo siglato dalla Consulta con la celebre sentenza n. 113 del 7 aprile 2011?

Qual è stato l'impatto effettivo e, soprattutto, benefico(il favor rei avendo ispirato la manipolazione)che ne è derivato all'interessato?

Si ricordi che, con essa, la Corte aveva dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo».

Appunto.

Riaffiora quanto condensato nel § 1.4.1 della sentenza in oggetto.

Perdoni il Lettore la ripetizione ma è perché esso esprime il punctum pruriens della questione: «ritenendo che il ricorso avanzato con le forme dell'incidente di esecuzione, secondo il modello di cui all'art. 670 c.p.p.domandando, non già la riapertura del procedimento definitivo, quanto la dichiarazione di inesigibilità del provvedimento di confisca con immediata restitutio in integrum – non fosse idoneo a dare sfogo alla doglianza attinente al vizio originario di formazione del titolo, detto rimedio afferendo, piuttosto, ad eventi sopravvenuti che ne travolgano la validità, e individuava, quale strumento adeguato, invece, il mezzo revocativo, sub specie del contenitore procedimentale di cui all'art. 7 della legge n. 142(3)/195(6) (revoca anche ex tunc), (disposizione ora collocata nel testo dell'art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, e nell'art. 28 del medesimo decreto legislativo quanto alle misure patrimoniali), con il quale dare ingresso a una revisione europea».

Lo si scandagli e il frutto dell'analisi linguistica sarà il seguente:

  1. F. ha azionato il rimedio di cui all'art. 670 c.p.p.;
  2. Con il rimedio di cui all'art. 670 c.p.p. il ricorrente ha sbagliato, avendo bussato alla porta della Giustizia italiana per ottenere la dichiarazione di inesigibilità del decreto di confisca;
  3. F. avrebbe dovuto chiedere la riapertura del procedimento;
  4. Lo strumento della revoca andava individuato nell'art. 7 l. “madre” (in virtù, lo si anticipi, dell'art. 117 d.lgs. n. 159/11);
  5. Lo strumento della revoca è, però, solo il contenitore (?) procedimentale che, in caso di misure patrimoniali proposte dopo il 13 ottobre 2011, reca il contenuto dell'art. 28 d.lgs. n. 159/2011 (si ribadisce: l'equivalente dell'art. 630 c.p.p.).

È il momento di interrogarsi, però, su quale differenza sostanziale vi sia tra l'istituto previsto dall'art. 7 della legge n. 1423/1956 e quello cui F. fece ricorso in primissima battuta: l'incidente d'esecuzione posto all'attenzione, proprio ed esattamente, del Tribunale di Reggio Calabria – Sezione Misure di Prevenzione.

Valorizzare il dato della differenza (in fondo) solo formale tra le due procedure si è forse tradotto nella negazione del suo diritto alla restituzione dei propri beni? Ablati a seguito di una procedura inficiata alla radice, ma il cui vizio è stato riconosciuto e dichiarato solo a seguito della pronuncia convenzionale.

Si pongano a confronto proprio le due disposizioni normative or ora citate:

Art. 670, comma 1, c.p.p.

Art. 7, comma 2, l. n. 1423/1956

Quando il giudice dell'esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo (…) lo dichiara con ordinanza e sospende l'esecuzione (…).

Il provvedimento stesso (…) può essere revocato o

modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando

sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato (…).

Il fil rouge che accomuna le disposizioni normative sembra essere uno solo: STOP.

Il ricorso all'art. 670 c.p.p. – benché si trattasse di cose, non di persone – è, allora, un peccato veniale? Riecheggia Cass. pen., sez. I, 1° dicembre 2006 (dep. 25 gennaio 2007), n. 2800, Dorigo: «Il giudice dell'esecuzione deve dichiarare, a norma dell'art. 670 c.p.p., l'ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall'art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell'ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo».

Cinque anni dopo sarebbe intervenuta la Consulta, si è detto, ma l'inquadramento non è stato poi così perfetto. Capire chi adire e come non era (è?), per vero, così netto.

Sarebbe bastato, forse, un approccio pragmaticamente garantista del Tribunale di Reggio Calabria per dare esecuzione alla volontà del Governo e alla decisione della Corte E.d.u. già nel lontano 2015.

Potrebbe obiettare la miglior dottrina processual-penalista: la conseguenza pratica della mancata pubblicità dell'udienza non si traduce certo in una nullità. Non si versa in alcuno dei casi di cui all'art. 178 c.p.p., tantomeno un'ipotesi del genere risulta specificamente normata.

Ma allora ci si chiede quale sia il precipitato diretto e concreto in ambito nazionale della unfairness dichiarata a Strasburgo.

E soprattutto ci si domanda quale sia la conseguenza della mancata ottemperanza alla dichiarazione unilaterale del Governo. V'è stata nel caso di F.? È bastata la correzione del vizio sistemico solo per il futuro e non anche… ora per allora? E in cosa si sarebbe dovuta tradurre – in termini pratici – la proclamazione della ingiustizia calciata sul campo italiano?

Detto con maggiore impegno esplicativo: l'aver riconosciuto che la mancata pubblicità dell'udienza ha integrato la violazione dell'art. 6 CEDU, senza che – sebbene oggetto di autonoma e preliminare richiesta (a differenza della riapertura) – da ciò derivasse la caducazione della confisca (atto presupponente), perché frutto di un procedimento ingiusto(atto presupposto), può comportare una nuova iscrizione sul ruolo della Corte E.d.u. ai sensi dell'art. 37, § 2?

L'affair per eccellenza intervenuto sul tema – Corte E.d.u., Sezione Terza, Willems e Gorjon c. Belgique, 21 settembre 2021 – è stato riportato proprio dalla sentenza n. 16226/22 al § 3.6. Procedimento «in cui la Corte di Strasburgo, interpretando l'art. 6 CEDU e ripercorrendo la propria giurisprudenza in materia di ‘fair trial' e diritto di accesso ad un tribunale, ha affrontato la questione relativa agli effetti della Dichiarazione unilaterale del governo convenuto, con cui venga riconosciuta la violazione della norma convenzionale denunciata, e della successiva decisione della Corte EDU che ne prenda atto, rispetto alla prosecuzione della trattazione del ricorso dinanzi a sé, cancellando la causa dal ruolo secondo il meccanismo collegabile alla lett. c) § 1 dell'art. 37 CEDU».

Si tratta esattamente di quel che si è verificato nel caso definito dalla sentenza in esame, la quale riferisce ancora: «È, poi, accaduto che, a seguito della instaurazione del giudizio dinanzi alla autorità giudiziaria belga, il giudice superiore interno, in virtù del principio di separazione dei poteri, non abbia ritenuto di doversi adeguare alla interpretazione della Convenzione fornita dall'esecutivo nella Dichiarazione Unilaterale ed abbia rigettato l'istanza di riapertura del procedimento, già in precedenza dichiarato inammissibile. I ricorrenti, a quel punto, si sono rivolti nuovamente a Strasburgo, ottenendo dalla Corte EDU la riassunzione dei ricorsi originari ai sensi dell'art. 37 § 2 CEDU, avendo ravvisato quella eccezionalità delle circostanze, a cui l'art. 43 § 5 del Regolamento della Corte subordina tale possibilità di riassunzione della causa, per il sostanziale aggiramento degli impegni assunti dal Governo con le parti e con la stessa Corte EDU, derivato dal rigetto, da parte del Giudice nazionale, dell'istanza di riapertura del procedimento già dichiarato inammissibile; all'esito del giudizio di merito, la Corte ha dichiarato la violazione e condannato lo Stato Belga. Il caso Willem(s) c/Belgique (…) costituisce una plastica rappresentazione della piena attuazione dell'iter procedimentale di cui all'art. 37 Cedu, e del suo, piuttosto scontato, esito».

Buffo, ancora una volta, che l'analogia tra i due casi sia doppia: pure nel procedimentoWillems, a ben riflettere, la censura originariamente formulata dai ricorrenti si era basata su un dato formale: la mancata menzione tout-court del certificato di formazione – posseduto ma non esibito dai difensori – richiesto per patrocinare innanzi alle giurisdizioni superiori aveva provocato la inammissibilità dei ricorsi. Formalismo giudicato giustamente eccessivo dalla Corte E.d.u. – e, ancor prima, dallo stesso Governo belga – perché tale da infrangere il diritto di accesso ai tribunali.

Quel che, invece, genera un abisso è la richiesta del ricorrente: la riapertura tecnicamente intesa, nel caso Willems e aa.; la declaratoria di non esecutività della confisca nel caso F.

Peraltro, la revisione o riapertura è lo strumento che per prassi – non certo di regola, tantomeno su indicazione della stessa Corte E.d.u. – si confà maggiormente (non sempre) a riempire di contenuti la previsione dell'art. 46 CEDU che, tuttavia, nel caso di cancellazione della causa dal ruolo, per ratifica della dichiarazione unilaterale del Governo, non rileva.

Tale disposizione non entra in gioco, evidentemente, poiché non si tratta della esecuzione di una sentenza definitiva ai sensi dell'art. 44, § 2, CEDU.

Basti dare un'occhiata ulteriore proprio a Corte E.d.u., Willems e Gorjon c. Belgique, cit., § 61.

Non solo. Ivi si legge al § 62: «Quando constata una violazione della Convenzione, la Corte non è competente a ordinare la riapertura di un procedimento interno (…). Tuttavia, se un individuo è stato condannato a seguito di un procedimento viziato dal mancato rispetto dei requisiti dell'articolo 6 della Convenzione, la Corte può indicare che un nuovo processo o la riapertura del procedimento, su richiesta dell'interessato, è in linea di principio un modo appropriato per rimediare alla violazione riscontrata (…)».

Vero. È innegabile, ma si tratta di una eventualità che non si è verificata nel caso di specie; sarà perché la riapertura non è stata giudicata idonea o adeguata dalla Corte E.d.u.

Men che meno richiesta da F., se non perché in tal senso “deviato” (?) dalla Giustizia interna.

E non è un caso che la Corte aggiunga: «Tuttavia, le misure di riparazione specifiche, se del caso, che uno Stato convenuto deve adottare per adempiere agli obblighi previsti dall'articolo 46 della Convenzione dipendono necessariamente dalle circostanze particolari del caso (…). In particolare, non spetta alla Corte indicare le modalità e la forma di un eventuale nuovo processo.

Lo Stato convenuto rimane libero di scegliere i mezzi per adempiere all'obbligo di porre il richiedente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stata alcuna violazione delle prescrizioni della Convenzione, purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte e con i diritti della difesa (…)».

Sic!

Buffo, per la terza volta, che la Corte costituzionale, proprio con la sentenza n. 113/2011, cit., abbia così concluso: «Giova ribadire e sottolineare che l'incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull'art. 630 c.p.p. non implica una pregiudiziale opzione di questa Corte a favore dell'istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall'inesistenza di altra e più idonea sedes dell'intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall'introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere dalla definitività della sentenza della Corte europea) (…)» (v. § 9).

Termine di decadenza effettivamente previsto dall'art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159/2011 che, evidentemente, è costato caro a F. Si legge, infatti, nel § 1.5.1 della sentenza in esame: «La Corte di appello ha, quindi, dichiarato la tardività della domanda di parte, in relazione alla decisione della Corte di Strasburgo risalente al 2014».

Ebbene, si segnali l'ultima criticità che emerge dal § 6, p. 16, della sentenza n. 16226: «La I Sezione di questa Corte ha già posto in luce – proprio con riferimento al caso F. – come la disciplina regolatrice vada individuata, anche quando venga in rilievo la violazione affermata nella materia della prevenzione, nella ipotesi di revisione aggiuntiva», secondo cioè il meccanismo tipizzato dall'art. 630 c.p.p., «introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011». E ancora, a p. 17, di nuovo: «Nella giurisprudenza di legittimità si è, infatti, affermata – per effetto di una interpretazione costituzionalmente orientata – l'estensione della portata additiva della decisione n. 113 del 2011 della Corte costituzionale al procedimento di prevenzione (…). “Il contenitore procedimentale è quello dell'art. 7 della legge n. 1423 del 1956 (revoca anche ex tunc, in virtù delle estensioni interpretative giurisprudenziali), disposizione ora collocata nel testo dell'art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 (per le misure personali, posto che per quelle patrimoniali è applicabile l'art. 28 del medesimo decreto legislativo), ma la fattispecie processuale è direttamente quella introdotta dalla Corte costituzionale, con la decisione più volte citata” […] (Cass. pen., sez. I, n. 50919/2018 cit.)».

Sennonché, pur avendo azionato anche lo strumento processuale realmente e inutilmente indicato dalla giurisprudenza italiana, la Suprema Corte, Sezione Quinta, ha ritenuto che quello previsto dall'art. 28 cit. non fosse quello giusto.

Anche perché era la stessa norma transitoria, di cui all'art. 117 d.lgs. n. 159/2011, a dover impedire di tentare tale rimedio. Donde l'illusione che pare sia stata generata dalla Corte di Cassazione la quale, in prima battuta, con la sentenza n. 50919/2018, aveva individuato nell'art. 28 la chiave di volta affinché, del verdetto europeo, F. potesse beneficiare finalmente e concretamente; invece poi, con sentenza n. 16226/2022, ha sostenuto l'esatto contrario così impedendo definitivamente al medesimo di ottenere l'unica (?) riparazione adeguata al suo caso: la revoca della confisca.

Più esattamente, ecco cosa si legge sub §§ 7-8 della seconda, p. 18: «7. Giova, ancora, ricordare che le Sez. Unite “Fiorentino” hanno preliminarmente (…) avallato l'indirizzo formatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla norma transitoria di cui all'art. 117 del d.lgs. n. 159/2011 – in tema di applicabilità del nuovo istituto della revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159/2011 ovvero della revoca ai sensi dell'art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – nel senso che “l'applicazione della nuova disciplina non possa avvenire in tutti i casi in cui la proposta applicativa da cui è sorto il procedimento in quanto tale sia stata formulata prima del 13 ottobre 2011 e ciò anche nelle ipotesi in cui il procedimento sia nel frattempo definito e si discuta della revoca del provvedimento emesso” (…).

8. Calando i principi ora evocati nel caso in scrutinio, osserva il Collegio che la proposta di applicazione della misura di prevenzione nei confronti di A. F. risale agli anni '90, mentre la procedura che ha dato luogo al giudizio in esame è quella conseguente alla istanza di revoca del decreto n. 100/2006 emesso dalla Corte di appello di Reggio Calabria il 16 luglio 2004, dep. il 4 luglio 2006. Cosicché, come correttamente osservato dalla Corte di Appello di Catanzaro, l'atto introduttivo del giudizio avrebbe dovuto essere formulato quale istanza di revoca ex tunc della confisca di prevenzione, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 1423/1956, e indirizzata al Tribunale di prima istanza, secondo la espressa previsione legale (…)».

Dunque, quanto all'art. 117 cit., nulla v'è da obiettare: la norma risulta di limpida formulazione.

Del pari, tuttavia, l'incertezza prodotta dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 50919/18, prima e con la sentenza n. 16226/22, poi, risulta di evidenza sempre più dirompente.

Si ricordi di nuovo quanto steso in calce al § 6, p. 17, di quest'ultima: «(…), nel sistema delle misure di prevenzione “è pacificamente riconosciuta come esistente la particolare ipotesi di revisione introdotta dalla Corte Costituzionale con la sentenza additiva n. 113 del 2011 correlata alla necessità di conformazione dell'ordinamento interno ai contenuti delle sentenze definitive emesse dalla Corte di Strasburgo.

Il contenitore procedimentale è quello dell'art. 7 della legge n. 1423 del 1956 (…), disposizione ora collocata nel testo dell'art. 11 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 (per le misure personali, posto che per quelle patrimoniali è applicabile l'art. 28 del medesimo decreto legislativo), ma la fattispecie processuale è direttamente quella introdotta dalla Corte Costituzionale, con la decisione più volte citata” […] (Cass. pen., sez. I, n. 50919/2018 cit.)».

Il che varrebbe – o val – quanto dire (per sintassi): ogni qual volta si tratti di misure di prevenzione patrimoniali, il meccanismo per riparare all'unfairness così dichiarata in sede europea è quello di cui all'art. 28 d.lgs. n. 159/2011, id est: quello di cui all'art. 630 c.p.p.

Sempre e comunque.

Ci si chiede, peraltro, quale spazio di applicazione residuerebbe all'art. 7 (o all'attuale art. 11) – la mancata scelta del quale essendosi rivelato l'errore non emendabile del/dal F. – se poi si rivela contenitore procedimentale totalmente vuoto.

Eppure, la sentenza poco prima citata agli esordi dello stesso § 6, in calce a p. 16 – Cass. pen., sez. I, n. 20156/2021, Ascione, rv. 281367 – sembra significare quanto segue: lo strumento della revisione europea “ha da esser” certamente aggiunto alla gamma dei balsami postumi alle patologie originarie nazionali.

Essa ha affermato testualmente: «Che la indicazione dei casi tipici di revocazione di cui all'art. 28 comma 1 non esaurisca le esigenze di rivedibilità del provvedimento definitivo emesso in sede di prevenzione è un dato acquisito in giurisprudenza, stante la necessità di considerare l'ipotesi aggiuntiva di revisione c.d. europea (C. cost. n. 113/2011) anche nel settore in parola (…)».

Appunto… again!

E allora urge una presa di posizione chiara e univoca, sì da far capire non solo (ormai non più) a F., ma agli eventuali “fratelli minori” che verranno, quale sarà la pedina giusta da muovere sulla scacchiera dei rimedi interni.

Rintocca il § 12 della sentenza in rassegna: «(…) la novità e la particolare specificità della questione depone per l'esclusione della colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità (…)».

Si ri-componga, perciò e doverosamente, la sinfonia che vuole ascoltare e vivere la gente: il dialogo tra le Corti non si riduca a vezzo di chi ragiona romanticamente...

TEMPUS FUGIT

Dal primo novembre ultimo scorso risuona, anzi no: dal 30 dicembre prossimo venturo risuonerà il boato del tamburo: R I F O R M A C A R T A B I A è quel che si ode, ve lo assicuro.

E non ci sia malizia nell'ipotizzare che un rimedio simbolico nel nostro ordinamento si appresti a entrare. Perché l'unfairness a Strasburgo definitivamente acclarata o unilateralmente dichiarata (e dunque) cancellata si vorrà riparare.

Ma lo si dica senza generare illusioni: i fratelli minori o cugini – quale che sia Oltralpe il parente da emulare – smettano immediatamente di sognare.

Anche loro la moquette bluette avranno l'onere di calpestare.

L'art. 628-bis c.p.p.: la (giusta?) soluzione

Leggendo avidamente l'art. 628-bis c.p.p. di nuovo conio, la sensazione è la seguente: si riaffiora dall'angoscia della incertezza come Alice dalle sue oniriche assurdità.

Veramente?

Sì perché, se al cospetto del primo comma si rimane senza esitazione, il secondo e, soprattutto, il quinto destano – lo si confessa – qualche preoccupazione.

Ma si proceda con ordine.

Comma 1: Il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza possono richiedere alla Corte di cassazione di revocare la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti, di disporre la riapertura del procedimento o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, quando hanno proposto ricorso per l'accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione e la Corte europea ha accolto il ricorso con decisione definitiva, oppure ha disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso ai sensi dell'articolo 37 della Convenzione a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato.

D'accordo.

Una formula del genere sembra essere ampia al punto tale da coinvolgere ogni possibile attore e ogni possibile rimedio, l'inciso finale ‒ o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli – apparendo finalizzato proprio a questo.

Tuttavia, proprio in… “merito” al profilo soggettivo, si pone subito un quesito: e se il soggetto non è mai stato indagato, tantomeno imputato e, ciò nonostante, ha subìto un sequestro penale oppure un sequestro e relativa confisca di prevenzione poi dichiarati unfair?

Non si tratterebbe certo di condannato né di persona sottoposta a misura di sicurezza.

Sicché, delle due l'una: se una lettura costituzionalmente e – ancor più – convenzionalmente orientata non può soccorrere, credendo si tratti di un numerus clausus, l'incidente di legittimità costituzionale di tipo additivo (che abbracci anche il rimedio fisiologicamente conseguenziale) è d'obbligo.

Comma 2: La richiesta di cui al comma 1 contiene l'indicazione specifica delle ragioni che la giustificano ed è presentata personalmente dall'interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di difensore munito di procura speciale, con ricorso depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza o il decreto penale di condanna nelle forme previste dall'articolo 582 entro novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione o dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo. Unitamente alla richiesta sono depositati, con le medesime modalità, la sentenza o il decreto penale di condanna, la decisione emessa dalla Corte europea e gli eventuali ulteriori atti e documenti che giustificano la richiesta.

Il motivo della doppia enfasi grafica è evidente. Richiederne la esplicitazione delle ragioni è corretto, effettivamente. Rafforzarne (quanto?) l'onere giustificativo è ciò cha fa riflettere, onestamente.

Iura novit curia è un concetto che ritorna alla mente.

D'altronde, la Corte di Strasburgo è chiara e diretta nell'argomentare se e perché la violazione c'è stata. Notoriamente.

Ad ogni modo, la norma è ben articolata e ragionevole. Soprattutto a fronte del ventaglio di opzioni indicate dal comma 1. Sarà preciso dovere del difensore applicarla puntualmente, fornendo alla Corte l'assist migliore. E de-voluto esclusivamente?

Bizzarro pensare: se la richiesta fosse sbagliata, ma i presupposti corretti, la Corte potrebbe decidere di applicare un rimedio diverso, proprio tenuto conto della clausola di salvaguardia o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli?

Leggendo la Relazione n. 68 stesa dall'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione il 7 novembre 2022, quello introdotto dalla Riforma Cartabia è «un unico rimedio impugnatorio polivalente di natura straordinaria che affidi sempre alla Corte di cassazione la valutazione del dictum europeo, con un vaglio preliminare sul vizio accertato dalla Corte di Strasburgo».

Sic!

Comma 3: Le disposizioni del comma 2, primo periodo, si osservano a pena di inammissibilità.

Logicamente corretto e, quindi, ineccepibile.

Si perdoni la rapida divagazione: il flash della meditazione è rivolto al Giano della primissima iscrizione.

Ecco dell'art. 335, comma 1, c.p.p. la nuova formulazione: [Il pubblico ministero iscrive immediatamente (…) ogni notizia di reato (…)] contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice. Nell'iscrizione sono indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto.

Si lascia al Lettore – memore (anche) della perpetua necessità del tempus e locus commissi delicti – la personale valutazione.

Ché, poi, riguardo alla tormentosa (ma facilissima) questione della tardività, il nuovo art. 335, comma 1-ter, propone: Quando non ha provveduto tempestivamente (…), all'atto di disporre l'iscrizione il pubblico ministero può altresì indicare la data anteriore a partire dalla quale esse deve intendersi effettuata.

Che la obbligatorietà dell'azione penale sia rimasta nostalgica velleità?

Si smetta di vagheggiare e si torni nel “post Strasburgo” a navigare.

Comma 4: Sulla richiesta la Corte di cassazione decide in camera di consiglio a norma dell'articolo 611. Se ne ricorrono i presupposti, la Corte dispone la sospensione dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza ai sensi dell'articolo 635.

L'Ufficio del Massimario ha evidenziato a tal proposito: «(…) la norma di nuovo conio non precisa che il procedimento debba essere assegnato a una sezione penale diversa da quella che ha eventualmente definito i ricorsi interni, nel rilievo che – come spiega la Relazione illustrativa – trattasi di riparto interno alla Corte che, in quanto tale, potrà essere disciplinato in sede tabellare».

Ha aggiunto: «Superato il vaglio di ammissibilità, l'oggetto della valutazione rimessa alla Cassazione riguarda l'individuazione della “incidenza effettiva” che la violazione convenzionale ha prodotto sulla condanna, cui segue la scelta in ordine allo strumento più adatto per rimuovere gli effetti pregiudizievoli».

Si ritiene possa valere quale risposta positiva al quesito di cui sopra.

Ma è proprio qui che sta il punctum dolens.

Comma 5: Fuori dei casi di inammissibilità, la Corte di cassazione accoglie la richiesta quando la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, ha avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente. Se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulta superfluo il rinvio, la Corte assume i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna. Ancora una volta: per l'appunto.

Altrimenti trasmette gli atti al giudice dell'esecuzione o dispone la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione e stabilisce se e in quale parte conservano efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi.

Ritorna il principio della invalidità derivata.

Ha specificato sempre il Massimario: «Il tipizzato criterio di incidenza», il grassetto è testuale, «è finalizzato evidentemente a riconoscere alla Corte un margine di apprezzamento rispetto alle indicazioni di Strasburgo» ‒ il grassetto non è testuale ‒ «nel convertire il vincolo internazionale in un dictum che porta a superare il giudicato interno, il legislatore delegato ha previsto un sindacato autonomo da parte della Cassazione».

Colpito, affondato.

Si attende con timorosa fiducia di saggiarne i concreti precipitati.

Se è concettualmente (di conseguenza) indiscutibile che si superi il primo filtro «una volta ritenuto sussistente un vizio rilevante, ossia dotato di efficacia causale», quel che sfugge è il senso del passaggio di chiusura contenuto nella Relazione: «si tratteggiano le alternative decisorie (ispirate al canone di economia processuale)».

Non si comprende cosa c'entri il canone di economia processuale, la scelta del rimedio – sollecitata o d'ufficio (?) – originando dalla qualità del vizio.

È una questione di merito (e di rito?), non di tempo.

Ecco perché si parla di – e si esige, correttamente, la – efficacia causale.

S'immagina, in buona sostanza, si applichi lo stesso criterio fatto proprio dalla Corte E.d.u. in materia di equo processo: il peso specifico.

Non a caso (ex multis)la Grande Camera, nel caso Gäfgen vs. Germania, 1° giugno 2010, ric. n. 22978/05, rilevando che «la questione alla quale occorre rispondere è se il procedimento nel suo complesso, compreso il modo in cui sono state acquisite le prove, fosse equo» (§ 163), ha precisato che «deve essere presa in considerazione la qualità della prova (…)» (§ 164).

Analogamente dicasi per la Sezione Quarta, nel caso De Legé vs. Paesi Bassi, 4 ottobre 2022, ric. n. 58342/15: «Il rispetto dei requisiti di un equo processo deve essere esaminato in ciascun caso tenendo conto dello sviluppo del procedimento nel suo complesso e non sulla base di una considerazione isolata di un aspetto o di un incidente particolare (…)».

Tuttavia, la Corte così conclude: «(…) sebbene non si possa escludere che un fattore specifico possa essere così decisivo da consentire di valutare l'equità del processo in una fase precedente del procedimento».

Traslando il principio suddetto nella problematica in oggetto: anche un “semplice” gap procedurale può avere un importante rilievo ponderale.

Ovviamente sta al ricorrente riuscire a dimostrarlo. E alla Suprema Corte ascoltarlo.

Si consenta un salto al comma 8: Le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando la violazione accertata dalla Corte europea riguarda il diritto dell'imputato di partecipare al processo.

Non è casuale. Infatti, proprio nella Relazione si legge: «In tal caso, per la verità, non sembra esservi spazio per un'autonoma valutazione da parte della Corte dell'incidenza causale dell'assenza involontaria».

Se così è, però, non si capisce come mai il comma 8 sia stato così strutturato, giacché a tutte le disposizioni dell'articolo in esame svolge un richiamo privo di iato.

Commi 2 e 5 certamente compresi.

Peraltro, non v'è dubbio che il diritto dell'imputato a partecipare al processo sia l'anima stessa della equità; ma è altrettanto indubbio che, talvolta, la sua presenza non si traduca in un comportamento processualmente attivo causalmente impattante sulla qualità della decisione interna.

Eppure, tant'è.

Provocazione? Ma certo! Si riveli subito la bonaria intenzione, la natura/gravità della involontaria mancata partecipazione essendo evidente e sottratta a qualsiasi obiezione.

Si prevedono ardue sfide sul ring nazionale dopo aver vinto la battaglia principale: quella internazionale.

Comma 6: La prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia della Corte di cassazione che dispone la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado.

Coerente con la disposizione contenuta nell'art. 161-bis c.p., secondo periodo; molto meno il primo periodo con la economia processuale – la quale in questo caso sì e davvero merita un “foglio mappale” – che fa più rima (o stridore) con il diritto allo spazio-tempo vitale e individuale.

Ma questa è un'altra storia.

Comma 7: Quando la riapertura del processo è disposta davanti alla Corte di appello, fermo restando quanto previsto dall'articolo 624, si osservano le disposizioni di cui ai commi 1, 4, 5, 6 e 7 dell'articolo 344-bis e il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'articolo 128.

Gli stop and go del legislatore sono di palpabile nitore: basta la definizione del primo grado di giudizio per gettare l'imputato nell'infinito precipizio e, pur tuttavia, se il gravame – magari contro la sentenza di condanna da lui attivato – entro il termine (discrezionalmente prorogato?) non è giudicato, il processo giunge a un finale tutto sommato poco sperato.

Forse perché l'assoluzione piena era il risultato davvero meritato.

Soccorre il comma 7, certo, sta a lui chiedere che il processo sia continuato.

Ma quanto durerà, dato che il tempo del reato – dopo il primo grado – resta per definizione mai spirato, beh… nessuno può dirlo, è da tutti ignorato.

E se… in ipotesi, una ingiusta detenzione il malcapitato avesse sopportato?

Nessun indennizzo per vero spetterebbe, l'art. 314 c.p.p. non essendo stato integrato.

Il Maestro lo aveva già ricordato: l'art. 129, comma 2, c.p.p. ha un range ovviamente e solo al reato limitato.

“Riforma” è il termine costantemente affibbiato; buona fine e buon principio di un altro anno che si preannuncia (e sarà) praticamente complicato.

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