Particolare tenuità del fatto e rifiuto di sottoporsi al test sullo stato di alterazione psico-fisica

Megi Trashaj
24 Novembre 2022

La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, esamina le questioni connesse all'accertamento della particolare tenuità del fatto con riferimento al rifiuto del conducente di sottoporsi al test sullo stato di alterazione psico-fisica.
Massima

Per escludere l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. con riferimento alla condotta del conducente che rifiuta di sottoporsi al test sullo stato di alterazione psico-fisica da assunzione di sostanze stupefacenti (contravvenzione punita dall'art. 187, comma 8, C.d.S.) non è sufficiente rilevare che l'autista guidava in orario notturno, su strada di montagna, con passeggero a bordo essendo invece necessario descrivere il reale contesto fattuale in cui la condotta è stata posta in essere.

Il caso

Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione, l'imputato viene fermato – in ora notturna e in località di montagna – alla guida del proprio autoveicolo dalle Autorità che lo sottopongono a controllo. Notato un arrossamento degli occhi del conducente, la Polizia Stradale invita quest'ultimo a sottoporsi all'accertamento dell'eventuale stato di alterazione psico-fisica da assunzione di stupefacenti, test da effettuarsi presso una struttura sanitaria a mezzo di controllo su campioni biologici.

Il conducente rifiuta l'accertamento e viene tratto a giudizio con l'accusa di aver commesso il reato di cui all'art. 187, comma 8, d.lgs. 285/1992, cd. codice della strada (da ora “C.d.S.”) che sanziona il «rifiuto», ad opera del conducente, di sottoporsi all'accertamento – da eseguirsi attraverso apparecchi portatili o presso le strutture autorizzate – sullo stato di alterazione psico-fisica per l'assunzione di stupefacenti.

Nei precedenti gradi l'imputato è ritenuto responsabile del fatto contestato e condannato alla pena di legge. Egli propone ricorso, contro la sentenza di secondo grado, formulando diversi motivi di impugnazione.

Soffermando l'attenzione sul tema di interesse del presente contributo, il conducente rileva che nella sentenza della Corte d'Appello si sia fatta falsa applicazione dell'art. 131-bis c.p. in quanto è stata negata la «esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto» perché l'imputato, con la propria condotta, avrebbe messo in pericolo la sicurezza della circolazione stradale opponendo il rifiuto al test dopo essere stato fermato mentre guidava di notte, con passeggero a bordo, «su strada di montagna, che avrebbe potuto essere scivolosa o bagnata».

La questione

Per dare risposta alla doglianza in analisi la Suprema Corte affronta due questioni interconnesse.

La prima riguarda la compatibilità tra la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (di cui all'art. 131-bis c.p.) e il reato di rifiuto, ad opera del conducente, di sottoporsi al test di accertamento dello stato di eventuale alterazione psico-fisica da assunzione di stupefacenti.

La seconda, che ha come presupposto logico la risposta affermativa (in termini di compatibilità) alla prima questione, è relativa agli elementi concreti che possono e devono essere valorizzati in sede giudiziaria per valutare la particolare tenuità del fatto nel caso si verifichi la condotta di cui all'art. 187, comma 8, C.d.S. Più semplicemente: quando il rifiuto ad espletare il test può dirsi “particolarmente tenue”?

Le soluzioni giuridiche

Al momento dell'entrata in vigore dell'istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotto all'art. 131-bis c.p. dal d.lgs. 28/2015, gli interpreti cominciavano a dubitare della compatibilità della nuova causa di non punibilità con i reati di pericolo e, in particolare, con quelli di mera “disobbedienza” caratterizzati, i primi, da una (solo) eventuale lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e, i secondi, dalla (semplice) trasgressione della regola imposta dall'ordinamento penale.

Più in particolare, secondo tali ricostruzioni, sarebbe difficilissimo differenziare tra loro le condotte di “disobbedienza” essendo queste tutte uguali l'una con l'altra: con riferimento alle azioni di “dissenso”, sarebbe «impossibile una graduazione dell'offensività richiesta dall'art. 131-bis c.p.» (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13682).

Partendo da tali premesse, proprio con riferimento alla condotta di coloro che non accettano di sottoporsi ai controlli di polizia previsti dal C.d.S., si evidenziava, inoltre, che la norma incriminatrice del cd. “rifiuto” è volta a tutelare «il regolare andamento dei controlli […] attinenti alla sicurezza della circolazione» e che, dunque, «non può ipotizzarsi la graduazione dell'offesa» utile per accertare la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p. Tradotto in termini più semplici, se il conducente rifiuta di sottoporsi al test offenderebbe sempre in modo significativo il regolare andamento dei controlli volti ad assicurare a tutti gli utenti della strada un certo grado di sicurezza.

Nel panorama giurisprudenziale tali ricostruzioni sono state superate a partire da pronunce a sezioni unite della Suprema Corte, a seguito delle quali la costante giurisprudenza non pone più in dubbio la compatibilità tra i reati di pericolo e l'istituto dell'art. 131-bis c.p.: «pure nei reati senza offesa, di disobbedienza, o comunque poveri di tratti descrittivi, contrassegnati da una mera omissione o da un rifiuto, la valutazione richiesta dalla legge (il riferimento è all'art. 131-bis c.p.) è possibile e doverosa» (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681, imp. Tushaj; nello stesso senso anche Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13682).

Su questa scia si pone anche la sentenza in commento: la causa di non punibilità introdotta con il d.lgs. 28/2015 è «applicabile ad ogni fattispecie criminosa» e, dunque, anche alle ipotesi di rifiuto di sottoporsi ai test relativi all'uso di alcool o droghe di cui, rispettivamente, agli artt. 186 e 187 C.d.S.

La soluzione della prima questione, come anticipato, ne apre un'altra: affermata la compatibilità tra reato di cui all'art. 187, comma 8, C.d.S. e l'istituto disciplinato dall'art. 131-bis c.p. è necessario comprendere quali elementi debbano essere valorizzati, in sede giudiziaria, per valutare la particolare tenuità della condotta di “rifiuto” dell'accertamento attraverso apparecchi portatili (art. 187, comma 2, C.d.S.) o presso strutture ospedaliere (art. 187, comma 3, C.d.S.).

Su questo fronte, partendo dal dato letterale dell'art. 131-bis c.p. – che impone di valutare la particolare tenuità alla luce dei criteri di commisurazione della pena dettati dall'art. 133, comma 1, c.p. – la giurisprudenza afferma che «il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza» (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13682, più di recente Cass. pen. sez. IV, 16 novembre 2021, n. 4317).

A tale giurisprudenza, attraverso un richiamo esplicito, si conforma anche la pronuncia in commento: «nel compiere il raffronto fra la condotta di rifiuto opposta […] in sede di controllo e la condotta di guida effettivamente tenuta nell'occasione da parte dell'imputato» il giudice non si può limitare a «considerazioni del tutto astratte».

Nel caso di specie, invece, le Corti di merito si sarebbero proprio fermate a considerazioni di questo tipo rilevando (solo) che il conducente si era messo alla guida in orario notturno, su strada che «avrebbe potuto essere scivolosa o ghiacciata», con un passeggero a bordo. Trattasi, secondo la Suprema Corte, di considerazioni generiche che non descrivono il «reale contesto» in cui è stato opposto il rifiuto al test, «le modalità della condotta», «l'irregolarità della circolazione» pericolosa e «le condizioni di traffico nelle quali la condotta si è realizzata», elementi tutti questi idonei – nella prospettiva della Cassazione – a poter (eventualmente) escludere la punibilità dell'imputato per particolare tenuità del fatto.

Con tali considerazioni la Cassazione vieta al giudice di merito di guardare al solo “dissenso” rispetto all'esecuzione del test e impone al giudicante di aver riguardo dell'intero contesto in cui avviene la circolazione su strada. Così, come già affermato dalla giurisprudenza con riferimento al rifiuto di sottoporsi all'alcool test di cui all'art. 186 C.d.S. (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13682), anche la contravvenzione di “rifiuto” di sottoporsi al test sull'uso di stupefacenti (art. 187, comma 8, C.d.S.) è intimamente connessa alla contravvenzione ‘madre' che punisce la “guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope” (art. 187, comma 1, C.d.S.). È evidente, infatti, che l'ordinamento voglia in prima battuta impedire la guida – che presume pericolosa – di chi ha assunto sostanze, per ottenere tale obiettivo deve svolgere test (in modo da accertare quali conducenti stiano effettivamente guidano con uno stato di alterazione), ma se questi test fossero liberamente ‘rifiutabili' l'obiettivo prioritario poc'anzi detto sarebbe irraggiungibile perché ogni conducente si potrebbe sottrarre ai controlli.

Da questa intima connessione tra il “divieto di guida” in stato di alterazione e “l'obbligo di sottoporsi al test” consegue che l'art. 187, comma 8, C.d.S. «non punisce una mera, astratta disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose».

In sintesi, per escludere la particolare tenuità del “rifiuto” di sottoporsi al test non basta l'aver constatato che il conducente fosse alla guida con gli occhi arrossati, in montagna, con un passeggero a bordo, ma serve un percorso argomentativo che tenga in considerazione, in modo più ampio, tutte le circostanze del caso concreto.

Proprio tali circostanze del caso concreto dovranno, dunque, essere rivalutate dal giudice di merito anche nel caso in analisi, la Corte Suprema infatti, con la sentenza in commento, annulla la pronuncia di secondo grado e rinvia per il nuovo giudizio alla Corte d'appello.

Osservazioni

I reati di pericolo astratto, caratterizzati per punire condotte tipizzate dal legislatore da cui – secondo regole di esperienza – deriva la messa in pericolo di un bene giudico, hanno da sempre creato problemi al penalista abituato a confrontarsi con il dettato costituzionale e quindi, per quanto qui di interesse, con il principio di offensività. Non è infatti escluso che nella realtà empirica si verifichino ipotesi in cui la regola di esperienza (presupposta dal legislatore come sempre valida) – secondo la quale dalla condotta ‘x' deriva sempre il pericolo al bene ‘y' – si riveli, in concreto, errata (cfr. Fiandaca - Musco, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2019, p. 220). Se così fosse, rileva la dottrina, il reato tipizzato dal legislatore finirebbe per punire la semplice ‘disobbedienza' con gravi complicazioni rispetto al principio costituzionale di offensività (Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Giuffrè, 1984, pp. 43 ss.).

D'altra parte le fattispecie di pericolo astratto – oltre ad essere valutate necessarie in quei settori in cui si verificano «situazioni di pericolo “standardizzate”» (Fiandaca - Musco, Diritto penale, cit., p. 221) – sono state giudicate compatibili con la Carta fondamentale dalla Corte Costituzionale: in tal senso si ricordi la risalente (ma ancora attuale) sentenza n. 333 del 1991.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, però, non si trattava di verificare la correttezza della regola di esperienza posta a fondamento della contravvenzione che sanziona quel conducente che non si sottopone al test richiesto dalla autorità, bensì – accettata la punizione di una condotta (solo) in astratto pericolosa – occorreva valutare se il ‘rifiuto' dell'accertamento potesse essere ritenuto particolarmente tenue ai sensi dell'art. 131-bis c.p. Detto in altri termini, l'art. 131-bis c.p., come ormai noto, permette di non applicare la sanzione quando il reato – accertato in tutti i suoi elementi (compresa l'offensività) – genera un pericolo o un'offesa al bene protetto di minima gravità.

La causa di non punibilità in analisi – introdotta per fini ‘nobili', quali quelli di conformare il sistema al principio della «ultima ratio», e meno ‘sublimi', quali quelli deflattivi (cfr. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Cedam, 2020 p. 871) – ha da subito posto problemi con i reati che prevedono, ai fini della punibilità, una cd. soglia (come quelli di guida in stato di ebrezza di cui al C.d.S. ma anche quelli tributari di cui al d.lgs. 74/2000). Si era infatti soliti pensare che, ponendo una soglia al di sopra della quale trova applicazione la pena, il legislatore avesse già valutato la gravità di ogni condotta che supera i cd. ‘limiti consentiti' senza considerare le varie problematiche, anche di tipo scientifico, sottese al procedimento di individuazione della soglia (per brevità non si può che rimandare a Stella, Giustizia e modernità, Giuffrè, 2003, pp. 556 ss.).

Sdoganata l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. alle condotte che superano la cd. soglia consentita (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681, imp. Tushaj) è stato più semplice, per la giurisprudenza, affermare la generale compatibilità tra l'art. 131-bis c.p. e i reati di pericolo astratto senza soglia (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13682). Tornando al caso in analisi, l'interprete non può che vedere con favore gli orientamenti che consentono l'applicabilità della particolare tenuità del fatto rispetto alle fattispecie di “rifiuto”, considerati anche i problemi – poc'anzi menzionati – che essi pongono con il principio di ultima ratio.

D'altra parte, però, permangono criticità con riferimento all'accertamento, in concreto, dei presupposti oggettivi che devono sussistere affinché trovi applicazione l'art. 131-bis c.p. con riferimento alle contravvenzioni poste in essere dal conducente che rifiuta il test volto ad accertare il suo stato di alterazione psicofisica.

È pur vero che la Corte di cassazione nel caso di specie guida l'interprete imponendogli di far riferimento al «reale contesto» in cui è stato posto in essere il rifiuto, ma d'altra parte non ritiene sufficienti elementi quali orario «notturno», «strada di montagna» e «occhi rossi». Questi sono elementi astratti, e sul punto non si può che convenire con la Corte, ma quali sarebbero gli elementi concreti da valorizzare? Quale sarebbe il «reale contesto» da prendere in considerazione? La risposta a tali domande aiuterebbe, probabilmente, a garantire in primis l'applicazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e, in secondo luogo, a mantenere vivo, nell'ambito del diritto penale, il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.) con tutti i suoi corollari.

Visto che le indicazioni della Corte non esauriscono i dubbi dell'interprete si potrebbe provare a guardare alla più recente giurisprudenza in materia. Ma anche così facendo si può constare la difficoltà nel ricostruire le «peculiarità della fattispecie concreta» rilevanti ai fini della non punibilità: in un caso di rifiuto ad opera del conducente di sottoporsi al test sull'uso di sostanze stupefacenti la Corte esclude l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. perché, in sede di controllo, le autorità trovavano nell'automobile dei coltelli e l'autista non forniva ai militari giustificazioni sui motivi per i quali essi fossero presenti nella cabina (Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 2021, n. 4317). Ma quale rilevanza può avere sul giudizio relativo alla tenuità del “rifiuto” al test il fatto di custodire in auto dei coltelli?

La ricerca di precedenti della Cassazione per ricostruire le «peculiarità della fattispecie concreta» che potrebbero portare all'applicazione dell'art. 131-bis c.p. nei casi di interesse del presente commento resta comunque complicata: le valutazioni di merito sono di regola insindacabili in sede di legittimità (Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 2022, n. 9010, relativa a un conducente che opponeva il rifiuto a sottoporsi al test perché non avvertito della facoltà di farsi assistere da un difensore) pertanto, forse, preziosi elementi potrebbero essere ritrovati nella giurisprudenza di merito.

Un'ultima importante considerazione sull'onere probatorio che consente di concludere il commento della sentenza riprendendo tutti i tasselli fin ora ricostruiti.

Entrato in vigore l'art. 131-bis c.p. ci fu subito il timore che esso portasse con sé un aggravio dell'onere probatorio in capo alla procura che, ai fini della condanna, avrebbe dovuto dimostrare, oltre agli elementi del reato, l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione della nuova causa di non punibilità.

A fronte di tale preoccupazione la giurisprudenza si affrettò ad esplicitare che «il nuovo istituto non individua […] un ulteriore elemento costitutivo del fatto, bensì un limite negativo alla sua punibilità […]. Così configurato, lo stesso, secondo categorie di consolidata elaborazione giurisprudenziale, non dovrebbe costituire oggetto di contestazione o di prova negativa da parte dell'accusa, essendo invece onere della difesa allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l'indicazione di elementi specifici (Cass. pen., sez. II, 10 aprile 2015 n. 32989). In sintesi, secondo le regole dell'onere probatorio, è l'imputato a dover dimostrare che sussistono i presupposti per la non punibilità; se non vi riesce l'istituto a lui favorevole non sarà applicabile.

Non è dato sapere, in riferimento al caso in analisi, se l'imputato avesse fornito puntuali elementi sulla particolare tenuità del fatto ulteriori a quelli evincibili dalla lettura della sentenza (che, per il vero, non sembrano puntuali: «gli operanti si sono limitati a dare atto che [il conducente] aveva gli occhi rossi»; l'autista, al momento del controllo, guidava «in centro abitato» e non su strada di montagna). Di certo tali elementi non sono affatto menzionati dalla Corte di Cassazione che pretende, ai fini della esclusione della punibilità, la descrizione del «fondo fattuale» in cui è stata tenuta la condotta illecita.

Sembra, però, che tale descrizione fattuale non sia stata offerta dai giudici di merito (come rilevato dalla Suprema Corte) proprio perché non introdotta dall'imputato. Se così fosse – per le regole della soccombenza (più praticate nel diritto civile che in quello penale) – la non punibilità ex art. 131-bis c.p. avrebbe dovuto essere in radice esclusa con condanna dell'imputato che non ha introdotto prove – o almeno fornito allegazioni – in merito.

Tale conclusione, tuttavia, opererebbe solo se l'onere della prova non incidesse, come ritiene la giurisprudenza prevalente, sulla struttura del reato. Diversamente, ove si ritenesse che gli elementi fattuali richiesti dal Giudice della legittimità servano ad escludere in toto la concretizzazione del reato di cui all'art. 187, comma 8, C.d.S., le conseguenze sarebbero totalmente opposte e l'onere della prova ricadrebbe sull'accusa. In effetti, stando a quanto sostiene la Corte nella sentenza in commento, se la contravvenzione in esame «non punisce una mera, astratta disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari» (sono parole della Corte), allora il «fondo fattuale» di non irregolarità, pur dinnanzi al “rifiuto” di eseguire il test, avrebbe inciso proprio sugli elementi costitutivi del fatto escludendo la sussistenza del reato, e allora sì che l'onere di provare il “contesto” sarebbe gravato sulla pubblica accusa, la quale, invece, non ha tale necessità in presenza degli elementi che costituiscono cause di non punibilità quali quella di cui all'art. 131-bis c.p.

Con tali considerazioni si torna, però, sempre al problema originario: i reati di pericolo astratto e la loro compatibilità con la Carta Costituzionale.

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