L'interpretazione della norma processuale consolidata e i limiti dell'overruling

Giusi Ianni
29 Novembre 2022

Le Sezioni Unite evidenziano la necessità di una particolare cautela nell'interpretazione di una norma processuale, la cui esegesi, in presenza di un orientamento consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, può essere mutata solo in due casi.
Massima

L'interpretazione di una norma processuale consolidata può essere abbandonata solo in presenza di forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare di fenomeni sociali o del contesto normativo, oppure quando l'interpretazione consolidata risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o "ingiusti", atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di "giustizia" del processo; ne consegue che, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato l'orientamento da tempo consolidato in ordine alla ammissibilità di domande di condanna limitate sin dall'origine all'"an debeatur").

Il caso

Nel 2003 gli amministratori delegati di una società erano rinviati a giudizio dinanzi al Tribunale di Verona con l'accusa di avere, eludendo la normativa in materia di importazione di frutta da Paesi extra-comunitari, evaso il pagamento di dazi sull'importazione, beneficiando di esenzioni e riduzioni non dovute e commettendo, così, il delitto di contrabbando di cui al d.P.R. n. 43/1973, artt. 292, 295 e 301. Nel giudizio si costituivano parti civili la Commissione Europea, il Ministero dell'economia e l'Agenzia delle Dogane, chiedendo la condanna degli imputati al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio. A seguito di proscioglimento degli imputati per intervenuta prescrizione del reato a loro contestato, il processo restava in vita sulle statuizioni civili, ai soli effetti delle quali la sentenza di secondo grado era annullata dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione e rimessa al giudice di merito in sede civile, affinché quest'ultimo verificasse se la condotta degli imputati costituisse un mero "abuso del diritto", come tale penalmente irrilevante, oppure una dolosa violazione delle norme doganali, ritenendosi illogica e contraddittoria la motivazione contenuta, sul punto, nella sentenza impugnata. Riassunto, quindi, il giudizio a cura delle parti civili, la Corte d'Appello di Venezia affermava, incidentalmente, la sussistenza di una condotta qualificabile come reato in capo agli originari imputati e li condannava al risarcimento del danno – da liquidarsi in separato giudizio - in favore del solo Ministero della finanze, sul presupposto che mancasse la prova del danno subito dalle altre parti civili per effetto della condotta riconosciuta come illecita. In favore del Ministero delle Finanze era liquidata, altresì, una provvisionale. La sentenza di appello pronunciata in sede di rinvio veniva impugnata per cassazione. Il ricorso era assegnato alla Terza Sezione Civile che rimetteva gli atti al Primo Presidente, affinché valutasse l'assegnazione alle Sezioni Unite: ciò sul presupposto che alcuni dei motivi del ricorso principale ponevano questioni di massima di particolare importanza, con riferimento, in particolare alla possibilità di ritenere la sussistenza di un danno risarcibile e liquidare una provvisionale nel giudizio di rinvio in presenza di una domanda delle parti civili ab origine limitata al solo profilo dell'an debeatur. Assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, queste ultime aderivano all'orientamento “tradizionale”, in forza del quale è consentita dal codice di procedura civile la proposizione di una domanda sin dall'inizio rivolta ad ottenere una condanna generica (limitata, appunto, al solo profilo dell'an debeatur). Ai fini dell'accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che l'attore dimostri la colpa ed il nesso causale e che l'esistenza del danno appaia anche solo probabile, mentre non è necessario che l'attore indichi le prove di cui intende avvalersi per dimostrare il "quantum debeatur", prove che andranno, invece, fornite nel relativo e successivo giudizio finalizzato alla quantificazione. Veniva, altresì, affermato il principio per cui nel giudizio introdotto da una domanda di condanna generica il giudice, su istanza di parte, può pronunciare anche provvisionale ai sensi dell'art. 278 c.p.c., sempre con riserva di quantificazione del danno in separato giudizio.

La questione

Con il ricorso per Cassazione, in particolare, veniva lamentata la violazione degli artt. 538 e 539 c.p.p., o, in subordine, dell'art. 278 c.p.c., sostenendo il ricorrente che il giudice del rinvio non avrebbe potuto pronunciare condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, sia perché al giudice civile, in sede di rinvio, sarebbe inibito, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., pronunciare una condanna provvisionale, sia perché, in ogni caso, l'art. 278 c.p.c., non consentirebbe la condanna del convenuto al pagamento di una provvisionale ove l'attore non abbia formulato espressa domanda di quantificazione del danno. Nel corso del giudizio a sostegno del predetto motivo di ricorso era stato introdotto un ulteriore argomento giuridico, basato sulle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte in altra recente pronuncia (Cass. civ, sez. III, ord., 3 giugno 2022, n. 17984), secondo cui "l'attore che chiede la tutela giurisdizionale di una situazione giuridica soggettiva (...) non può proporre la domanda limitando la richiesta di tutela ad una condanna generica, cioè al solo an debeatur e fare riserva di introdurre un successivo giudizio per l'accertamento del quantum, a somiglianza di quanto l'art. 278 c.p.c., consente all'attore di chiedere nel corso del processo in cui abbia proposto la domanda di condanna in modo pieno". Nella predetta pronuncia, segnatamente, si era affermato il principio per cui il codice di procedura civile non consentirebbea chi intende agire in giudizio ai fini della proposizione di una domanda di condanna al risarcimento del danno di formulare ab origine una domanda di condanna generica, consentendo, unicamente, all'attore, che abbia proposto ab origine una domanda “completa” in punto di an e quantum debeatur, di ottenere, sulla base dell'accertata sussistenza di un diritto, una sentenza di condanna generica alla prestazione, salva la liquidazione successiva e con facoltà di liquidazione di una provvisionale nei limiti in cui il giudice ritenga raggiunta la prova del diritto. Se, di contro, si fosse consentito all'attore di proporre una domanda di condanna generica, si sarebbe avallata, secondo quanto si legge nell'arresto predetto, una prassi di parcellizzazione della tutela giudiziaria, con conseguente inutile moltiplicazione dei processi, in contrasto con l'orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite in tema di frazionamento del credito (Cass. civ., sez. un., sent., 15 novembre 2007, n. 23726, successivamente ribadito da Cass. civ., sez. un., sent., 16 febbraio 2017, n. 4090).

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni Unite ritengono, invece, di aderire, nella pronuncia in commento, al più tradizionale orientamento interpretativo (fatto proprio dalla maggioritaria giurisprudenza di legittimità e dalle stesse Sezioni Unite a partire da Cass. civ., sez. un., sent., 23 novembre 1995, n. 12103) in forza del quale in materia di risarcimento del danno (sia contrattuale che extracontrattuale), è ammissibile la domanda dell'attore originariamente rivolta ad ottenere unicamente una condanna generica, senza che sia necessario il consenso del convenuto, costituendo tale facoltà espressione del principio di autonoma disponibilità delle forme di tutela offerte dall'ordinamento ed essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante dell'attore ad ottenere simile pronuncia (al fine, ad esempio, di ottenere l'iscrizione d'ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c.). Spetterà poi al convenuto, ove lo ritenga, formulare domanda riconvenzionale di accertamento dell'insussistenza del danno: domanda che, se proposta, ribalterà sull'attore l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare del danno. Viene disattesa, altresì, la tesi secondo cui l'art. 278 c.p.c. subordinerebbe la condanna generica alla circostanza che sia "accertata l'esistenza d'un diritto, ma [sia] ancora controversa la quantità della prestazione dovuta"; ciò sul presupposto che la norma in questione non imporrebbe affatto che la "controvertibilità" del quantum debba sussistere nel medesimo giudizio in cui si è chiesta la condanna generica, potendosi qualificare la quantità della prestazione dovuta come "ancora controversa" sia quando la liquidazione del danno sia richiesta nel medesimo giudizio in cui è stata pronunciata la condanna generica, sia quando la quantificazione del danno venga riservata dall'attore ad un futuro e separato giudizio. Anche in tal caso viene, quindi, avallato l'orientamento dominante in seno alla giurisprudenza di legittimità e disatteso quello minoritario (fatto proprio, in particolare, da Cass. civ., sez. III, sent., 28 maggio 2015, n. 11117, secondo cui la condanna provvisionale ex art. 278 c.p.c. non può essere pronunciata quando l'azione "ha ad oggetto l'accertamento di responsabilità del convenuto e la sua condanna generica al risarcimento dei danni", perché in tal caso "esula dal giudizio la concreta quantificazione del danno risarcibile").

Al fine di motivare la soluzione esegetica adottata, le Sezioni Unite muovono dal principio della necessaria stabilità nell'interpretazione delle norme processuali, in forza del quale, sebbene nel nostro sistema processuale non viga la regola dello stare decisis, nondimeno la stabilità dell'interpretazione delle norme processuali è un valore immanente nell'ordinamento, a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del diritto di difesa. Quando, pertanto, l'interpretazione di una norma processuale è consolidata in seno alla giurisprudenza di legittimità, essa può essere abbandonata solo in due casi: o in presenza di "forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo" (così Cass. civ., sez. un., sent., 31 luglio 2012, n. 13620; nonché, nello stesso senso Cass. civ., sez. un., sent., 13 gennaio 2022, n. 927; Cass. civ., sez. un., ord., 2 febbraio 2017, n. 2736); oppure quando l'interpretazione consolidata "risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo" (così Cass. civ., sez. un., ord., 6 novembre 2014, n. 23675). Trattasi di principio ritenuto compatibile anche con il diritto sovranazionale, discendendo dall'art. 6 della CEDU la necessità di “tutela del legittimo affidamento” e di “salvaguardia dei diritti quesiti” e avendo la stessa Corte EDU più volte affermato il divieto per i giudici degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo da affermare l'inammissibilità d'una domanda giudiziale, qualora tali interpretazioni siano "troppo formalistiche", adottate "a sorpresa" e niente affatto chiare ed univoche (Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44; Corte EDU, sez. II, 18.10.2016, Miessen c. Belgio, in causa n. 31517/12, §§ 71-73).

Quando, quindi, una norma processuale può teoricamente essere interpretata in due modi diversi, ambedue compatibili con la lettera della legge, “è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione”. Ciò porta, nel caso di specie, a preferire l'interpretazione conforme all'orientamento dominante della giurisprudenza di legittimità e a disattendere quello minoritario, preclusivo della possibilità, nel giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., destinato a svolgersi secondo le regole proprie del processo civile, di far valere una domanda di condanna generica con riserva di quantificazione in separato giudizio e richiedere e ottenere la condanna del convenuto ad una provvisionale.

Osservazioni

Il mutamento di giurisprudenza non ha normalmente effetto retroattivo, né costituisce motivo di rimessione in termini, data la natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali e non esistendo nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello "stare decisis". In presenza, tuttavia, di un mutamento giurisprudenziale che interessi norme processuali; che sia imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo - tale, cioè, da aver indotto la parte a un ragionevole affidamento su di esso - e che comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, ricorre un'ipotesi di prospective overruling, che, a tutela del diritto di azione e difesa, impone di ritenere produttivo di effetti l'atto di parte posto in essere con modalità e forme ossequiose dell'orientamento dominante al momento del compimento dell'atto stesso, ma poi ripudiato. Proprio in ragione degli effetti del “prospective overruling”, le Sezioni Unite evidenziano, nella pronuncia in commento, la necessità di una particolare cautela nell'interpretazione di una norma processuale, la cui esegesi, in presenza di un orientamento consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, può essere mutata solo in due casi: o in presenza di "forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo" (come chiarito anche da Cass. civ., sez. un., sent., 31 luglio 2012, n. 13620; Cass. civ., sez. un., sent., 13 gennaio 2022, n. 927; Cass. civ., sez. un., ord., 2 febbraio 2017, n. 2736) oppure quando l'interpretazione consolidata "risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo" (così Cass. civ., sez. un., ord., 6 novembre 2014, n. 23675).

Ove, quindi, ricorra, in conformità alla lettera della legge, una plurima possibilità di interpretazione della norma processuale è da preferire quella “sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione” (in senso conforme, Cass. civ., sez. un., sent., 31 luglio 2012, n. 13620). Trattasi di principio che se da un lato si pone come espressione del “giusto processo”, dall'altro non può tradursi in un “freno” all'interpretazione processuale, che deve evolversi ed attualizzarsi al pari dell'interpretazione delle norme di diritto sostanziale (per cui pacificamente la tutela del “prospective overruling” non opera), tant'è che le stesse Sezioni Unite ammettono il mutamento di giurisprudenza in presenza di “forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo" . E' rimesso, quindi, al giudice di merito il difficile bilanciamento tra la certezza del diritto e la necessità della sua interpretazione.

Riferimenti

Sul “prospective overruling” in presenza di un mutamento imprevedibile di interpretazione della norma processuale consolidata si vedano Cass. civ., sez. un., sent., 31 luglio 2012, n. 13620; Cass. civ., sez. un., sent., 12 febbraio 2019, n. 4135). Sulla necessità di interpretazione della norma processuale consolidata in conformità all'interpretazione più radicata della giurisprudenza di legittimità, in presenza di più interpretazioni possibili, si veda Cass. civ., sez. un., 31 luglio 2012, n. 13620.

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