Il dovere di rendiconto dell'amministratore è obbligatorio anche per la gestione della comproprietà?

13 Dicembre 2022

Il Tribunale di Belluno verifica se l'amministratore sia o meno un gestore di beni altrui e, come tale, sottoposto al controllo dei singoli comproprietari, ai quali deve rendere il conto della gestione, e se il singolo comproprietario abbia o meno il diritto di conoscere il dettaglio delle morosità.  
Massima

L' obbligo di rendiconto si configura nei confronti di ciascun comproprietario, perché ciascun comproprietario ha diritto di conoscere le modalità di gestione della propria quota di proprietà. La circostanza che i consuntivi ed i preventivi siano stati approvati dall'assemblea dei partecipanti alla comproprietà non priva, né rende inammissibile, la richiesta di rendiconto completo ed analitico da parte del singolo comproprietario; è evidente che, se così non fosse, si legittimerebbe la maggioranza a disporre indirettamente della sfera patrimoniale della minoranza. Il singolo comproprietario ha diritto di conoscere il dettaglio delle morosità. La morosità di ciascun comproprietario refluisce sul patrimonio degli altri, perché l'eventuale mancato pagamento delle obbligazioni nei termini previsti costituisce, di per sé, perdita patrimoniale (in quanto il denaro è un bene fruttifero) ed implica il rischio che i terzi possano svolgere azioni esecutive sui beni comuni, a causa delle inadempienze della comproprietà nei loro confronti.

Il caso

Viene affrontata una lite che vede contrapposti i partecipanti titolari di una comproprietà e la comproprietà stessa, qualificata in un complesso immobiliare adibito ad albergo e rappresentato a mezzo dell'amministratrice della comproprietà.

I titolari della quota di comproprietà lamentano la lesione del loro diritto alla rendicontazione dell'operato da parte dell'amministrazione della comproprietà, a conoscere l'elenco dei proprietari morosi comprensiva della attestazione relativa allo stato dei pagamenti, nonché l'assenza del potere dell'amministratrice a stipulare accordi di rientro dilazionato senza il preventivo voto dell'assemblea dei comproprietari, in particolare nei confronti di un comproprietario avente una morosità molto elevata.

La comproprietà si difende affermando l'inammissibilità della richiesta azione di rendiconto, sia perché le deliberazioni assembleari con le quali venivano approvati i conti preventivi e consuntivi delle spese ordinarie e straordinarie non erano state oggetto di impugnazione; sia perché i giustificativi di spese erano stati messi a disposizione dei comproprietari prima della assemblea per la previa verifica.

La comproprietà deduce, parimenti, l'inammissibilità della richiesta del dettaglio della morosità complessiva che non inciderebbe sulla posizione dei comproprietari; prosegue poi nell'affermare la non applicabilità delle norme che disciplinano il condominio alla comproprietà, da qualificarsi invece come una comunione pro quote indivise.

Infine, insta per l'inammissibilità della proposizione dell'azione di rendiconto in giudizio (anziché in seno all'assemblea) e comunque destinata al singolo comproprietario (bensì all'assemblea); per l'inammissibilità dell'azione di rendiconto disgiunta dalla deliberazione di approvazione dell'assemblea nonchè introdotta in giudizio con ricorso (anziché con atto di citazione); per l'inammissibilità della pretesa consegna della anagrafica completa di ogni comproprietario (non prevista dalle norme sulla comunione e, comunque, lesiva della privacy) e la regolarità di eventuali accordi di rientri dilazionati dell'insoluto complessivo che rientrano negli atti di gestione ordinaria della comunione.

Il Tribunale, non accogliendo l'eccezione relativa alla proposizione dell'azione di rendiconto mediante ricorso e non reputando leso il diritto di difesa della parte resistente; ritenuto di doversi pronunciare con sentenza e di utilizzare in via analogica le regole assimilabili al rito sommario di cognizione; si pronuncia per l'accoglimento dell'azione di rendiconto sussistendo il diritto del singolo comproprietario di ottenere il rendiconto.

La questione

Prendendo lo spunto dalla natura dell'istituto della comproprietà (e quale disciplina codicistica applicabile, se quella afferente al condominio oppure alla comunione), si tratta di verificare se l'amministratore sia o meno un gestore di beni altrui e, come tale, sottoposto al controllo dei singoli comproprietari, ai quali deve rendere il conto della gestione, e se il singolo comproprietario abbia o meno ha il diritto di conoscere il dettaglio delle morosità e di controllare - attraverso il rendiconto analitico - quali azioni siano state intraprese dall' amministrazione nell'interesse della comproprietà.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Belluno non si dilunga sulla questione relativa alla natura della comproprietà - se rientrante nel novero del condominio o dell'istituto della comunione - ritenendola una questione di modesto rilievo e non determinante per la risoluzione della questione.

Il giudicante, invece, si sofferma sulla figura del ruolo dell'amministratore quale gestore dei beni altrui e, come tale, soggetto alla verifica ed al controllo da parte dei singoli comproprietari.

Infatti, a prescindere dalle ipotesi espressamente individuate dal legislatore di obbligo di rendiconto (artt. 1713, 2030, 380, 385, 723, 1130, 1983, 2261, 2552 c.c. e 593, 676 c.p.c.), di carattere non tassativo, secondo il Tribunale chi esercita una gestione o svolge un'attività nell'interesse altrui, soggiace al controllo di questi e, quindi, al dovere di rendere il conto.

Atteso l'obbligo di rendiconto nei confronti di ciascun proprietario, ovvero il diritto di conoscere le modalità di gestione della propria quota di proprietà, il magistrato veneto precisa per ognuno di essi il diritto di conoscere il dettaglio delle morosità (in quanto la morosità di ciascuno si riversa sul patrimonio degli altri) e quali azioni siano state perseguite dall'amministratore nell'interesse della cosa comune.

Il giudicante prosegue, poi, nel determinare che l'approvazione assembleare alle delibere di accettazione dei conti preventivi e consuntivi non è atto idoneo a sanare tutte le illegittimità eventualmente commesse nell'amministrazione di un bene comune e, perciò non può sostituire l'obbligo di presentazione del conto corredato dai documenti giustificativi.

Il Tribunale, quindi, ordinava alla resistente: 1) il deposito del conto dell'attività svolta quale Amministratrice della comproprietà, disponendo l'allegazione dell'accordo di rientro dilazionato con un comproprietario moroso; della prova dei versamenti effettuati dal comproprietario moroso; della specifica indicazione delle generalità di ciascuno comproprietario moroso e dei titoli/documenti attestanti il debito maturato; 2) il deposito del rendimento del conto con i relativi documenti giustificativi.

Infine, il giudice adìto rinviava la causa per l'esame del conto, riservando all'atto conclusivo del procedimento la decisione sulle spese di lite.

Osservazioni

Preliminarmente, si rende necessario partire dal concetto di comunione e comproprietà per chiarire i contorni del dibattito che la motivazione di questa sentenza accende.

Nell'ordinamento italiano, la comunione è disciplinata dagli artt. 1100-1116 c.c.

L'art. 1100 c.c. dispone che: “Quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente, si applicano le norme seguenti” ovvero le disposizioni codicistiche relative al libro terzo, titolo VII, capo I “Della comunione in generale”.

In base al dato normativo, la comunione si contraddistingue come un istituto che regola la contitolarità in capo a più persone della proprietà e/o costitutiva di altri diritti reali: la comunione avente per oggetto la proprietà si dice comproprietà.

Quando un immobile è in comunione significa che i proprietari sono più di uno e la proprietà viene divisa per quote ideali; ogni singola quota si estende sull'intero bene.

La comproprietà di un immobile può scaturire da diverse situazioni: l'eredità (quando l'unico proprietario decede e lascia più eredi, i quali acquistano una quota in comproprietà sull'immobile pari alla quota di eredità ad essi spettante); la comunione legale tra coniugi (che diviene automatica al momento delle nozze, salvo che la coppia opti per il regime di separazione dei beni, e ove vi ricadono tutti i beni acquistati durante il matrimonio); per accordo fra le parti che decidono di acquistare insieme, in comunione, uno stesso bene.

Non volendo in questa sede addentrarci nell'inquadramento giuridico della comunione, sia soffermarci sul dato normativo dell'art. 1100 c.c. e sugli elementi essenziali: la titolarità o contitolarità plurima di un bene in capo a due o più soggetti; la titolarità plurima dei diritti di godimento spettanti in maniera eguale a ciascun partecipante; la misura della contitolarità del diritto di ciascun partecipante definita per quote, che si presumono eguali sino a prova contraria.

Per opinione dominante e ormai incontrastata, l'istituto del condominio degli edifici appartiene ad una species del genus della comunione e, quindi, una tipologia di comproprietà contrassegnata dalla particolarità dell'oggetto consistente in una relazione strumentale di accessorietà tra le cose comuni (impianti, servizi, aree) e le unità abitative in proprietà individuale.

La differenza tra i due istituti è perfettamente sintetizzata nella nota pronuncia della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, laddove si è affermato che “[…] La specifica fisionomia giuridica del condominio negli edifici - la tipicità, che distingue l'istituto dalla comunione di proprietà in generale e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo - si fonda sulla relazione che, nel fabbricato, lega i beni propri e comuni, riflettendosi sui diritti, dei quali i beni formano oggetto (la proprietà esclusiva e il condominio). Le norme dettate dagli artt. 1117, 1139 c.c. si applicano all'edificio, nel quale più piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse e un certo numero di cose, impianti e servizi di uso comune sono legati alle unità abitative dalla relazione di accessorietà” (Cass. civ., sez. un., 31 gennaio 2006, n. 2046).

Peraltro, la configurazione del condominio come una forma speciale di comunione trova riscontro normativo proprio nell'art.1139 c.c., ovvero nell'ultimo articolo a chiusura del capo II “Del condominio degli edifici”, sempre del libro III, titolo VII, per il quale “Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale”.

Orbene, ad una sommaria lettura della norma, si potrebbe asserire che la disciplina del condominio può essere integrata con quella in tema di comunione senza alcuna problematica di sorta anche se, a ben vedere, l'art. 1139 c.c. non si esprime in termini di compatibilità, né tanto meno di contrasto delle discipline, ma si limita tout court ad un rinvio generale.

Se, da una parte, sussistono numerose fattispecie di applicazione al condominio delle norme in tema di comunione, dall'altra, vi sono tuttavia alcune disposizioni che, nonostante il rimando di cui all'art. 1139 c.c., non possono essere applicate al condominio, a cominciare dall'art. 1101 c.c. che, in tema di comunione, detta una presunzione di uguaglianza di quote, presunzione che non può essere valida per il condominio in quanto il diritto sui beni comuni è proporzionato al valore del bene in titolarità esclusiva rispetto al valore delle singole proprietà degli altri condomini.

Anche la contribuzione nelle spese di gestione e conservazione dei beni comuni ha una valenza diversa in quanto, nella comunione, le spese devono essere sopportate nella stessa misura, in modo proporzionale, mentre nel condominio le spese relative alle parti comuni sono in ragione del valore proporzionale del diritto di proprietà.

Allo stesso modo, anche il tema dello scioglimento ed estinzione risulta diverso tra comunione e condominio.

Si potrebbe proseguire oltre con le comparazioni ma non è questo lo spunto di riflessione che la pronuncia in oggetto si era prefissata.

Tralasciando l'applicabilità o meno alla comproprietà delle disposizioni codicistiche relative al condominio in tema di gestione dell'amministratore, il Tribunale di Belluno chiarisce sine dubio che, a prescindere dal nomen iuris utilizzato per inquadrare la fattispecie giuridica da porre sotto la lente di ingrandimento, “non è dubbio che l'amministratore sia un gestore di beni altrui; come tale egli soggiace al controllo dei singoli comproprietari, ai quali deve rendere il conto, dettagliato ed esaustivo”.

Prosegue, quindi, il giudicante dipanando la questione e chiarendo che, anche se l'obbligo di rendiconto veniva prescritto dall'art. 1713 c.c. (in tema di mandato), al quale fa rimando l'art. 2030 c.c. (riguardante la gestione di affari), ecco che le citate disposizioni legislative rappresentano evidentemente l'estrinsecazione di un principio generale dell'ordinamento - che trova corollari normativi anche negli artt. 380, 385, 723, 1130, 1983, 2261, 2552 c.c. e 593, 676 c.p.c. - secondo il quale chi esercita una gestione o svolge un'attività nell'interesse altrui ha il dovere di soggiacere al controllo di questi e, quindi, di rendere il conto (Cass., civ., sez. II, 7 giugno 1993, n. 6358), e che i nominati articoli siano quindi da ritenersi una elencazione di carattere non tassativo, ben potendosi ricorrere allo strumento in questione ogni qualvolta si debba verificare la compiuta gestione di interessi altrui.

La Suprema Corte, in numerosi precedenti giurisprudenziali, ha fortemente insistito nel sancire che: “[…] possa pretendersi un rendiconto (propriamente quello disciplinato dall'art. 263 c.p.c.) in tutti i casi in cui da un rapporto di natura sostanziale discenda l'obbligo (legale o negoziale) di una delle parti di far conoscere il risultato della propria attività, in quanto influente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, nella altrui e nella propria” (così Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2017, n. 22063; nello stesso senso, v. Cass. civ., sez. I, 23 luglio 2010, n. 17283; Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2007, n. 4765).

E ancora, a supporto di quanto appena dedotto, sempre la citata Suprema Corte, a chiosa della sua motivazione, rafforzava la doverosità dell'azione di rendiconto del gestore evidenziando che: “nel giudizio di rendiconto promosso nei confronti del soggetto obbligato alla presentazione del conto al fine di ottenere il pagamento del saldo di gestione, tale soggetto è tenuto, a prescindere dalla sua formale funzione di convenuto, a fornire tutti gli elementi utili per la ricostruzione della gestione stessa ..., mentre alla lacunosità o incompletezza delle prove fornite dalle parti sopperisce comunque l'istruttoria disposta di ufficio dal giudice […] rimanendo esclusa la possibilità di una pronunzia di non liquet, che si configurerebbe come sostanzialmente assolutoria del convenuto dall'obbligo di presentazione del conto” (Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2017, n. 22063; e ancora Cass. civ., sez. I, 3 novembre 2004, n. 21090; Cass. civ., sez. I, 10 luglio 2001, n. 9377; Cass., civ., sez. I, 15 aprile 1992, n. 4568).

Pertanto, in ragione del fatto che le sentenze civili che definiscono le controversie devono avere a fondamento una decisione sulla domanda dell'attore nel contraddittorio con l'altra parte, non potendo avere come esito una rinuncia da parte del magistrato alla funzione del giudicare, nel nostro ordinamento è imposto al giudice di pronunciarsi sempre sulla questione controversa.

Nella fattispecie de qua, a riprova della necessarietà e doverosità di presentazione del rendiconto, non può ammettersi un giudizio di non liquet, ovvero una non decisione sulla domanda oggetto di lite, perché le norme di diritto e la disponibilità delle prove consentono sempre al giudice di assumere una decisione e di assicurare la certezza del diritto.

Due logici corollari della doverosità del rendiconto in capo all'amministratore gestore della comproprietà sono certamente il diritto di ciascun partecipante di conoscere la morosità degli altri partecipanti, che può incidere negativamente sul patrimonio altrui, così come il diritto di controllare quali azioni a tutela del credito e dell'interesse comune siano state perseguite, sempre dall'amministratore.

Precisamente, visto che sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in ragione della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri, a ciascuno è consentita l'amministrazione della cosa comune.

Di conseguenza, è concesso ai partecipanti di delegare ad un soggetto l'amministrazione dei beni comuni e la rappresentanza della comunione nei confronti dei terzi; è propriamente in tal caso che l'amministratore acquisisce il potere di svolgere le stesse attività di amministrazione che, nell'interesse ed a tutela dei suddetti beni, spettano per legge ai singoli compartecipi i quali conservano per ciò stesso - e diversamente non potrebbe essere - il legittimo diritto di conoscere e controllare la gestione.

Riferimenti

Branca, Comunione, condominio negli edifici, in Commentario al codice civile, Bologna-Roma, 1982, sub artt. 1117 e 1139;

Cincotti, L'obbligazione di rendiconto: profili ricostruttivi, in Riv. dir. civ., 2017, fasc. 6, 1447;

Cusano, Il codice del condominio, Napoli, 2022, sub art. 95;

Lamorgese, Artt. 1106-1116. Comunione, in Commentario al codice civile, a cura di Gabrielli, Torino, 2013;

Rezzonico, Manuale del condominio, Rimini, 2018, 97.

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