Il sanitario non vaccinato commette il delitto di esercizio abusivo della professione?

29 Dicembre 2022

La Corte di cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, sui rapporti tra il delitto di abusivo esercizio della professione di cui all'art. 348 c.p. e l'illecito amministrativo previsto dal d.l. n. 19/2020.
Massima

La norma prevista dall'art. 4-ter, comma 5, del d.l. n. 44/2021 ha come presupposto lo svolgimento di un'attività lavorativa compiuta in violazione dell'obbligo vaccinale prima che, in ragione dell'accertamento della violazione, il soggetto sia sospeso dall'albo professionale. Mentre l'art. 348 c.p. punisce la condotta compiuta temporalmente dopo la sospensione dall'ordine professionale, quando, cioè, l'indagato non può più svolgere l'attività professionale. Dunque, laddove a seguito di un controllo di uno studio dentistico, venga accertato che il medico esercitava la propria attività nonostante fosse stato sospeso con delibera dell'Ordine dei medici e degli odontoiatri, a causa dell'accertata inosservanza non giustificata dell'obbligo vaccinale contro l'infezione da Sars, non si è in presenza né di un unico fatto, né, tantomeno, di un medesimo fatto, né di un concorso apparente di norme perché si tratta di fatti autonomi e distinti disciplinati da norme diverse.

In tema di reati contro la Pubblica Amministrazione, è legittimamente disposto il sequestro preventivo impeditivo dello studio dentistico gestito da professionista che eserciti l'attività sebbene sospeso con delibera dell'Ordine dei medici e degli odontoiatri a seguito dell'accertata, non giustificata inosservanza dell'obbligo vaccinale contro l'infezione da Sars, posto che ricorre il "fumus" del delitto di esercizio abusivo di professione e non dell'illecito amministrativo di cui all'art. 4-ter del d.l. 25 maggio 2020, n. 20, configurabile laddove lo svolgimento dell'attività professionale in violazione dell'obbligo vaccinale avvenga quando il soggetto agente non sia stato già sospeso dall'Ordine.

Il caso

La vicenda processuale trae origine da un sequestro preventivo, confermato dal Tribunale del riesame, posto in essere nei confronti di un odontoiatra, indagato per il reato previsto dall'art. 348 c.p. In particolare, a seguito di un controllo dello studio dentistico, si appurava che il sanitario esercitava la propria attività nonostante fosse stato sospeso con delibera dell'Ordine dei medici e degli odontoiatri, a seguito dell'accertata inosservanza non giustificata dell'obbligo vaccinale contro l'infezione Covid 19.

Contro l'ordinanza proponeva ricorso per Cassazione la difesa, richiamando l'art. 4-ter del d.l. n. 44/2021, secondo cui lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione dell'obbligo vaccinale di cui al comma 1 della norma in questione è punito con la sanzione di cui al comma 6 il quale, a sua volta, prevede che la violazione delle disposizioni di cui al comma 1 è sanzionata ai sensi dell'art. 4, commi 1, 3, 5, e 9 d.l. n. 19 del 25 maggio 2020, convertito con modifiche nella l. 22 maggio 2020, n. 35. Tale ultimo articolo prevede che, salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'art. 1, comma 2, individuate ed applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 2, comma 12, ovvero dell'art. 3 è punito con una sanzione amministrativa e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'art. 650 c.p. o da ogni altra legge attributiva di poteri per ragioni di sanità; aggiunge la norma in questione che, per quanto non stabilito, si applicano le disposizioni previste dalle sezioni I e II del capo I della l. n. 681/1981, in quanto compatibili.

In particolare, il comma 5 richiama gli artt. 4 e 4-bis, che regolamentano l'obbligo vaccinale per il personale sanitario (art. 4) ed amministrativo sanitario (4-bis), e prevede che «lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione dell'obbligo vaccinale di cui al comma 1 è punito con la sanzione di cui al comma 6 e restano ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di competenza».

Sulla base del quadro di riferimento indicato si assumeva che le conseguenze sanzionatorie previste dal comma 5 fossero di natura amministrativa.

La questione

La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, sui rapporti tra il delitto di abusivo esercizio della professione di cui all'art. 348 c.p. e l'illecito amministrativo previsto dal d.l. n. 19/2020, avuto riguardo alle conseguenze sull'esercizio delle professioni sanitarie del provvedimento di sospensione dall'albo disposto nei confronti dei sanitari rifiutatisi di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, in particolare, in una fattispecie nella quale si discuteva della legittimità del sequestro preventivo dello studio di un odontoiatra, che aveva proseguito nell'esercizio della professione, nonostante colpito dalla delibera di sospensione del proprio ordine per non essersi sottoposto alla vaccinazione anti Covid-19, ha disatteso la tesi difensiva, secondo cui lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione del suddetto obbligo vaccinale è sanzionato solo sul piano amministrativo.

Va premesso che l'art. 348 c.p. tutela l'interesse generale a che determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo stato (E. Contieri, Esercizio abusivo di professioni, arti e mestieri, in ED, XV, Milano, 1966, 606).

Il legislatore, con l'art. 12, comma 1, l. 11 gennaio 2018, n. 3, in vigore dal 15.2.2018, oltre ad innalzare le pene, ha introdotto, all'art. 348, commi 2 e 3 c.p. Il comma 2 prevede la pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna, le sanzioni disciplinari e la confisca diretta delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato. Quanto alle sanzioni disciplinari, l'art. 348, comma 2, c.p. stabilisce che, laddove il soggetto attivo del reato sia un professionista o comunque un soggetto che esercita un'attività che comporta l'inserimento in un albo o in un registro, sia trasmessa la sentenza di condanna all'Ordine competente ai fini dell'applicazione della interdizione da uno a tre anni dalla professione regolarmente praticata. Potrebbe essere questo il caso del dottore in giurisprudenza, praticante avvocato, inserito nel Registro conservato dall'Ordine del territorio, il quale eserciti abusivamente la professione di avvocato.

Infine l'art. 348, comma 3, c.p. sanziona il reato proprio commesso dal professionista che determina altri a commettere l'esercizio abusivo ovvero diriga l'attività delle persone che sono concorse nell'esercizio abusivo.

L'individuazione del bene protetto della norma incriminatrice consente di cogliere i contorni della fattispecie: se, infatti, oggetto della tutela predisposta dell'art. 348 c.p. è l'interesse della P.A. che determinate professioni vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso della qualità morali e culturali richieste dalla legge, ne deriva che la tutela in esame si estende soltanto agli atti propri o tipici delle suddette professioni, in quanto alle stesse riservati in via esclusiva, e non anche agli atti che pur essendo in qualche modo connessi all'esercizio professionale difettano di tipicità nel senso anzidetto, perché suscettibili di essere posti in essere da qualsiasi interessato (Cass. pen., sez. II, 17 giugno 2016, n. 38752).

Il delitto di abusivo esercizio di una professione risulta integrato dall'esercizio di una professione in assenza dei requisiti richiesti all'uopo dalla legislazione statale. Trattasi dunque di una norma penale in bianco, che presuppone e rimanda ad altre disposizioni che determinano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito, ed è quindi abusivo, l'esercizio dell'attività protetta (Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 2018, n. 33464).

L'individuazione delle attività costituenti esercizio di una professione protetta non può prescindere dal dato normativo, ed ogni eventuale lacuna non può essere colmata dal giudice (Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 1990). Se la determinazione delle materie di competenza di determinate professioni fosse ammissibile anche in assenza di un dato normativo, si avrebbe effettivamente una violazione dell'art. 25 Cost., oltre ad attribuirsi ai singoli professionisti ed alle loro corporazioni il potere di denotare, tramite l'estensione dei contenuti dell'attività professionale, l'area di applicazione del delitto in esame.

L'abusività dell'esercizio sussiste allorquando l'agente sia sfornito del titolo, ovvero non abbia adempiuto alle formalità prescritte, oppure si trovi temporaneamente interdetto o inabilitato dall'esercizio della professione.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza, l'esame circa la sussistenza delle condizioni sopra menzionate va effettuato in concreto, verificando se, in relazione all'attività effettivamente svolta, il soggetto poteva dirsi legittimato secondo la legislazione statale. È stato così riconosciuto che per la sussistenza del reato de quo è sufficiente l'esercizio in concreto di una attività per cui è richiesta una particolare abilitazione non posseduta, non rilevando l'attribuzione formale della attività ad un altro professionista abilitato (Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 1989), e, nel contempo, la sussistenza del reato non è esclusa dalla iscrizione all'Albo professionale, ove tale titolo sia invalido ovvero risultino mancanti i requisiti sostanziali prescritti per lo svolgimento della professione (Cass. pen., sez. un., 26 aprile 1990). Si noti comunque che le Sezioni Unite hanno rilevato come la norma non sanzioni le ipotesi in cui, nell'ambito della professione per la quale la persona è abilitata, siano assenti particolari qualità richieste per lo svolgimento di peculiari funzioni, delegabili ad altri soggetti.

In ogni caso, per atto di esercizio della professione deve intendersi quello tipico ed esclusivo di chi esercita quella determinata attività protetta, non potendo la norma essere applicata in presenza del semplice compimento di atti non tipici realizzabili da chiunque, anche se abbiano connessione con quelli professionali (Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 1990). In proposito, tuttavia, la giurisprudenza è oscillante posto che se da un lato si ritiene che, perché sussista il delitto occorre che l'agente abbia concretamente posto in essere atti inerenti la professione abusivamente esercitata, non essendo perciò rilevante l'iscrizione nell'albo professionale, né l'allestimento di uno studio, trattandosi di meri atti prodromici (Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2002), dall'altro vi sono diverse pronunce secondo cui non si necessita, per la sussistenza della fattispecie, dell'adozione di comportamenti riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione - i c.d. atti tipici della professione - essendo sufficiente anche la realizzazione di condotte caratteristiche a condizione che vengano compiute in modo continuativo e professionale (Cass. pen., sez. VI, 8 ottobre 2002; da ultimo questo secondo indirizzo è stato confermato da Cass. pen., sez. IV, 12 febbraio 2020, n. 12282, pur con la precisazione che, ove l'esercizio abusivo consista nello svolgimento di atti non attribuiti esclusivamente ad una determinata professione, tali atti siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato).

Va detto comunque che l'esistenza del reato è subordinata alla circostanza che l'attività posta in essere dall'agente abbia assunto rilevanza esterna (Cass. pen., sez. VI, 4 maggio 2000, con riferimento allo svolgimento di mansioni tecnico-burocratiche nell'istruttoria di pratiche di condono edilizio a supporto dell'Ufficio comunale).

Tutelando il reato non l'affidamento del singolo sulle capacità professionali e tecniche del soggetto cui si rivolge per lo svolgimento di attività inerenti professioni protette, bensì l'interesse generale indicato al par. 1, il delitto in parola è ritenuto sussistente anche in caso di possesso, in capo al soggetto non legittimato, dei requisiti tecnici ed attitudinali richiesti per l'esercizio della professione, quando non accertati e documentati mediante l'iscrizione all'apposito albo professionale, o tramite il possesso dell'abilitazione (Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 1989), ovvero nel caso in cui il soggetto, pur avendo superato l'esame di Stato necessario a conseguire la relativa abilitazione, non sia comunque iscritto nel relativo albo professionale (Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2004). Per la medesima ragione, si ritiene sussistente l'illecito anche in caso manchi lo scopo di lucro in capo all'agente (Cass. pen., sez. II, 22 agosto 2000), ovvero allorquando l'attività esplicata si sia esaurita in un solo atto (Cass. pen., sez. VI, 10 ottobre 2007).

Le Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 23 marzo 2012, n. 11545) ha di recente chiarito che costituisce esercizio abusivo della professione il compimento senza titolo, anche occasionalmente e gratuitamente, di atti attribuiti in via esclusiva a una determinata professione così come il compimento di atti che pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione ed eseguiti con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare le oggettive apparenze di un'attività professionale (in termini, Cass. pen., sez. VI, 28 febbraio 2022, n. 7053).

Alla mancanza del titolo di abilitazione, viene equiparata, oltre all'ipotesi di invalidità dello stesso (Cass. pen., sez. VI, 5 giugno 2006), l'interdizione temporanea dall'esercizio della professione (Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 2007), conseguente tanto ad una condanna per i delitti commessi con l'abuso di una professione (Cass. pen., sez. VI, 6 marzo 1995), quanto all'esistenza di una situazione di incompatibilità derivante dalle condizioni soggettive dell'agente (con riferimento al possesso di status di dipendente pubblico, Cass. pen., sez. VI, 10 giugno 1986), ma non l'esercizio della professione in violazione delle regole di competenza territoriale (Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 1983).

In riferimento alle ipotesi di violazione dell'interdizione temporanea all'esercizio della professione risulti inequivocabilmente diverso l'oggetto giuridico protetto. La circostanza che il soggetto sia in possesso del titolo, pur non potendo esercitare la professione per ragioni diverse da quelle connesse alla mancanza della necessaria abilitazione, fa sì che la condotta illecita realizzi una lesione di un bene giuridico diverso rispetto a quello protetto in via generale dell'art. 348. In particolare, riteniamo che l'interesse effettivamente tutelato nelle ipotesi in parola vada identificato con la finalità che intende perseguire prevedendo determinate cause di incompatibilità all'esercizio di una professione.

L'esercizio abusivo della professione è un reato solo eventualmente abituale, in quanto lo stesso può essere integrato dal compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione. Ne consegue che per tale tipo di reati - i quali, per la loro stessa configurazione giuridica, postulano una ripetizione di condotte analoghe, distinte tra loro, ma sorrette da un unico elemento soggettivo ed unitariamente lesive del bene giuridico tutelato - è possibile operare una scissione della condotta del soggetto in singoli episodi delittuosi, i quali ben possono rientrare fra i reati scopo di un'associazione per delinquere (Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2011, n. 43328).

Trattandosi di reato solo eventualmente abituale, la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l'ultimo di essi, vale a dire con la cessazione della condotta (Cass. pen., sez. VI, 19 aprile 2016, n. 20099).

Una professione protetta, i cui caratteri sono stati oggetto di analisi a parte della giurisprudenza è quella medica, che si è inteso differenziare attentamente da ogni altra attività ad essa connessa.

In proposito, si è chiarito che solo al medico compete l'attività di visita e diretto intervento sul paziente, essendo dunque la stessa vietata per l'odontotecnico (Cass. pen., sez. VI, 12 dicembre 2008, n. 4294), come è vietato al biologo ed all'infermiere generico effettuare prelievi ematici sul paziente.

Ancora con riferimento alla professione di odontoiatra, per la Suprema Corte (Cass. pen., sez. VI, 13 novembre 2013, n. 47532) lo svolgimento dell'attività di odontoiatra da parte dei cittadini dell'Unione europea in possesso del diploma rilasciato da uno Stato dell'Unione non configura gli estremi del reato previsto dall'art. 348 solo se l'interessato abbia presentato domanda al Ministero della Sanità e questo, dopo aver accertato la regolarità dell'istanza e della relativa documentazione, abbia trasmesso la stessa all'ordine professionale competente per l'iscrizione. (Fattispecie in cui è stata confermata la condanna di un soggetto che aveva esercitato la professione di odontoiatra mentre era in corso la procedura di riconoscimento dei titoli rilasciati da altro paese membro dell'Unione europea). Di recente la Suprema Corte ha ritenuto responsabile di esercizio abusivo della professione il laureato in medicina e chirurgia che, pur avendo conseguito due master specialistici all'esito di una poderosa attività tecnico-pratica, aveva eseguito interventi di odontostomatologia (visite, estrazioni, otturazioni, applicazione a fissaggio di capsule ed implantologia) senza essere iscritto all'Albo, istituito con l. 24 luglio 1985, n. 409, di coloro che sono abilitati all'esercizio della professione di odontoiatra (Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2018, n. 2691; in termini, più di recente, si è ritenuto che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 5 l. 24 luglio 1985, n. 409, la prosecuzione dello svolgimento dell'attività di odontoiatra da parte di un soggetto che, laureato in medicina e chirurgia e specializzato in odontoiatria, abbia omesso di iscriversi nell'albo degli odontoiatri, rimanendo iscritto nel solo albo dei medici, integra il delitto in commento (Cass. pen., sez. VI, 25 luglio 2022, n. 29662).

Con riferimento alla professione forense, la giurisprudenza (Cass. pen., sez. VI, 25 maggio 2017, n. 32952) ha ritenuto che non commette abusivo esercizio della professione di avvocato il legale che, nonostante il provvedimento di sospensione assunto dal Consiglio dell'ordine, rediga un esposto-denuncia nell'interesse di un cliente, provvedendo al deposito dello stesso davanti ad un organo di polizia giudiziaria, laddove si tratti di una prestazione isolata, in quanto tale non sintomatica di un'attività svolta in forma professionale, non rilevando la circostanza che l'esposto sia redatto su carta intestata dello studio legale. In senso differente, tuttavia, altra pronuncia (Cass. pen., sez. VI, 22 dicembre 2021, n. 46963), esprimendosi in un caso relativo alla sottoscrizione da parte dell'avvocato sospeso del verbale di conciliazione assieme al suo assistito, ha ritenuto che l'esercizio della professione forense è abusivo se l'atto professionale è stato compiuto nonostante la sottoposizione alla sanzione della sospensione dell'esercizio della professione (sul tema dell'esercizio della professione forense è intervenuta Cass. pen., sez. II, 19 novembre 2019, n. 46865, secondo cui l'abusiva e diffusa spendita dell'inesistente titolo professionale di avvocato, accompagnata dallo svolgimento di una protratta attività di consulenza e mediazione legale fino alla liquidazione dei danni relativi a due sinistri, costituisce condotta integrante il reato di abusivo esercizio della professione laddove l'attività illecita sia sostenuta dall'artificiosa creazione e dal successivo mantenimento di un rapporto fiduciario con i clienti, avente le caratteristiche di continuità, onerosità e prestazione di mezzi e asserite competenze tipiche dell'esercizio della professione legale).

L'individuazione dell'elemento soggettivo non si presenta certo complessa, non essendovi dubbi circa la identificazione dello stesso con il dolo generico.

Dibattuta, è la disciplina in caso di errore sulla normativa extrapenale, inerente cioè alla particolare abilitazione necessaria per lo svolgimento della singola professione.

La dottrina è nel senso di ritenere che l'errore in parola abbia ad oggetto una disposizione extrapenale non integratrice del precetto penale, con conseguente applicazione dell'art. 47, comma 3 (S. Putinati, L'errore inevitabile sul precetto e l'abusivo esercizio della professione medica, in IP, 1989, 460).

Di opposto avviso, invece, la giurisprudenza secondo cui l'errore sulla normativa in tema di iscrizione all'albo professionale, ovvero sui requisiti necessari per l'esercizio dell'attività professionale non ha valenza scriminante (Cass. pen., sez. VI, 10 novembre 2009, n. 47028).

Venendo alla pronuncia in commento, la Suprema Corte ha preso le mosse, anzitutto, dall'art. 4-ter, comma 5, d.l. n. 44/2021, il quale prevede che «Lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione dell'obbligo vaccinale di cui al comma 1 è punito con la sanzione di cui al comma 6 e restano ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di appartenenza. Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano anche in caso di esercizio della professione o di svolgimento dell'attività lavorativa in violazione degli obblighi vaccinali di cui agli artt. 4 e 4-bis».

A sua volta, il comma 6 dell'articolo in esame prevede che «La violazione delle disposizioni di cui al comma 2 è sanzionata ai sensi del d.l. n. 19 del 25 marzo 2020, art. 4, commi 1, 3, 5 e 9, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 maggio 2020, n. 35. Resta fermo quanto previsto dall'art. 2, comma 2-bis, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio 2020, n. 74. La sanzione è irrogata dal prefetto e si applicano, per quanto non stabilito dal presente comma, le disposizioni delle sezioni I e II del capo I della l. 24 novembre 1981, n. 689, in quanto compatibili. Per le violazioni di cui al comma 5, la sanzione amministrativa prevista dal comma 1 del citato art. 4 d.l. n. 19/2020 è stabilita nel pagamento di una somma da euro 600 a Euro 1.500».

Orbene, osserva la sentenza che il fatto per cui si procede è diverso da quello disciplinato e sanzionato ai sensi dell'art. 4-ter, comma 5, cit.

La norma in questione dovrebbe avere come presupposto lo svolgimento di un'attività lavorativa compiuta in violazione dell'obbligo vaccinale prima che, in ragione dell'accertamento della violazione, il soggetto sia sospeso dall'albo professionale.

Nel caso di specie, la condotta posta a fondamento del reato e del titolo cautelare reale per cui si procede è invece quella compiuta temporalmente dopo la sospensione dall'ordine dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, quando, cioè, l'indagato non poteva più svolgere l'attività professionale.

Dunque, nella specie, non si sarebbe in presenza né di un unico fatto, né, tantomeno, di un medesimo fatto, né di un concorso apparente di norme; si tratterebbe di fatti autonomi e distinti disciplinati da norme diverse.

Osservazioni

La decisione in esame si colloca in continuità con l'impostazione giurisprudenziale pacifica nel ritenere integrato il reato di abusivo esercizio della professione da parte di soggetti destinatari di delibere di sospensione da parte degli ordini professionali di appartenenza. Ad esempio, si è affermato che in tema di esercizio abusivo della professione, integra il reato di cui all'art. 348 c.p. la condotta del professionista che, sebbene sospeso temporaneamente dall'esercizio della professione forense per ragioni disciplinari, si sia recato più volte presso un istituto penitenziario, durante il periodo di interdizione, per incontrare diversi detenuti avvalendosi dello strumento processuale previsto dall'art. 104 c.p.p., in modo da creare la pubblica percezione dell'esercizio della professione forense o, comunque, l'apparenza di una attività svolta da un soggetto regolarmente abilitato (Cass. pen., sez. VI, 6 maggio 2014, n. 18745).

La soluzione della questione non può tuttavia prescindere da qualche breve osservazione relativa al concorso tra reati ed illeciti amministrativi.

Il nostro sistema adotta in proposito una disciplina fondamentalmente analoga a quella dell'art. 15 c.p.

In effetti, l'art. 9, l. n. 689/1981 dispone che «quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa … si applica la disposizione speciale». La medesima formula compare, altresì, nell'art. 19, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, concernente la disciplina dei reati in materia tributaria: «Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale».

Ebbene, ci si deve domandare se il richiamo ad “uno stesso fatto” sia in grado di evocare delle relazioni tra norme tali da corrispondere alla tipologia di figure di specialità unilaterale o reciproca, escluse quelle ‘bilateralmente per aggiunta'.

A tale quesito sembra doversi dare una risposta positiva (Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2011, n. 1963; Cass. pen., sez. un., 19 gennaio 2012, n. 22225).

Il richiamo ad uno ‘stesso fatto' si presta, invero, a due possibili interpretazioni: la prima ispirata al c.d. ‘fatto in concreto', la seconda incentrata, viceversa, sulla dimensione più propriamente ‘giuridica' di tale fatto.

Entrambe le soluzioni si sono tuttavia rivelate, sia pure in misura diversa, scarsamente appaganti. Invero, mentre la prima rischia addirittura di parificare il concorso apparente al concorso formale di reati, la seconda, indubbiamente più rigorosa, lascia pur sempre irrisolto il problema ermeneutico di stabilire quando tale dimensione giuridicamente unitaria possa essere riconosciuta. Stando così le cose, appare dunque preferibile valutare il contenuto delle suddette formule normative alla luce dei medesimi criteri ermeneutici utilizzati a proposito dell'art. 15 c.p. Ed in questa prospettiva, non v'è allora ragione per non includervi, oltre la categoria della specialità unilaterale, anche quella della specialità reciproca sino al limite in cui le fattispecie a confronto non si rivelino tra loro ‘eterogenee' (come nella specialità bilaterale per aggiunta).

Potrebbe suscitare qualche perplessità la circostanza che una fattispecie di tipo amministrativo possa mettere comunque fuori gioco quella costituente reato; ciò, soprattutto in considerazione della più accentuata tutela che questa comporta in ordine agli interessi sottesi all'intervento punitivo.

Un rilievo del genere, tuttavia, nel mentre conferma, a maggior ragione, la necessità di escludere dalle suddette previsioni la rilevanza del mero ‘fatto in concreto' – dovendosi invero affermare, allorché le fattispecie astratte si rivelino sia pur in parte ‘diverse', la punibilità del reato in concorso con la violazione amministrativa – viene di fatto a stemperarsi di fronte alla tendenza da parte del legislatore ad inserire nelle norme sugli illeciti amministrativi un'apposita ‘clausola di riserva' a favore dell'applicazione delle disposizioni dotate di rilevanza penale.

Non si può non rilevare poi, come la categoria concettuale dell'usurpazione di attività funzionali e professionali pare promuovere una esegesi del reato in chiave di pericolo astratto, proprio per rendere più selettiva, nel rispetto della extrema ratio, la cernita delle condotte penalmente rilevanti, da ricostruire alla luce di un criterio influenzato in misura preponderante dal vaglio degli interessi finali che in concreto possono subire nocumento e che sotto tale aspetto una interpretazione conforme ai canoni della offensività/extrema ratio potrebbe condurre ad ipotizzare la rilevanza amministrativa della condotta in questione.

Anche dal punto di vista dell'elemento soggettivo, in conformità all'orientamento interpretativo che riconduce l'art. 348 c.p. nell'area delle norme penali in bianco, si afferma generalmente che il dolo non può essere escluso dall'errore sulle leggi che regolano l'esercizio della specifica professione, atteso che tali leggi non potrebbero che valere d'integrazione del precetto penale, formando un tutt'uno con esso, di guisa che solo l'impossibilità di conoscenza della legge penale, o l'ignoranza scusabile acquisirebbero rilevanza scusante, nei limiti fissati dalla sent. n. 364/1988 con espresso riguardo all'inevitabilità dell'errore su legge penale.

Le conclusioni potrebbero mutare per l'orientamento che rifugge dall'idea di qualificare la fattispecie incriminatrice dell'art. 348 c.p. come norma penale in bianco, per cui non solo è affacciabile l'ipotesi di uno iato intellettivo che, riflettendosi sulla percezione della contingente situazione che preclude l'esercizio dell'attività professionale, ridonderebbe in errore su un elemento essenziale del fatto di reato, trattabile ex art. 47 comma 1 c.p., ma ammette la rilevanza ex art. 47 comma 3 c.p. dell'errore su legge extrapenale, a causa del quale la persona potrebbe aver fatto affidamento sulla legittimità del proprio operato, equivocando sull'elemento normativo di fattispecie attraverso cui si definisce l'abusività penalmente rilevante della condotta, confidando nella rilevanza amministrativa alla luce della normativa ontologicamente speciale quale è stata quella emergenziale relativa alla pandemia da Covid 19.

Riferimenti
  • M. M. Alma, Sub art. 348, in Lattanzi, Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, IV, Milano, 2021, 632 ss.;
  • E. Contieri, Esercizio abusivo di professioni, arti e mestieri, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 606 ss.;
  • M. Mantovani, Profili penali delle attività non autorizzate, Torino, 2003;
  • A. Pagliaro, M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale, p.s., Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008, 10 ss.;
  • S. Seminara, Sub art. 348, in Crespi, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, 844 ss.;
  • V. Torre, Sub art. 348 c.p., in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. I delitti contro la pubblica amministrazione. Materiali: bibliografia, fonti, giurisprudenza, p.s., Torino, 2008, II, 745 ss.

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