L'interdizione perpetua dai pubblici uffici è ostativa alla fruizione del reddito di cittadinanza?

Irene Scordamaglia
18 Gennaio 2023

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte si è occupata di stabilire se l'omessa informazione da parte del richiedente il reddito di cittadinanza circa la sussistenza dell'interdizione perpetua dei pubblici uffici determina l'integrazione del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e la revoca del sussidio, ove concesso.
Massima

Il principio di tassatività impone un'interpretazione restrittiva della disposizione di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., che stabilisce che l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge non sia altrimenti disposto, priva il condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico di ogni altro ente pubblico, di modo che non è consentito ricomprendere il reddito di cittadinanza nella nozione di “assegni”, considerata la sua erogazione attraverso la cd. “carta Rdc”, funzionale al soddisfacimento di bisogni primari del beneficiario mediante la copertura di spese di acquisto. Inoltre, l'espressa qualificazione del sussidio, quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, ne impedisce la sussunzione nelle categorie di provvidenze economiche elencate dalla disposizione di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., avuto riguardo al ridimensionamento operatone dalla Corte Costituzionale. Infine, la previsione di specifici casi ostativi all'ammissione al beneficio [da parte dell'art. 2, comma 1, lett. c-bis, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito in legge, con modificazioni dall'art. 1, comma 1, l. 28 marzo 2019, n. 26) funge da deroga alla previsione generale di cui alla disposizione del codice penale, consentita alla stregua della clausola di riserva contenuta in quest'ultima contenuta.

Il caso

Il tribunale, decidendo quale giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, confermava il sequestro preventivo di somme di denaro, ritenute provento del reato di cui all'art. 640-bis c.p., contestato al destinatario della misura per avere omesso di indicare nella richiesta di erogazione del reddito di cittadinanza che gli era stata applicata la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, costituente condizione ostativa alla fruizione del beneficio.

La difesa dell'interessato proponeva ricorso per cassazione e denunciava la violazione dell'art. 28 c.p. e il vizio di motivazione apparente. Sosteneva, al riguardo, che il tribunale, includendo il reddito di cittadinanza tra le provvidenze economiche che devono essere revocate in caso di applicazione ad un condannato della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, aveva mal interpretato la norma citata, posto che, come evincibile dal parere rassegnato dal Ministero del Lavoro, il sussidio previsto dal d.l. n. 4/2019 non era equiparabile agli stipendi, pensioni o assegni di cui alla disposizione codicistica, trattandosi di «prestazione essenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita»; rilievo, questo, che, in quanto evocativo della possibilità che il soggetto agente fosse caduto in errore su norma extra-penale, avrebbe dovuto, tra l'altro, suggerire una pregnante disamina del profilo della colpevolezza dell'indagato.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso ed annullava senza rinvio l'ordinanza impugnata ed il decreto di sequestro di sequestro preventivo, per mancanza del fumus del reato in relazione ai quali la misura cautelare era stata adottata, escludendo l'equiparazione del reddito di cittadinanza alle provvidenze economiche di cui all'art. 28, comma 2, n. 5, c.p. e, comunque, la ricorrenza in fatto delle specifiche condizioni ostative all'ammissione al beneficio.

La questione

La questione sottoposta allo scrutinio del giudice di legittimità può essere sintetizzata nei termini che seguono: «Se, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, comma 2, lett. c-bis e 7, comma 3, d.l. n. 4/2019, il reddito di cittadinanza non può essere concesso a chi abbia subito condanne definitive per uno dei reati in essi specificamente enumerati, che abbiano oltretutto comportato l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dei pubblici uffici, l'omessa informazione da parte del richiedente circa la sussistenza della predetta condizione ostativa determina l'integrazione del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e la revoca del sussidio, ove concesso?».

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha affermato che l'omessa informazione da parte del richiedente il reddito di cittadinanza di una pregressa condanna definitiva a suo carico per un reato ostativo, cui sia conseguita l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, non è tale da integrare il reato di cui all'art. 640-bis c.p. e da comportare la revoca del sussidio.

Tre sono le rationes sottese alla decisione della Corte.

La necessità di applicare la disposizione di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., per la quale l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge non sia altrimenti disposto, priva il condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico di ogni altro ente pubblico, secondo il criterio di stretta interpretazione, in ragione del carattere afflittivo delle pene accessorie, esclude che il reddito di cittadinanza possa essere sussunto nella categoria degli assegni.

La natura ibrida del sussidio in parola, destinato a soddisfare i bisogni primari del beneficiario – come dimostrato dalla stessa modalità di sua erogazione tramite la «Carta Rdc» - ed a svolgere un ruolo fondamentale in riferimento alla tutela e alla promozione del diritto al lavoro impedisce l'equiparazione del reddito di cittadinanza alle provvidenze economiche di cui è imposta la revoca in caso di applicazione della pena accessoria di cui all'art. 28 c.p.

La limitazione dei casi ostativi alla concessione del reddito di cittadinanza e delle condizioni che ne comportano la revoca (secondo quanto stabilito dal combinato disposto degli artt. 2, comma 2, lett. c-bis e 7, comma 3, d.l. n. 4/2019) a «condanne definitive intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta» costituisce ipotesi derogatoria rispetto alla disciplina generale stabilita dall'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., che determina la privazione del condannato di stipendi, pensioni e assegni erogati da enti pubblici in tutti i casi di applicazione dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici «salvo che dalla legge sia altrimenti disposto».

Osservazioni

La risposta al quesito di diritto prospettato dal ricorrente si rivela in linea con l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'istituto delle pene accessorie, vieppiù di quelle di durata fissa.

La Corte costituzionale, con la sentenza 5 dicembre 2018, n. 222, e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 28 febbraio 2019 (dep. 3 luglio 2019), n. 28910, affermata la sostanziale equiparazione delle pene accessorie alle pene principali, in ragione della loro capacità di «incidere in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato», hanno implicitamente sottoscritto la tesi, sostenuta in dottrina (cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Art. 1-84, Giuffrè 1995, pagg. 200 e 233), della necessità di una lettura tassativizzante, ispirata al principio di legalità delle pene ex art. 25, comma 2, Cost., delle norme che le prevedono.

Le pene accessorie, in particolare quella della interdizione perpetua dai pubblici uffici, sono, infatti, caratterizzate dalla natura afflittiva tipica della sanzione penale e conseguono di diritto alla condanna alla pena principale come effetto automatico di essa, di modo che, anche per superare i dubbi di legittimità costituzionale avanzabili in riferimento al principio della funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3, Cost., è preclusa la dilatazione in chiave ermeneutica degli effetti derivanti dalla loro applicazione: dunque, anche della privazione del condannato delle provvidenze economiche erogate dallo Stato o da enti pubblici.

La sentenza annotata, laddove ha posto l'accento sulla natura ibrida del reddito di cittadinanza, «quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro» (art. 1, comma 1, d.l. n. 4/2019), per escludere, anche sotto questo profilo, la possibilità di equiparazione del reddito di cittadinanza agli stipendi, pensioni ed assegni di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., ha mostrato consapevolezza e rispetto dei dicta della Corte costituzionale in materia, che, con le sentenze 13 gennaio 1966 n. 3 e 19 luglio 1968 n. 113, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 28, comma 2, n. 5 c.p. limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro.

Al riguardo, il giudice delle leggi ha evidenziato che le provvidenze economiche connesse alla prestazione di attività lavorativa sono oggetto di particolare protezione nel nostro sistema costituzionale, posto che, come evincibile dall'art. 36 Cost., il diritto al lavoro e quello al conseguimento di un trattamento retributivo o pensionistico adeguato, è funzionale ad «assicurare al lavoratore e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa»; donde, ha concluso, non può dirsi compatibile con i principi costituzionali «collegare indiscriminatamente (come fa l'art. 28, comma 2, n. 5, c.p., integrato dall'art. 29 c.p.), per il personale degli enti pubblici e i loro aventi causa, la perdita di tale diritto [alle provvidenze economiche di cui alla norma oggetto del giudizio di costituzionalità, ndr.], al fatto che il titolare di esso abbia riportato la condanna a una certa pena detentiva».

Riferimenti
  • P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e laboriosità, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2020, 1, pag. 1;
  • P. Cervo, Il valore costituzionale della pena, in La giustizia penale, 2019, II, parte II, pag. 109;
  • G. Giampaoli, L'interdizione dai pubblici uffici e la retribuzione dei lavoratori, in La Scuola positiva, 1966, pag. 436;
  • P. Pisa, Le pene accessorie, problemi e prospettive, Giuffrè, 1984;
  • M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè 1995.

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