Codice di Procedura Civile art. 838 bis - Oggetto ed effetti di clausole compromissorie statutarie 1Oggetto ed effetti di clausole compromissorie statutarie1 [I]. Gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'articolo 2325-bis del codice civile, possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. [II]. La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Se il soggetto designato non provvede, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale.
[III]. La clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia. [IV].Gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tal caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro. [V]. Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge prevede l'intervento obbligatorio del pubblico ministero. [VI]. Le modifiche dell'atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso. [1] Articolo inserito dall'art. 3, comma 55, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoIn esecuzione della delega contenuta nell'art. 1, comma 15, lett. f, l. n. 206/2021, che prevedeva l'inserimento delle disposizioni sull'arbitrato societario all'interno del codice di procedura civile, introducendo la reclamabilità dinanzi al giudice ordinario delle ordinanze con cui gli arbitri societari sospendono l'efficacia di delibere assembleari, il d.lgs. n. 149/2022, ha inserito nel titolo VII del codice un apposito capo VI-bis, rinumerando gli originari artt. 34,35,36 e 37 d.lgs. n. 5/2003, divenuti artt. 838-bis, 838-ter, 838-quater e 838-quinquies c.p.c. Non essendo possibile la pura e semplice trasposizione delle previgenti disposizioni, contenenti diversi rinvii ad articoli del codice di rito medio tempore modificati, il legislatore ha provveduto ai necessari adeguamenti tecnici. In particolare, nell'art. 838-ter c.p.c. non è stato riprodotto il comma 3 dell'art. 35 e, egualmente, è stato espunto dall'art. 838-quater c.p.c. il comma 2 dell'art. 36. Inoltre, essendo stata prevista la possibilità di procedere alla impugnazione secondo diritto del lodo societario nei casi di cui all'art. 838-quater, è stato richiamato il terzo (e non più il secondo) comma dell'art. 829 c.p.c.. Dal momento, però, che, pur con i necessari adattamenti tecnici e con l'innovazione concernente il menzionato profilo di responsabilità, la riforma del 2022 non ha inteso innovare rispetto alla disciplina previgente, può farsi nel complesso riferimento all'assetto giurisprudenziale della materia come disciplinata dall'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, il quale pure stabiliva che: i ) la clausola compromissoria può devolvere ad arbitri alcune ovvero tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale; ii ) la clausola è vincolante per la società e per tutti i soci e si applica anche alle controversie promosse da amministratori e sindaci o nei loro confronti solo se previsto dalla clausola stessa, nel qual caso essa è vincolante per costoro successivamente all'accettazione del loro incarico. Ammissibilità dell’arbitrato di diritto comunePuò tenersi per fermo, come avrà modo di ripetersi, il principio, che è bene sottolineare fin d'ora con particolare forza, secondo cui l'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003, contempla l'unica ipotesi di clausola compromissoria che può essere introdotta negli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'art. 2325-bis c.c., restando escluso il ricorso in via alternativa od aggiuntiva alla clausola compromissoria di diritto comune prevista dall'art. 808 c.p.c. Ne consegue che se, in violazione di tale prescrizione, l'atto costitutivo preveda una forma di clausola compromissoria che non rispetti i requisiti, in punto di nomina, degli arbitri indicati dalla norma speciale, la nullità di tale pattuizione comporta che la controversia societaria possa essere introdotta soltanto davanti all'autorità giudiziaria ordinaria (Cass. n. 15892/2011). Arbitrabilità soggettivaIn generale, le controversie in materia societaria possono formare oggetto di compromesso, fatta eccezione soltanto per quelle che hanno ad oggetto interessi della società o concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi. L'area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, quali, in particolare, le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizi. La violazione delle predette disposizioni comporta, infatti, l'illiceità e, quindi, la nullità della delibera di approvazione del bilancio, trattandosi di norme non solo imperative, ma contenenti principi dettati a tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati, dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto di conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente (Cass. n. 12391/2019). E cioè, in tema di controversie in materia societaria, esse possono formare oggetto di compromesso, fatta eccezione soltanto per quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi. In particolare, l'area dell'indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, quali, in particolare, le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio (Cass. n. 2692/2018). Attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c., soltanto le controversie relative all'impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabili anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell'art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la lite che abbia ad oggetto l'invalidità della delibera assembleare per omessa convocazione del socio, essendo soggetta al regime di sanatoria previsto dall'art. 2379-bis c.c., può essere deferita ad arbitri (Cass. n. 27736/2018; Cass. n. 16265/2013). La controversia avente ad oggetto la legittimità del recesso del socio di s.p.a., coinvolgendo esclusivamente lo status del predetto e il suo diritto, di natura esclusivamente patrimoniale, alla liquidazione del valore delle azioni, attiene a diritti disponibili ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo ad un arbitrato rituale, sia esso di diritto comune che endosocietario (Cass. n. 10399/2018). È pure compromettibile la controversia avente ad oggetto la validità di una delibera assembleare con cui è stata disposta la trasformazione di una società di persone in società di capitali, in quanto non attiene a diritti indisponibili, ma riguarda i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, essendo necessario distinguere la natura inderogabile delle norme, che gli arbitri devono applicare per risolvere la controversia, rispetto alla indisponibilità del diritto controverso (Cass. n. 10433/2022). Secondo un giudice di merito il limite generale tuttora previsto dall'art. 34, comma 1, d.lgs. n. 5/2003 - che circoscrive la compromettibilità statutaria alle sole controversie relative al rapporto sociale che abbiano ad oggetto diritti disponibili - va inteso in senso restrittivo così da escludere dall'area della compromettibilità non tutte le questioni afferenti interessi genericamente superindividuali (e quindi) anche solo sociali o collettivi, ma esclusivamente le controversie relative ad interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (Trib. Napoli 30 ottobre 2020). È inoltre compromettibile in arbitrato l'impugnazione della delibera assembleare di una società a responsabilità limitata per vizi che non coinvolgono interessi di terzi, quali omessa convocazione, genericità dell'ordine del giorno e abuso del diritto di voto (Trib. Milano 26 marzo 2019). Secondo un collegio arbitrale la questione concernente la validità di una clausola statutaria che consenta ad ogni socio di una società per azioni il diritto di recedere ad nutum può essere sottoposta a giudizio arbitrale: infatti i diritti dei terzi creditori sociali non rientrano, in via di principio, nel novero di quelli che possono essere incisi dal suo esercizio, poiché il pregiudizio ipotizzato (consistente nella falcidia della garanzia costituita dal patrimonio netto e financo nella stessa "eliminazione" della società) non può ritenersi conseguenza giuridicamente necessaria e diretta dell'exit (Coll. arb. 30 aprile 2018, in. Giur. It, 2019, 131). Il fatto che l'oggetto sociale della società riguardi la prestazione di servizi pubblici non è di per sé idoneo a connotare nel senso della indisponibilità i diritti patrimoniali connessi al rapporto giuridico (Trib. Milano 18 gennaio 2018). La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società, la quale preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società, alla domanda di accertamento dell'inadempimento dell'amministratore agli obblighi di comunicazione ai soci accomandanti del bilancio e del conto dei profitti e perdite, ai sensi dell'art. 2320, comma 3, c.c., e alla connessa domanda di condanna dell'amministratore al risarcimento del danno ex art. 2395 c.c., rientrando i correlativi diritti nella disponibilità del socio che se ne vanti titolare (Cass. n. 15697/2019). In tema di esclusione del socio dalla società di persone, la presenza nello statuto di una clausola compromissoria, non comporta naturalmente l'attribuzione agli arbitri del potere di decidere l'esclusione del socio, ma solo la devoluzione a questi ultimi della cognizione sulla controversia conseguente all'adozione della delibera di esclusione, poiché la previsione di tale clausola è cosa ben diversa dalla deroga alle disposizioni di legge che, come nel caso dell'art. 2287 c.c., attribuiscono alla maggioranza dei soci determinati poteri nei confronti della minoranza, regolandone l'esercizio (Cass. n. 25927/2022). Pure arbitrabile è la controversia avente ad oggetto l'esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale di una società, poiché relativa a diritti inerenti al rapporto sociale inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio, sicché, nel caso di fallimento della società, la clausola compromissoria statutaria resta opponibile al curatore fallimentare che agisca per l'esecuzione dell'aumento deliberato (Cass. n. 24444/2019, che ha riconosciuto la competenza arbitrale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso su richiesta del curatore dal giudice delegato, ex art. 150 l.fall., nei confronti di un socio della fallita per i versamenti ancora dovuti). Eguali conclusioni sono state raggiunte in relazione ad una controversia avente ad oggetto l'impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno (Cass. n. 17283/2015). Non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale di cui all'art. 2447 c.c., per violazione delle norme sulla redazione della situazione patrimoniale ex art. 2446 c.c., vertendo tale controversia, al pari dell'impugnativa della delibera di approvazione del bilancio per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, su diritti indisponibili, essendo le regole dettate dagli artt. 2446 e 2447 c.c. strumentali alla tutela non solo dell'interesse dei soci ma anche dei terzi (Cass. n. 14665/2019, che ha cassato la sentenza con la quale la Corte di appello aveva ritenuto che la finalità perseguita dall'art. 2446 c.c. fosse differente rispetto a quella sottesa alle norme sulla redazione del bilancio, mirando unicamente a consentire ai soci di conoscere la situazione finanziaria della società, al fine di deliberare consapevolmente). Non è compromettibile neppure la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione. Invero, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili (Cass. n. 20674/2016). L'impugnazione di delibere societarie aventi ad oggetto operazioni sul capitale sociale, per aumento o riduzione, è compromettibile in arbitri allorquando, in ragione della prospettazione offerta dalle parti, la corrispondente controversia non investa, in modo diretto e non semplicemente mediato, gli interessi - dei soci, della società o di terzi ad essa estranei - protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, diversamente finendosi per devolvere agli arbitri diritti (sostanziali) inderogabili protetti da una specifica norma che li regola (Cass. n. 9434/2023). La costituzione del pegno è una pattuizione originariamente esterna all'organizzazione sociale, ma produce i suoi riflessi legali sui diritti e sugli obblighi dei soci; infatti, tra gli effetti del pegno, vi è il riconoscimento ex lege del diritto di voto al creditore pignoratizio, al quale consegue il potere di impugnare le delibere assembleari, a tutela della propria garanzia reale, innanzi a un arbitro unico (Trib. Napoli 15 febbraio 2022). La clausola compromissoriaCome si è avuto modo di osservare in altra parte dell'opera, la clausola compromissoria possiede peculiari caratteristiche, giacché si colloca anzitutto dal versante del diritto sostanziale, quale manifestazione dell'autonomia privata dei contraenti, ma produce effetti processuali. La clausola compromissoria, cioè, è «una clausola (di contenuto processuale), inserita fra le clausole di diritto sostanziale, che formano il contenuto normale del contratto» (Messineo, 417; per la natura sostanziale della clausola v. pure tra gli altri Schizzerotto, 125; Punzi, 319). In giurisprudenza, risale a circa sessant'anni addietro il principio secondo cui la validità del compromesso e della clausola compromissoria che escludano la giurisdizione italiana, per quanto attiene alla forma dell'atto, deve essere giudicata alla stregua della legge del luogo in cui l'atto fu stipulato e non dalla legge italiana. Pertanto deve ritenersi valida la clausola compromissoria contenuta in una polizza di carico stipulata all'estero (Rio Grande, Brasile), la quale deferisca la decisione delle controversie ad arbitri che pronunceranno in altro Stato (nella specie in Inghilterra), e anche se non sia stata espressamente approvata per iscritto, a norma dell'art. 1341 c.c., qualora tale formalità non sia richiesta dall'ordinamento giuridico dello stato in cui l'atto fu compiuto (Cass. S.U., n. 466/1964). Vi si legge la convenzione arbitrale costituisce «negozio tra vivi». Nella stessa prospettiva possono leggersi le decisioni secondo le quali il procedimento arbitrale dettato nella clausola compromissoria non è intaccato da successivi interventi di riforma della pertinente disciplina processuale (Cass. S.U., n. 9284/2016; Cass. S.U., n. 9285/2016; Cass. S.U., n. 9341/2016, le quali, esaminando la questione del regime impugnatorio del lodo reso in base ad una clausola compromissoria antecedente al d.lgs. n. 40/2006, hanno ritenuto l'applicabilità del regime convenzionalmente previsto nella clausola compromissoria; nello stesso senso, in precedenza, Cass. S.U., n. 15608/2001, concernente clausola stipulata anteriormente alla n. 205/2000 che devolveva ad arbitri una controversia tra privato e pubblica amministrazione; ed ancora Cass. n. 13085/2000, concernente abrogazione della disposizione che prevedeva la procedura arbitrale, ove è ribadito che «la regolamentazione di un contratto e i diritti, presenti e futuri, da esso nascenti, devono ritenersi disciplinati, a norma dell'art. 11 preleggi, dalle disposizioni vigenti al momento della conclusione del contratto»). L'esame della materia deve tener conto dell'evoluzione del dato normativo. Il d.lgs. n. 5/2003 le cui disposizioni, limitatamente ad alcuni articoli, sono poi transitate con la riforma c.d. Cartabia nella disciplina del codice di rito, conteneva una regolamentazione limitata a talune regole sulla clausola compromissoria (art. 34), sul procedimento (art. 35) e sull'arbitrato secondo diritto (art. 36), regole poste in deroga all'impianto codicistico, rimasto applicabile nei limiti della compatibilità (art. 1, comma 4). Successivamente la riforma dell'arbitrato di cui al d.lgs. n. 40/2006, ha recepito alcune previsioni introdotte con riguardo all'arbitrato societario, in particolare per quanto concerne l'intervento di terzi nel giudizio arbitrale e la decisione senza autorità di giudicato su questioni non compromettibili: di guisa che la distanza tra l'uno e l'altro arbitrato si è ridotto, sebbene debba riconoscersi che la coesistenza dell'arbitrato societario e di quello riformato nel 2006 non ha mancato di determinare nuovi dubbi derivanti dalla non esatta sovrapponibilità delle disposizioni e al difetto di coordinamento. In tale quadro, il rilievo della clausola compromissoria, nei termini cui si è accennato, è massimo, giacché è proprio la libertà di cui le parti dispongono nel conformare il proprio modello arbitrale a costituire il principale punto di forza dell'arbitrato, consentendo ad esse di stabilire non soltanto quanti debbano essere gli arbitri, ma soprattutto quali competenze professionali essi debbano possedere, entro quanto tempo debbano definire il procedimento, come esso debba svolgersi, e così via. Ciò non esclude, naturalmente, che la materia debba essere governata da alcune regole inderogabili. Così, ad esempio, in materia societaria è lecita la clausola compromissoria che impone agli arbitri di decidere secondo equità, ma la decisione secondo equità è esclusa ove gli arbitri debbano risolvere, sia pur incidentalmente, questioni non compromettibili ovvero se il giudizio abbia ad oggetto la validità di delibere assembleari (art. 36 d.lgs. n. 5/2003; poi art. 838-quater). In tal modo viene preservata l'autonomia delle parti nella massima misura possibile, fatte salve le restrizioni indispensabili. L'art. 35 d.lgs. 5/2003 stabiliva che: «Nel procedimento arbitrale non si applica l'art. 819, comma 1, c.p.c.; tuttavia il lodo è sempre impugnabile, anche in deroga a quanto previsto per l'arbitrato internazionale dall'art. 838 c.p.c., a norma degli art. 829, comma 1, e 831 dello stesso codice». Siffatta limitazione dell'autonomia privata è stata oggetto di critiche, in particolare con riguardo all'arbitrato internazionale, in quanto potenzialmente tale da disincentivare il ricorso all'arbitrato italiano. Ed in effetti l'art. 838-ter non riproduce la previsione. L'area di operatività dell'arbitrato societario è limitata alle controversie su diritti disponibili derivanti dal rapporto sociale nelle società diverse da quelle di cui all'art. 2325-bis c.c. Con riguardo agli artt. 34 ss. d.lgs. n. 5/2003 si è affermata l'idea, sostanzialmente pacifica, della inapplicabilità di essi nei riguardi di clausole compromissorie contenute in patti parasociali o in caso di liti devolute ad arbitri per effetto di compromesso. Altra cosa è poi stabilire se una clausola, tanto se contenuta in uno statuto, tanto se contenuta in un diverso atto ad esso collegato, abbia natura sociale o parasociale. È perlopiù ritenuto, al riguardo, che la natura sociale di una qualsiasi previsione debba essere valutata a seconda che sia diretta a regolare situazioni, azioni, posizioni giuridiche, riferibili alla società o ai componenti di essa come tali, mentre compete natura parasociale ai patti che si esauriscono nel regolare il rapporto tra membri dell'ente, quantunque si tratti di patti comunque concernenti assetti aventi ricadute sulla situazione societaria (Rescio, 596). È cioè consentito a soci di inserire anche nello statuto patti che regolamentano situazioni giuridiche che, pur originate dal contratto sociale, non hanno natura sociale, ma parasociale. È stata così ritenuta valida la pattuizione che preveda la devoluzione ad arbitri anche di ogni controversia tra soci derivante da patti parasociali, inserita in uno statuto di società (Trib. Trieste 6 ottobre 2017). È generalmente riconosciuto che la clausola compromissoria, pur essendo parte del complessivo accordo negoziale che la contiene, possiede ciò nondimeno una sua individualità ed autonomia, testimoniata con evidenza dal precetto dettato all'art. 808, comma 2, c.p.c., secondo il quale: «La validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce». Un qualche rilievo, nello stesso senso, sebbene minore, è riconosciuto anche al comma 1 della stessa disposizione, laddove è stabilito che la clausola compromissoria può constare anche da atto separato (Punzi, 654), previsione, questa, da cui potrebbe desumersi la possibilità che la clausola sia contenuta anche in un atto cronologicamente precedente alla nascita del contratto al quale essa si riferisce (Zucconi Galli Fonseca, 2016, 170). Certo è che la locuzione «clausola compromissoria» è in qualche misura riduttiva, se per clausola si intende un mero tassello, privo di autonomia, del regolamento negoziale (Schizzerotto, 135): la clausola compromissoria ha cioè natura di negozio giuridico a sé stante, quantunque inserito, normalmente anche se non necessariamente, nel contratto al quale si riferisce. La clausola compromissoria manifesta così i caratteri del collegamento negoziale al relativo contratto: collegamento che conserva a ciascuno dei negozi collegati la sua individualità, con la particolarità che la clausola compromissoria rimane indifferente alle vicende del contratto cui si riferisce ai sensi del citato art. 808. Non si esclude, tuttavia, che taluni vizi possano comunicarsi dal contratto alla clausola. In tal senso la SC ha stabilito che la nullità del contratto non travolge la clausola compromissoria in esso contenuta, restando rimesso agli arbitri l'accertamento della dedotta invalidità. Peraltro, tale principio (c.d. dell'autonomia della clausola compromissoria) non si applica nell'ipotesi in cui il contratto cui la clausola accede sia ritenuto non già invalido ma addirittura non perfezionato (non essendosene concluso il procedimento di formazione). Né il giudice della nullità può sindacare il giudizio di merito degli arbitri circa tale perfezionamento (Cass. n. 2147/1995). Nello stesso senso è stato stabilito in tempi più recenti che il principio secondo il quale la clausola compromissoria non costituisce un accessorio del contratto nel quale è inserita, ma ha propria individualità ed autonomia nettamente distinta da quella del contratto cui accede, per cui ad essa non si estendono le cause di invalidità del negozio sostanziale, non trova applicazione nelle ipotesi in cui queste siano esterne al negozio e comuni ad esso e alla clausola. Pertanto, la invalidità dell'atto derivante dal fatto che l'amministrazione non potesse legittimamente stipulare il contratto e, perciò, inserire nello stesso una clausola compromissoria, determina la invalidità anche di questa (Cass. n. 37266/2021). Allo stesso modo il principio secondo il quale la clausola compromissoria non costituisce un accessorio del contratto nel quale è inserita, ma ha propria individualità ed autonomia nettamente distinta da quella del contratto cui accede, per cui ad essa non si estendono le cause di invalidità del negozio sostanziale, non trova applicazione nelle ipotesi in cui queste siano esterne al negozio e comuni ad esso e alla clausola. Pertanto, la invalidità dell'atto di aggiudicazione dell'appalto di un servizio pubblico, la quale esclude che l'amministrazione potesse legittimamente stipulare il contratto con l'apparente aggiudicatario, e perciò inserire nello stesso una clausola compromissoria, determina la invalidità anche di questa (Cass. n. 2529/2005). Ciò detto, merita in questa sede sottolineare che quanto si diceva poc'anzi, laddove si ricordava che per regola generale la clausola compromissoria può risultare da «atto separato» (art. 808), è stato messo in discussione con riguardo al caso della clausola compromissoria di cui all'art. 34 d.lgs. n. 5/2003: detta disposizione, poi transitata nel codice di rito, all'art. 838-bis, stabiliva difatti che: «Gli atti costitutivi delle società … possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale». Chiaro, in tal senso, sarebbe il riferimento, rimasto intatto nell'art. 838-bis, agli «atti costitutivi». Al medesimo risultato condurrebbe l'analisi riferita all'ultimo comma del citato art. 34, così come del corrispondente ultimo comma della disposizione inserita nel codice di rito, secondo cui: «Le modifiche dell'atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso». Sarebbe dunque da credere che la possibilità di inserire la clausola compromissoria in un atto separato sia da escludere nel caso dell'arbitrato societario (Cerrato-Brunelli, 441; contra SALI, 444; Zucconi Galli Fonseca, Art. 34, 2016, 72). Certo è che la clausola compromissoria può trovare ospitalità sia nello statuto, sia in una successiva modifica dello statuto. A tal riguardo occorre rammentare che le modifiche dei patti sociali richiedono un voto maggioritario nelle società di capitali, ed anche nelle società di persone può essere esclusa la necessità dell'unanimità. Il comma 6 dell'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, come pure l'ultimo comma dell'art. 838-bis c.p.c., richiede per l'introduzione o la soppressione della clausola compromissoria il voto favorevole dei due terzi del capitale sociale, con diritto di recesso riconosciuto ai soci «assenti o dissenzienti. Si discute se detto quorum possa essere ulteriormente elevato (lo esclude Nela, 1172; favorevole al riconoscimento della possibilità di innalzare il quorum Zucconi Galli Fonseca, Art. 34, 2016, 118). Quanto alla possibilità di intervenire sulla clausola compromissoria non soltanto introducendola o sopprimendola, ma anche introducendo modificazioni della clausola compromissoria, è stato affermato che nella modificazione non possono essere in ogni caso ricompresi gli interventi diretti ad ampliare o restringere l'area delle liti arbitrabili, giacché simile ipotesi è da ricondurre al caso della introduzione o soppressione di clausola (Coll. arb. 14 marzo 2008, in Riv. arb., 2008, 109). Possono poi darsi modificazioni che non incidono sull'area dell'arbitrabilità, ma sulla disciplina dell'arbitrato, come nel caso, ad esempio, del passaggio da un arbitrato con arbitro unico ad uno con collegio arbitrale: e qui sorge il problema se anche in detta ipotesi debba ritenersi l'applicabilità del diritto di recesso. In caso di modificazioni di consistenza per così dire modesta di una clausola arbitrale introdotta in conformità alla previsione dell'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, modificazione nella specie concernente la sede, è stato escluso che essa possedesse natura innovativa o soppressiva nel senso previsto dalla norma (Coll. arb. 28 ottobre 2010, in Giur. comm., 2012, 825). Soluzione che parrebbe senz'altro condivisibile, ma che non sembra però poter essere generalizzata, ben potendosi immaginare modifiche della disciplina arbitrale, che lascino intatta l'area dell'arbitrabilità, ma posseggano un rilievo tale da consigliarne la sussunzione entro l'ambito di applicabilità dell'ultimo comma dell'odierno art. 838-bis: si immagini l'ipotesi della sostituzione di una clausola compromissoria per arbitrato rituale con una avente ad oggetto un arbitrato irrituale. In tal senso si è detto che l'intervento sulla clausola deve consistere in un cambiamento «significativo» (Trib. Verona 12 aprile 2005). Proseguendo nell'esame dell'ultimo comma dell'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, trasmigrato nell'ultimo comma dell'art. 838-bis c.p.c., occorre soffermarsi sulla sua operatività con riguardo società di persone. Il primo quesito concerne l'applicazione della regola maggioritaria ivi contemplata, dal momento che l'art. 2252 c.c., applicabile alle società in nome collettivo ed a quelle in accomandita semplice in forza dei rinvii contenuti negli artt. 2293 e 2315 c.c., stabilisce che: «Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente». Si è osservato che per la negativa milita una considerazione di carattere sistematico, ossia che la legge, quando ha voluto derogare alla regola dell'unanimità, lo ha fatto espressamente (artt. 2500-ter e 2502 c.c.). D'altronde, l'ultimo comma in esame mira a fissare un quorum più elevato di quello dettato per le modifiche statutarie dagli artt. 2368 ss. e 2479-bis, comma 3, c.c., così da tutelare il socio minoritario, sicché, se si facesse applicazione della medesima disposizione con riguardo alle società di persone si arriverebbe al paradosso di rendere non più difficile, ma più agevole la modificazione-soppressione della clausola ( Luiso , 2006, 562; contra, però, Gabrielli, 93; Zucconi Galli Fonseca 2003, 953). L'art. 2252 c.c. fa però salva la diversa convenzione delle parti, sicché, in tal caso, sembra ragionevole credere che, se essi abbiano convenuto un quorum inferiore a quello dell'art. 34, comma 6, ed oggi dell'art. 838-bis c.p.c., si debba applicare la previsione ivi contenuta, con conseguente operatività del diritto di recesso per i soci assenti o dissenzienti. Ancora un cenno occorre effettuare con riguardo alla necessità che la clausola compromissoria, anche nel caso della clausola di arbitrato societario contenuta nello statuto, rechi la «doppia sottoscrizione» prevista in via generale dagli artt. 1341, comma 2 e 1342, comma 2, c.c., e come tale applicabile anche alla clausola compromissoria. Ma, con riguardo all'inserimento di essa nello statuto vi è da considerare per un verso che la doppia sottoscrizione di cui all'art. 1341 c.c. si applica soltanto alle clausole contenute in «condizioni generali di contratto», ossia in un testo predisposto unilateralmente e «destinato ad essere utilizzato per regolare una serie indefinita di rapporti». In tal senso è agevole rammentare che possono qualificarsi come contratti per adhaesionem, rispetto ai quali sussiste l'esigenza della specifica approvazione scritta delle clausole vessatorie, soltanto quelle strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, mentre non possono ritenersi tali i contratti predisposti da uno dei due contraenti in previsione e con riferimento ad una singola, specifica vicenda negoziale ed a cui l'altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere ed apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto, né, a maggior ragione, quelli in cui il negozio sia stato concluso a seguito e per effetto di trattative svoltesi tra le parti (Cass. n. 2208/2002; più di recente, tra le massimate Cass. n. 6753/2018). Ora non è dubitabile che tale definizione non sia applicabile allo statuto, tanto più che la giurisprudenza esclude in radice l'operatività della norma in caso di contratti stipulati per atto pubblico, tenuto conto del ruolo di garanzia che in tal caso assume il notaio (Cass. S.U., n. 193/1992; Cass. n. 15237/2017; Cass. n. 18917/2004; Cass. n. 15253/2020; Cass. n. 23194/2020). Per altro verso, quanto ai «moduli o formulari» (art. 1342 c.c., che richiama l'art. 1341 c.c.), essi differiscono dalle condizioni generali, nel senso che queste ultime, che sono disposte unilateralmente, non necessariamente regolano il rapporto nella sua interezza, mentre i «moduli o formulari», che non necessariamente sono predisposti da una delle parti, contengono l'intera disciplina del rapporto. Ma anche in questo caso è evidente che la definizione non si attaglia allo statuto. In giurisprudenza è stato dunque stabilito che, con riguardo alla clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, ed al fine della sua operatività nei confronti di chi assuma successivamente la qualità di socio, il requisito della forma scritta resta soddisfatto dalla sottoscrizione, da parte di detto nuovo socio, di un atto con il quale esso affermi di aver preso visione e di accettare il suddetto statuto, tenuto conto della inapplicabilità dell'art. 1341 c.c., sull'esigenza di una specifica approvazione per iscritto della clausola medesima, non vertendosi in ipotesi di condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti, né di contratti conclusi mediante moduli o formulari (Cass. n. 1367/1985; nello stesso senso, in precedenza, Cass. n. 2986/1976, riferita a nuovi soci che aderiscano ad una società già costituita, con ulteriore precisazione, agli effetti dell'inapplicabilità dell'art. 1341, che trattavasi di società cooperativa, ove la parità di posizione dei soci esclude la iniziale contrapposizione di interessi e la posizione preminente di uno dei contraenti rispetto ad altri; sulla stessa fattispecie dell'adesione di nuovi soci Cass. n. 353/1968 e Cass. n. 3505/1969; successivamente Cass. n. 10444/1991, secondo cui la clausola compromissoria può essere validamente contenuta nell'atto costitutivo o nello statuto di una società, anche cooperativa, sicché la medesima è vincolante nei confronti di qualunque soggetto che assuma la qualità di socio successivamente all'acquisto della personalità giuridica da parte della società, senza necessità di un'espressa approvazione scritta ex art. 1341 c.c.; Cass. n. 4351/1993, secondo cui l'efficacia della clausola compromissoria, in quanto clausola vessatoria, è subordinata alla specifica approvazione per iscritto nei soli casi in cui detta clausola sia inserita in contratti con condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti (art. 1341, comma 1, c.c.) ovvero conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari (art. 1342, comma 1, c.c.), non già quando la clausola sia contenuta nello statuto o nel regolamento di un organismo sociale del quale il soggetto entri a far parte). Il contenuto della clausola compromissoriaIniziamo con l'individuazione delle controversie che, nell'arbitrato societario, rientrano nella competenza arbitrale. In materia di arbitrato, in generale, assume rilievo l'art. 808-quater, in forza del quale la clausola deve essere interpretata in senso estensivo, con la conseguenza che, in ipotesi di incertezza, occorre propendere per l'interpretazione che riconduce alla competenza arbitrale tutte le controversie derivanti dal contratto. È dubbio se la stessa norma possa trovare applicazione con riguardo all'arbitrato societario. In un'occasione la S.C. si è cimentata con una controversia che «pur vertendo tra due soci, non riguarda il rapporto sociale, ma solo quello interno tra la fiduciante ed il fiduciario, che costituisce il titolo della domanda proposta dall'attrice ed al quale si riferiscono i provvedimenti da quest'ultima invocati: rispetto a tale rapporto, quello sociale si configura come un mero presupposto, estraneo alla materia del contendere, e quindi inidoneo a giustificare la riconduzione della controversia alla competenza degli arbitri. Correttamente, in proposito, la ricorrente richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la clausola compromissoria contenuta in un contratto non consente di estendere la deroga alla competenza del giudice ordinario ed il deferimento agli arbitri a controversie relative ad altri contratti, ancorché gli stessi risultino collegati a quello principale cui accede la medesima clausola» (Cass. n. 22903/2019, la quale richiama a questo riguardo Cass. n. 941/2017; Cass. n. 2598/2006; Cass. n. 5371/2001). Fatta tale premessa, detta pronuncia ha aggiunto che nessun rilievo «può assumere, in contrario, il canone interpretativo consacrato nell'art. 808-quater c.p.c., che impone, nel dubbio, d'intendere la convenzione d'arbitrato nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce: tale principio, pur costituendo indubbiamente espressione di un favor del legislatore per il ricorso a strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione statale, può infatti consentire, in mancanza di un'espressa manifestazione di volontà contraria, di ampliare l'ambito applicativo di una clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui inerisce la clausola compromissoria, in modo da ricomprendervi tutte le controversie aventi la loro causa petendi nel contratto stesso, ma non anche di estendere la predetta competenza a quelle che in tale contratto hanno unicamente il loro presupposto storico» (Cass. n. 22903/2019, la quale richiama a questo riguardo Cass. n. 20673/2016; Cass. n. 1674/2012). E cioè, la decisione sembra aver ammesso l'applicazione del principio sancito dall'art. 808-quater all'arbitrato societario, fermo restando che, ovviamente, neppure detta norma può comportare l'estensione dell'arbitrato a contratti diversi da quelli cui la clausola compromissoria accede. In senso favorevole all'applicazione dell'art. 808-quater in ambito societario possono richiamarsi le decisioni che hanno esteso l'applicazione della clausola compromissoria anche alle deliberazioni dell'organo amministrativo benché non menzionate. E cioè, in tema di arbitrato societario, l'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003, secondo il quale anche se la clausola compromissoria autorizzi gli arbitri a decidere secondo equità, ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto e con lodo impugnabile, anche a norma dell'art. 829, comma 2, c.p.c., quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari, deve essere interpretato in maniera estensiva, così da comprendere non solo le delibere dell'assemblea dei soci, di cui all'art. 2377 c.c., ma anche le delibere del consiglio di amministrazione, di cui all'art. 2388 c.c., dal momento che entrambe le tipologie di delibere sono impugnabili dal socio davanti all'autorità giudiziaria, in assenza di clausola compromissoria, dovendo ritenersi una diversa e restrittiva interpretazione lesiva dei diritti del socio (Cass. n. 28/2013). Egualmente un giudice di merito ha ritenuto che la domanda del socio di restituzione delle somme erogate alla società a titolo di «finanziamento soci» rientra nell'ambito di applicazione della clausola compromissoria, la quale deferisca in arbitri le controversie insorte «in dipendenza dello statuto» (App. Bologna 26 marzo 2012, che ha osservato quanto segue: «posto che la qualità di socio della… s.r.l.… del C., sia al momento delle operazioni poste a fondamento della domanda sia al momento della proposizione della domanda stessa in via monitoria, non è in discussione (essendo irrilevante il fatto che tale qualità sia successivamente venuta meno), sotto il profilo oggettivo ritiene la Corte che correttamente il Tribunale di Reggia Emilia abbia ritenuto la controversia devoluta alla cognizione arbitrale in quanto insorta "in dipendenza di questo statuto" (i.e. della… s.r.l.…). Il finanziamento (peraltro virtuale) erogato come "finanziamento soci" da parte del C. in favore della… s.r.l. (contestualmente costituita), infatti, è momento essenziale delle articolate operazioni poste in essere dalle parti, riconducibili ad un'operazione di levaraged buy out, intesa come tecnica di acquisizione della partecipazione totalitaria o di controllo di una società di capitali, da parte di altra società di capitali, effettuata mediante il ricorso al capitale di prestito (istituto che ha poi trovato disciplina positiva con l'art. 2501-bis c.c., introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003). L'inscindibile legame di tale operazione di finanziamento con la stessa contestuale costituzione della società… s.r.l., comporta la piena riconducibilità della presente controversia alle controversie sorte tra soci e società "in dipendenza di questo statuto" di cui alla citata clausola compromissoria». Inoltre le impugnazioni di delibere sono state considerate de plano ricomprese nell'area dell'arbitrabilità: «Le ricorrenti sostengono che dalla previsione di cui all'art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003, che stabilisce che se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari gli arbitri possono sospendere gli effetti della delibera impugnata, dovrebbe trarsi la conclusione che le cause promosse ai sensi degli art. 2377 e segg. c.c. non rientrano nella fattispecie generale disciplinata dal 1 comma dell'art. 34 (gli atti costitutivi di società ...possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale); con la conseguenza che, a meno che la clausola statutaria non riproduca pedissequamente la locuzione dell'art. 35 cit., tali cause, che non sorgono in dipendenza dell'attività sociale (di impresa), ma attengono al piano del corretto funzionamento dell'organizzazione societaria, non possono ritenersi comprese fra quelle devolute alla competenza arbitrale. L'assunto non può essere condiviso, atteso che non v'è alcuna argomento (né letterale né, tantomeno, di natura sostanziale) dal quale possa desumersi che il legislatore ha inteso escludere le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari (ovvero proprio quelle tipicamente insorgenti fra la società ed i soci in relazione ai rapporti sociali) dal novero di quelle arbitrabili, ai sensi dell'art. 34 i comma cit., qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili. Al contrario, proprio perché le controversie in questione rientrano indubitabilmente nel perimetro di applicazione dell'art. 34, il legislatore ha ritenuto necessario (in ragione della loro indubbia peculiarità, della necessità di una loro rapida risoluzione e della particolare natura degli interessi coinvolti) assoggettarle ad un'apposita disciplina, attribuendo agli arbitri cui spetta di deciderle, in deroga alla previsione generale, anche il potere (di natura cautelare) di sospendere la delibera impugnata e inoltre specificando, all'art. 36, che la decisione ad esse relativa deve essere assunta secondo diritto anche nel caso in cui la clausola compromissoria disponga diversamente. In tale ottica l'espressione "...ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari', contenuta nell'art. 35, vale dunque ad individuare l'unica ipotesi in cui ricorre una deroga alla regola generale dettata nel primo periodo del medesimo articolo, e non può essere interpretata nel senso indicato dalle ricorrenti, ovvero come volta a stabilire che dette controversie possono essere devolute agli arbitri solo se espressamente menzionate nella clausola compromissoria» (Cass. n. 17283/2015). Merita ancora richiamare la pronuncia secondo cui la clausola compromissoria, in mancanza di espressa volontà contraria, deve essere interpretata nel senso di ascrivere alla competenza arbitrale tutte le controversie che si riferiscono a pretese aventi la causa petendi nello statuto o nell'atto costitutivo della società in cui detta clausola è annessa; pertanto, essa deve ritenersi estesa deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società e la liquidazione della quota sociale (Cass. n. 24247/2020). Ancora, la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società, la quale preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società, alla domanda di accertamento dell'inadempimento dell'amministratore agli obblighi di comunicazione ai soci accomandanti del bilancio e del conto dei profitti e perdite, ai sensi dell'art. 2320, comma 3, c.c., e alla connessa domanda di condanna dell'amministratore al risarcimento del danno ex art. 2395 c.c., rientrando i correlativi diritti nella disponibilità del socio che se ne vanti titolare (Cass. n. 15697/2019). Ciò detto, quale che sia la soluzione adottata sulla questione dell'applicabilità dell'art. 808 quater all'arbitrato societario, sta di fatto che l'art. 34 d.lgs. n. 5/2003 stabiliva che gli atti costitutivi «possono … prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale», e che l'art. 838-bis reca una previsione del medesimo tenore. Il dato normativo lascia dunque desumere che l'affidamento della controversia agli arbitri debba essere espressamente prevista, circostanza che comunque limita l'impatto nella materia del principio sancito dall'art. 808-quater. In tale prospettiva è stata esclusa l'arbitrabilità dell'azione sociale di responsabilità in società a responsabilità limitata sul rilievo che la clausola faceva riferimento alle liti «promosse da» organi sociali e non «contro». Si è detto cioè che la clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo di una società, che prevede la possibilità di deferire agli arbitri le controversie tra i soci, quelle tra la società e i soci nonché quelle promosse dagli amministratori e dai sindaci, in dipendenza di affari sociali o dell'interpretazione o esecuzione dello statuto sociale, non include anche l'azione di responsabilità ex art. 2476 c.c. promossa dal socio nei confronti dell'amministratore, non rilevando che quest'ultimo sia anche socio della società (Cass. n. 12333/2012; il principio è stato poi ribadito negli identici termini da Cass. n. 33149/2022). Nella giurisprudenza di merito, sulla scorta di un analogo ragionamento, è stato escluso che la clausola compromissoria riferita alle liti fra soci ed a quelle fra soci e società vincolasse gli amministratori (Trib. Trento 3 maggio 2012; Trib. Milano 11 maggio 2018), ovvero che l nei confronti della società (Trib. Milano 20 ottobre 2014). È stato però affermato che rientra nella competenza arbitrale l'azione di responsabilità esercitata nei confronti del socio amministratore di s.r.l. receduto a causa della soppressione della clausola compromissoria statutaria (Trib. Milano 19 novembre 2020). Può qui ancora rammentarsi che, qualora la clausola compromissoria contenuta nello statuto della società devolva alla cognizione arbitrale ogni controversia promossa nei confronti degli amministratori, sindaci e liquidatori che abbia ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, nella competenza degli arbitri rientrano anche le controversie risarcitorie promosse nei confronti del c.d. amministratore di fatto (Trib. Roma 10 settembre 2014; nello stesso senso Trib. Milano 1° luglio 2010). Attiene al rapporto sociale anche la domanda proposta dal socio fideiussore che lamenti di aver subito un'ingiusta escussione della garanzia personale in conseguenza dell'insufficienza del patrimonio sociale provocata da atti di mala gestio dell'amministratore (Trib. Milano 13 febbraio 2009). Un fugace accenno va fatto alla previsione statutaria di clausole c.d. unilaterali, ammesse dalla dottrina, clausole le quali consentono ad una parte esplicitamente individuata in contratto, o altrimenti a quella parte che agisca per prima, di scegliere se dar corso al giudizio arbitrale oppure adire il giudice ordinario (Martinetti, 331). Grande rilievo rivestiva la previsione già contenuta nell'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, la quale imponeva che la clausola compromissoria attribuisse «in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società». Egualmente l'art. 838-bis, comma 2, stabilisce oggi che: «La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Se il soggetto designato non provvede, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale». Ad esempio, è stato detto che è invalida, in quanto carente del requisito richiesto dall'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003 relativo alla estraneità rispetto alla società del soggetto preposto alla nomina dell'arbitro, la clausola compromissoria societaria indicante un soggetto non esistente e quindi indeterminato (Trib. Milano 11 febbraio 2020). Vale osservare che la S.C. ha più volte giudicato nulla, dopo l'entrata in vigore del citato art. 34, la clausola che assegnava alle parti la facoltà di nomina di un arbitro e, in caso di disaccordo, al presidente del tribunale, disattendendo la tesi del c.d. «doppio binario», secondo cui l'arbitrato previsto da preesistenti clausole contrastanti con il dato normativo si convertirebbe da arbitrato endosocietario in arbitrato di diritto comune. A tale riguardo è stato osservato «che essa è in contrasto con il più recente, ma consolidato, orientamento di questa Corte, cui questo collegio ritiene di aderire, secondo cui la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società è nulla anche ove si tratti di arbitrato irrituale, ed è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del citato d.lgs. 5 del 2003 da nullità sopravvenuta rilevabile d'ufficio… Questa Corte ha infatti affermato che non può accettarsi la tesi del c.d. doppio binario … dal momento che la nullità comminata dall'art. 34 è volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione… Del pari infondata la dedotta irretroattività del divieto posto dall'art. 34 d.lgs. n. 5/03. È infatti vero che l'art. 41 d.lgs. n. 5/2003 rende inapplicabile la nuova normativa processuale ai giudizi pendenti, ma nella specie, trattandosi, pacificamente, di clausola di arbitralo irrituale, non si tratta di tale ipotesi, bensì del compimento di un'attività negoziale che, dal momento dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5/03, risulta inficiata da nullità, per contrarietà ad una norma imperativa sopravvenuta … dunque, la norma dell'art. 41 d.lgs. n. 5/2003 , seppure formulata con riferimento ai giudizi pendenti, è intesa a far salvi gli eventuali giudizi arbitrali, in corso alla data di entrata in vigore della normativa, ma non già gli effetti della clausola arbitrale preesistente, che costituisce negozio e non già atto processuale … Trova invece applicazione nel caso di specie il principio, più volte espresso … secondo il quale, qualora nel corso di esecuzione di un rapporto sopravvenga una norma che sancisce la nullità del contratto o di una clausola dello stesso, la sanzione di nullità incide sul rapporto, non consentendo la produzione di ulteriori effetti … Va dunque richiamato il principio della rilevabilità dello ius superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in corso, con l'unica preclusione derivante dalla formazione del giudicato interno in relazione alle questioni su cui avrebbe dovuto incidere la normativa sopravvenuta … Tale conclusione non contrasta con la disposizione transitoria, contenuta nell'art. 223-bis disp. att. c.c., in forza della quale le società di capitali avrebbero dovuto uniformare l'atto costitutivo e lo statuto alle nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004. … la previsione dell'ulteriore termine (del 30 settembre 2004) per l'adeguamento dello statuto, non appare idoneo ad attribuire ultrattività, oltre tale data, alle clausole contrarie al disposto dell'art. 34, comma 2, d. lgs. n. 5, cit. ed ai loro effetti, e dunque agli eventuali procedimenti per arbitrato irrituale instaurati in forza di esse (a differenza dei giudizi per arbitrato rituale pendenti, aventi natura processuale, in forza del disposto dell'art. 41 d.lgs. n. 5/03). Considerata la già rilevata natura contrattuale della clausola per arbitrato irrituale contenuta nello statuto della… srl, la sopravvenuta nullità della stessa, per contrarietà con norma imperativa, a far data dal 1 gennaio 2004, non può che comportare, da tale data, la cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, la quale, ove pure adita, come nel caso di specie, in data anteriore all'entrata in vigore di detta norma imperativa, non può declinare la propria cognizione, essendo venuta meno la possibilità di devoluzione della controversia ad arbitri, in conseguenza della sopravvenuta inefficacia della clausola che tale devoluzione prevedeva. Il venir meno di tale clausola, infatti, se travolge l'eventuale attività che in essa trovi fondamento, come il lodo per arbitrato irrituale pronunciato dopo il 1° gennaio 2004, ancorché instaurato anteriormente…, a maggior ragione impedisce, dopo tale data, la stessa instaurazione del procedimento arbitrale, su detta clausola fondato» (Cass. n. 19075/2015). Più di recente, nello stesso senso si è pronunciata una decisione che esamina ulteriori nodi problematici della questione: «Come rilevato dalla sentenza impugnata, l'art. 14 dell'atto costitutivo … stipulato il 25 luglio 2000, prevede che “qualunque controversia dovesse insorgere tra i soci o fra alcuni di essi, i loro eredi e la società, circa l'interpretazione ed esecuzione di questo contratto, sarà rimessa al giudizio di tre arbitri amichevoli compositori, due dei quali da nominarsi da ciascuna delle parti contendenti ed il terzo dai due arbitri così eletti, o in mancanza di accordo dal presidente del tribunale di Milano. Gli arbitri giudicheranno ex bono et aequo”. In quanto recante l'attribuzione alle parti del potere di nomina degli arbitri, la predetta clausola si pone in contrasto con il disposto dell'art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, il quale, nel prevedere che “gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'art. 2325-bis c.c., possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale” (comma primo), stabilisce espressamente che “la clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale” (comma secondo). Com'è noto, la formulazione inequivoca della norma, recante l'espressa previsione di nullità delle clausole che non attribuiscano il potere di nomina di tutti gli arbitri a un soggetto estraneo alla società, ha indotto questa Corte a riconoscerne l'inderogabilità, confermata peraltro dalla rubrica del successivo art. 35, riguardante la disciplina del procedimento. In quest'ottica, è stata altresì esclusa la possibilità di una conversione della clausola compromissoria nulla da clausola per arbitrato endosocietario in clausola arbitrale di diritto comune (c.d. teoria del doppio binario): si è infatti osservato che, in quanto volta a consolidare l'indipendenza degli arbitri, attraverso la previsione della terzietà del designatore, la norma in esame mira ad assicurare l'imparzialità della decisione, rispondente a un principio di ordine pubblico, reputandosi irrilevante, in contrario, l'allusione alla mera possibilità del ricorso all'arbitrato, contenuta nell'art. 34, comma primo, la quale si riferisce non già alla scelta tra l'arbitrato di diritto comune e quello previsto dalla medesima norma, ma a quella tra il ricorso all'arbitrato previsto dalla stessa norma e il ricorso al giudice ordinario (cfr. Cass. n. 17287/2012; Cass. n. 24867/2010). L'operatività dei predetti principi non può ritenersi esclusa, nel caso di specie, per effetto dell'avvenuta qualificazione dell'arbitrato come arbitrato irrituale, essendo stato precisato che l'art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003 trova applicazione anche all'arbitrato irrituale, in considerazione non solo dell'attenuazione della distinzione di tale figura da quella dell'arbitrato rituale, emergente dal più recente indirizzo normativo, ma anche dello specifico riferimento all'arbitrato irrituale contenuto nell'art. 35, comma quinto, del d.lgs. n. 5. È stato infine precisato che, in riferimento alle società di persone, la norma in esame trova applicazione fin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, non operando, rispetto a tali società, le disposizioni di cui agli artt. 223-bis e 223-terdecies disp. att. c.c., riguardanti le sole società negli stessi specificamente indicate, né il comma sesto dell'art. 34, che si riferisce alle sole clausole previste dalla nuova legge: si è pertanto concluso che, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, che non rimetta la nomina degli arbitri ad un soggetto estraneo alla società, deve ritenersi affetta da nullità sopravvenuta, rilevabile anche d'ufficio, la quale ne comporta l'inefficacia, escludendo quindi la facoltà di promuovere il procedimento arbitrale ed imponendo d'introdurre le controversie dinanzi al giudice ordinario (cfr. Cass. n. 16556/2020; Cass. n. 15841/2015; Cass. n. 3665/2014). La predetta inefficacia, predicabile anche in riferimento alla clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo …, stipulato in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, non è stata tenuta in conto dalla sentenza impugnata, la quale, nell'escludere la proponibilità della domanda dinanzi al giudice ordinario, si è limitata a richiamare la disciplina transitoria dettata dal d.lgs. n. 40 del 2006, la cui entrata in vigore non ha tuttavia comportato il superamento di quella relativa all'arbitrato societario, cui occorreva dunque fare riferimento ai fini della valutazione della validità della clausola in esame. Nessun rilievo può assumere, in contrario, la circostanza, fatta valere dalla difesa della controricorrente, che il ricorrente avesse esercitato il diritto di recesso dalla società, già in epoca anteriore alla pubblicazione della sentenza di primo grado, non risultando tale circostanza idonea ad escludere né l'operatività della clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo della società, applicabile a tutte le controversie tra i soci e tra gli stessi e la società che traggano origine da rapporti instaurati durante societate, anche se promosse successivamente alla perdita della qualità di socio (cfr. Cass. n. 15697/2019; Cass. n. 22303/2013), né la soggezione della predetta clausola alla disciplina normativa ad essa relativa, la cui applicazione d'altronde conduce, nella specie, non già al riconoscimento, ma all'esclusione della competenza degli arbitri, in contrasto con l'intento perseguito dalla controricorrente attraverso il predetto rilievo» (Cass. n. 26784/2023). Sullo stesso tema sia ulteriormente precisato che la clausola compromissoria inserita nello statuto sociale che preveda la nomina degli arbitri ad opera dei soci è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, da nullità sopravvenuta rilevabile d'ufficio, con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario. Il fondamento della nullità, rilevabile d'ufficio, è individuato nello scopo di garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione. Dunque nell'ipotesi di clausola compromissoria che riservi il potere di nomina degli arbitri a soggetto non estraneo alla società, la competenza del giudice è inderogabile (Cass. n. 22764/2022). Per converso la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario che, adeguandosi alla prescrizione posta dall'art. 34, comma 2, d.lgs. n. 5/2003, prevede che la nomina degli arbitri sia effettuata da un soggetto estraneo alla società è valida anche ove si tratti di arbitrato irrituale, posto che l'unico limite al ricorso ad una clausola compromissoria nelle controversie societarie riposa non già sulla natura dell'arbitrato, ma sull'oggetto della controversia che non deve riguardare materie indisponibili, come nelle ipotesi di veridicità e regolarità dei bilanci, ovvero di riduzione del capitale per perdite ovvero ancora nelle ipotesi nelle quali è previsto l'intervento obbligatorio del p.m. La circostanza che tra le disposizioni di carattere processuale dettate dagli artt. 34-36, d.lgs. n. 5/2003 ve ne siano alcune ritenute applicabili al solo arbitrato rituale (intervento del terzo; estensione degli effetti del lodo a terzi estranei all'arbitrato; etc.) non vale ad escludere, invece, in termini generali, la validità di una clausola compromissoria statutaria per arbitrato irrituale, posto che in tale ipotesi dette disposizioni non verrebbero semplicemente applicate (Cass. n. 4335/2022). È superfluo rammentare che la previsione di cui ci stiamo occupando, concernente l'affidamento della nomina degli arbitri ad un soggetto estraneo alla società, e come tale in posizione di totale terzietà, non è esportabile nel campo dell'arbitrato di diritto comune. Stante la non applicabilità all'arbitrato di diritto comune della disciplina dettata per l'arbitrato societario, deve ritenersi che, al di fuori delle limitate ipotesi in cui si traduca nella violazione del principio secondo cui il meccanismo di designazione degli arbitri deve costituire espressione della volontà di tutti i contendenti, l'affidamento della nomina ad un terzo non estraneo alle parti non comporta la nullità del compromesso o della clausola compromissoria, restando la posizione di terzietà ed imparzialità degli arbitri garantita dall'operatività dell'istituto della ricusazione, come disciplinato dall'art. 815 c.p.c. E cioè la disciplina dettata dall'art. 34 citato per l'arbitrato societario risulta indubbiamente più rigorosa rispetto al diritto comune, non limitandosi a prescrivere che la clausola compromissoria preveda il numero e le modalità di nomina degli arbitri di competenza delle parti, ma disponendo, a pena di nullità, che, nel caso in cui la designazione sia demandata ad un terzo, quest'ultimo debba essere un soggetto estraneo alla società; trattasi però di disciplina speciale che non è consentito estendere all'arbitrato disciplinato dal codice di rito, il quale prevede che nell' ipotesi in cui la clausola compromissoria si traduca nella violazione del principio secondo cui il meccanismo di designazione degli arbitri deve costituire espressione della volontà di tutti i contendenti, l'affidamento della nomina ad un terzo non estraneo alle parti non comporta la nullità del compromesso o della clausola compromissoria, restando la posizione di terzietà ed imparzialità degli arbitri garantita dall'operatività dell'istituto della ricusazione, come disciplinato dall'art. 815 c.p.c. (Cass. n. 24462/2021, che ha escluso la nullità della clausola compromissoria, la quale prevedeva che il terzo arbitro fosse nominato dal Presidente dell'ABI, associazione cui aderiva anche la banca parte della controversia). Ciò detto, è da ritenere che la clausola compromissoria inserita nello statuto possa senz'altro indicare come incaricato della designazione non solo una persona fisica o giuridica, ovvero un ente specificamente individuato, ma anche un soggetto individuato in ragione della sua carica altresì attraverso l'indicazione dell'organo al quale la persona è addetta. A tale conclusione si perviene in particolare valorizzando la locuzione, già ricordata, «soggetto estraneo alla società», formula che consente di ricomprendere nella nozione, come si è detto, non solo le persone fisiche ma anche altri soggetti (Sanzo, 2987). Nella stessa prospettiva si è detto, nella giurisprudenza di merito, che, con riferimento ad un ente o ad una persona giuridica, il requisito di «estraneità» rispetto alla società che deve caratterizzare il soggetto investito del potere di designare gli arbitri ai sensi dell'art. 34, comma 2, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, è idoneo e sufficiente quando il designatore sia individuato con riferimento ad un soggetto investito di una determinata carica (Trib. Milano 18 luglio 2005, concernente clausola arbitrale endosocietaria che indicava come soggetto competente alla designazione di un arbitro il presidente pro tempore di un sindacato di categoria al quale aderiva la società e dei cui organi era parte o aveva fatto parte uno dei soci ed amministratore unico della società). Tale decisione consente una riflessione ulteriore sul requisito della estraneità che emerge dalla locuzione poc'anzi ricordata. Si è osservato che «il concetto di estraneità del designatore non possa essere dilatato fino ad una sorta di neutralità ideologica, difficilmente riconoscibile ed eccessivamente enfatizzante il ruolo che è pur sempre quello di mero designatore, mentre a presidio della indipendenza ed imparzialità dell'arbitro vigono le regole di astensione/ricusazione ex art. 51 c.p.c. richiamato dall'art. 815 c.p.c.» (Trib. Milano 18 luglio 2005, concernente clausola compromissoria che attribuiva la designazione di uno degli arbitri al presidente di un'associazione di categoria al quale la società era iscritta, con ulteriori particolarità sulle quali non è utile indugiare; la medesima considerazione sulla ricusazione, con riguardo all'arbitrato di diritto comune, si trova effettuata da Cass. n. 24462/2021). Vale osservare che l'espressione «neutralità ideologica» richiama lo scritto di un autore (LUISO, 2003, 714) secondo cui il designatore dovrebbe essere «privo di qualsiasi rapporto di natura tale da mettere in pericolo l'equidistanza». Ma si tratta di una lettura eccessivamente rigida, la quale comporta per di più il concreto rischio di vedere attaccate clausole compromissorie ad opera di quella parte che abbia preferenza per il c.d. Italian torpedo, il giudizio civile ordinario la cui lunghezza è proverbiale, di cui si è detto in precedenza. La norma, sia nel testo dettato dall'abrogato art. 34, sia in quello contenuto nell'art. 838-bis, non fissa criteri di scelta degli arbitri. È però ben possibile che la clausola compromissoria intervenga sul punto, stabilendo i requisiti che gli arbitri devono possedere, nel qual caso il designatore vi si dovrà attenere. A tal riguardo bisogna ricordare che l'inosservanza dei criteri concernenti i requisiti degli arbitri è causa di ricusazione dei medesimi, in forza dell'art. 815, n. 1, secondo cui l'arbitro può essere ricusato «se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti». È poi da ritenere che la violazione di detti criteri possa assumere rilievo, se fatta valere tempestivamente in sede arbitrale, anche in sede di impugnazione per nullità del lodo, avuto riguardo al precetto dell'art. 829, comma 1 e 2, ed in particolare all'inosservanza delle forme e dei modi prescritti per la nomina degli arbitri. Sempre in tema di contenuto delle clausole arbitrali, è il momento di soffermarsi sull'ammissibilità, nel campo dell'arbitrato societario, del modello di arbitrato irrituale. L'ammissibilità dell'arbitrato endosocietario irrituale è difatti discussa. In un caso in cui era dedotta la nullità di una clausola di arbitrato societario per arbitrato irrituale, nullità dovuta alla circostanza che la nomina era affidata ad un soggetto non estraneo, la S.C. ha ricordato il proprio orientamento univocamente orientato «nel senso che “la norma dell'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, contempla l'unica ipotesi di clausola compromissoria che possa essere introdotta negli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'art. 2325-bis c.c., restando escluso il ricorso in via alternativa od aggiuntiva alla clausola compromissoria di diritto comune prevista dall'art. 808 c.p.c.” (Cass. n. 15892/2011; Cass. n. 17287/2012; Cass. n. 15892/2011). Sicché “la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla anche ove si tratti di arbitrato irrituale” (Cass. n. 3665/2014); “con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario” (Cass. n. 3665/2014; Cass. n. 15892/2011). E contrariamente a quanto sostiene la controricorrente, questo principio è applicabile anche agli arbitrati irrituali (Cass. 15841/2015; Cass. n. 3665/2014)» (Cass. n. 22008/2015). In un'altra decisione già ricordata in precedenza si trova sottolineato che l'art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003 è stato ritenuto applicabile anche all'arbitrato irrituale in considerazione: i) dell'attenuazione della distinzione di tale figura da quella dell'arbitrato rituale emergente dal più recente indirizzo normativo, i.e. dalla previsione dell'art. 808-ter; ii) dello specifico riferimento all'arbitrato irrituale contenuto nell'art. 35, comma 5. (Cass. n. 26784/2023). Con riguardo complessiva riconduzione del fenomeno arbitrale, ivi compreso l'arbitrato irrituale, a seguito dell'introduzione dell'art. 808-ter, all'esercizio della giurisdizione si è osservato che detta norma «con la riforma di cui al d.l. 2 febbraio 2006, ha codificato l'istituto dell'arbitrato irrituale, tanto che l'aggettivo “irrituale” ha perso parte del suo significato originario. Si è, dunque, evidenziato in dottrina che, dopo la riforma, la giurisprudenza tende ad assimilare le due forme di arbitrato quanto alla natura privata, chiarendo in particolare che la differenza tra l'uno e l'altro tipo di arbitrato non può incentrarsi sul rilievo che solo con l'arbitrato rituale le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, bensì nel fatto che, nell'arbitrato rituale, le parti vogliono un lodo con idoneità esecutiva, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare agli arbitri la soluzione di controversie mediante un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse» (Cass. 25927/2022). Sembra che al medesimo risultato possa pervenirsi anche muovendo dal precetto dettato dall'art. 838-ter, secondo cui: «Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell'art. 829, comma 3, quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari». E cioè, la decisione secondo diritto e con lodo impugnabile anche a norma dell'art. 829, comma 3, a mente del quale: «L'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. È ammessa in ogni caso l'impugnazione delle decisioni per contrarietà all'ordine pubblico». Altra cosa è la valutazione di opportunità di ricorrere in ambito statutario ad una previsione di arbitrato irrituale, dal momento che buona parte delle disposizioni procedurali previste olim dagli artt. 34 ss. ed oggi dagli artt. 838-bis ss. appaiono pensate per l'arbitrato rituale, con conseguente difficoltà applicativa in caso di scelta dell'altro strumento, e che proprio la previsione dell'art. 838-ter impone poi la non necessariamente facile opera di sceverare quando debbano decidere secondo diritto e quando secondo equità. Come si sa, prima della riforma dell'arbitrato effettuata nel 2006, l'art. 829, comma 2, prevedeva in via generale l'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto applicabili al merito della controversia, ma consentiva la deroga di detta previsione per volontà delle parti. Dopo la riforma, l'art. 829, comma 3 e 4, ha ribaltato la previsione, prevedendo l'impugnabilità del lodo «per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia» solo in caso di espressa volontà delle parti in tal senso. Ne discende che, fatti salvi i casi della contrarietà all'ordine pubblico (art. 829, comma 3), della cognizione di questioni non compromettibili e di controversia sulla validità di delibere assembleari, il lodo arbitrale non è mai impugnabile per violazione di norme sostanziali, se le parti non abbiano disposto in tal senso. In effetti, sembra che la previsione attuale abbia una sua precisa logica, giacché prevedere in via generale l'impugnabilità del lodo significa subordinare la decisione arbitrale a quella del giudice ordinario ed in fin dei conti incanalare anche il procedimento arbitrale in quello ordinario, con tutto ciò che ne deriva in ordine alla profonda differenza tra l'uno nell'altro. Che tale fosse la preoccupazione del legislatore sembra possa desumersi anche dalla previsione di un'ipotesi in cui la corte d'appello, effettuato il proprio giudizio rescindente in sede di impugnazione per nullità, per alcuni dei motivi previsti dall'art. 829, deve poi arrestarsi per rimettere gli atti al collegio arbitrale. E cioè, secondo l'art. 830, comma 2: «Se il lodo è annullato per i motivi di cui all'art. 829, comma 1, n. 5), 6), 7), 8), 9), 11) o 12), 2, 4o 5, la corte d'appello decide la controversia nel merito salvo che le parti non abbiano stabilito diversamente nella convenzione di arbitrato o con accordo successivo». Ma, secondo quanto stabilisce il comma 3 della stessa disposizione: «Quando la corte d'appello non decide nel merito, alla controversia si applica la convenzione di arbitrato, salvo che la nullità dipenda dalla sua invalidità o inefficacia». E cioè si verifica in tal caso un fenomeno, che non è questa la sede per approfondire, di translatio della lite dalla corte d'appello al collegio arbitrale. Tutto ciò impone un'adeguata riflessione al momento della adozione della clausola, giacché, optando per l'adesione al modello normativo, si ottiene il vantaggio di una decisione tendenzialmente definitiva, eccettuato il controllo sugli errores in procedendo previsto dall'art. 829, ma ci si sottopone al rischio di dover sottostare ad una decisione sostanzialmente sbagliata; optando per l'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto attinenti al merito della controversia, viceversa, ci si espone al rischio di un primo grado di giudizio, quello arbitrale, che può venir completamente rifatto dinanzi al giudice ordinario, in sede di impugnazione per nullità. Il procedimento arbitraleL'arbitrato societario si caratterizza, quanto al procedimento, per una disciplina ad esso specificamente destinata, parametrata alle peculiari esigenze che contraddistinguono la materia, regole per lo più introdotte nell'art. 35 d.lgs. 5/2003, e quindi transitate nell'art. 838-ter. D'altro canto, dette regole, per la loro incompletezza, certo non disciplinano l'intero campo del procedimento arbitrale, e dunque non sostituiscono l'intero complesso normativo previsto negli art. 816 ss. c.p.c., che restano applicabili, ove non derogati (Biavati 2016, 149, secondo cui la previsione specificamente concernenti l'arbitrato societario dovrebbero essere assoggettate ad un criterio restrittivo di interpretazione). In altri termini, la ricostruzione della disciplina applicabile al procedimento per arbitrato societario va effettuata nella prospettiva della integrazione di essa con quella dettata per l'arbitrato diritto comune, se del caso ? è stato detto ? attraverso l'impiego degli strumenti dell'interpretazione estensiva o analogica (Tamponi, 544: ma l'esigenza di giustificare l'applicazione all'arbitrato societario di disposizioni mutuate dall'arbitrato di diritto comune sembra ormai svanita, dal momento che, come tra breve si ripeterà, l'arbitrato societario è oggi organicamente integrato nella disciplina dell'arbitrato dettata dagli artt. 806 ss.). E cioè, occorre ricorrere alle previsioni concernenti l'arbitrato di diritto comune, ad esempio, e limitando il richiamo alle sole norme concernenti la posizione degli arbitri, per la sostituzione degli arbitri (art. 811), per l'accettazione dell'incarico da parte loro (art. 813), per la decadenza degli arbitri (art. 813-bis), per la responsabilità degli arbitri (art, 813-ter), per i diritti degli arbitri (art. 814), per la ricusazione degli arbitri (art. 815), per l'anticipazione delle spese (art. 816-septies). Eguali considerazioni possono svolgersi, sempre a titolo di esempio, per quanto attiene al momento della deliberazione e redazione del lodo. Né a conclusioni diverse può aggiungersi in considerazione della circostanza che l'art. 838-ter, come il precedente art. 35, contiene un richiamo all'art. 820. Del resto, un ulteriore agevole osservazione, per quanto attiene all'integrazione, diremo all'osmosi, tra le due discipline concerne l'estensione che alcune regole già introdotte con riguardo all'arbitrato societario hanno avuto nel corso del tempo nell'ambito dell'arbitrato di diritto comune, basti pensare alla disciplina dell'intervento e chiamata in causa. Ma la considerazione di chiusura, al medesimo riguardo, sta proprio nell'intervento operato con la riforma c.d. Cartabia, che ha organicamente introdotto la disciplina dell'arbitrato societario nell'ambito di quella dell'arbitrato in generale. In caso di arbitrato societario, dunque, le parti, una volta scelta la soluzione arbitrale della controversia, devono sottostare a talune regole procedurali dettate allo scopo, le quali, com'è stato detto, «danno luogo a un blocco, rispetto al quale la scelta delle parti (che dovrà essere ben soppesata al momento di introdurre o no una clausola compromissoria statutaria) si riduce ad un semplice prendere o lasciare» (Biavati 2016, 150). Quanto si è appena detto in ordine all'esigenza di far ricorso alla disciplina dell'arbitrato di diritto comune, in materia di arbitrato societario, trova riscontro già con riguardo al momento dell'introduzione del procedimento. In proposito le norme dettate per l'arbitrato societario si limitano ad imporre il deposito della domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto e l'accessibilità di essa ai soci, tema di cui si dirà più avanti. Per il resto, in parallelo con la disciplina dell'arbitrato di diritto comune, l'introduzione del giudizio di arbitrato societario che richiede il compimento di due atti concettualmente distinti, quantunque sia ben possibile che essi vengano cumulati: da un lato l'istanza rivolta al soggetto estraneo alla società, cui si riferisce l'art. 838-bis, comma2, affinché provveda alla nomina degli arbitri, dall'altro lato domanda arbitrale rivolta, ovviamente, alla società o al socio verso il quale la domanda è indirizzata (Salvaneschi, 250). Quanto all'istanza volta alla nomina degli arbitri, è da credere che essa proverrà normalmente dall'attore in arbitrato, ma il dato normativo tace sul punto: e, ove si consideri che il dovere del terzo estraneo di provvedere alla nomina degli arbitri si concretizza per il fatto che sia stata introdotta la domanda arbitrale, ben può accadere che l'istanza in questione venga proposta dalla parte convenuta in arbitrato. Sembra, dunque, in tale prospettiva, che la domanda di arbitrato debba precedere l'istanza rivolta al terzo estraneo alla società: non soltanto perché in mancanza della domanda di arbitrato il dovere del terzo di nominare gli arbitri neppure diviene attuale, ma anche perché, a quanto pare ragionevole ritenere, questi non deve procedere alla nomina «al buio», ma deve poter selezionare gli arbitri anche considerando il contenuto della controversia. A tal riguardo nella giurisprudenza di merito è stato affermato che, in difetto previsione pattizia, la nomina dell'arbitro da parte del terzo, pur non essendo espressamente collegata all'instaurazione del procedimento, e cioè all'introduzione della domanda di arbitrato, si colloca logicamente in un momento successivo ad essa, dal momento che presuppone l'individuazione dell'oggetto dell'arbitrato, che è condizionata proprio dalla domanda e dall'eventuale replica (Trib. Verona 12 aprile 2005). Quanto alla vera e propria domanda di arbitrato, gli art. 838-bis e 838-ter nulla dicono. Sulla materia è intervenuta la riforma c.d. Cartabia con un'introduzione dell'art. 816-bis.1, intitolato appunto alla: «Domanda di arbitrato». Ma, come si è avuto modo di osservare a commento di tale disposizione, neppure essa identifica i requisiti di contenuto-forma della domanda arbitrale: non vi è, cioè, per la domanda arbitrale una disposizione sovrapponibile all'art. 163, dal quale potranno peraltro trarsi indicazioni anche per la formulazione dell'atto contenente la domanda arbitrale. È poi possibile che la clausola compromissoria, in applicazione della regola contenuta nell'art. 816-bis, indichi requisiti richiesti a pena di nullità, la cui eventuale inosservanza potrà essere fatta valere nel giudizio arbitrale e, successivamente, a mezzo dell'impugnazione per nullità, secondo l'art. 829, n. 7. Certo è che, sul piano contenutistico, l'atto introduttivo del giudizio arbitrale esige che sia identificabile l'oggetto della domanda e, naturalmente, deve contenere la manifestazione di volontà volta a promuovere il procedimento, con le relative conclusioni. Ma, come si diceva, nulla osta a che nel medesimo atto sia contenuta tanto la domanda arbitrale quanto la richiesta di nomina degli arbitri, nel qual caso l'atto va portato a conoscenza sia dei convenuti che del terzo estraneo alla società. Nulla dispone la disciplina dell'arbitrato societario, sulle modalità con cui i menzionati atti vanno portati a conoscenza dei destinatari. Occorre al riguardo fa riferimento anzitutto all'eventuale volontà delle parti, dal momento che la clausola compromissoria potrebbe aver previsto che la domanda di arbitrato debba essere portata a conoscenza della controparte in una determinata forma, ad esempio a mezzo di pec. Diversamente, è stato ritenuto che occorra la notificazione della domanda di arbitrato, con la possibilità della notificazione di una replica da parte de destinatario nei 20 giorni successivi, secondo lo schema previsto dall'art. 810 (Trib. Verona 12 aprile 2005). Sembra poi ovvio che, solo una volta perfezionatosi il contraddittorio per essere stato portato l'atto introduttivo del giudizio arbitrale a conoscenza della controparte nelle forme dovute, debba provvedersi all'adempimento del deposito presso il registro delle imprese, deposito che, prima di quel momento, non avrebbe senso, giacché darebbe conto di un giudizio arbitrale non ancora iniziato. In tal senso sembra che oggi debba essere valorizzato il precetto dettato dall'art. 816-bis.1, concernente la domanda di arbitrato, norma che evidentemente presuppone la già intervenuta instaurazione del contraddittorio. Soffermandosi ulteriormente sull'aspetto del deposito presso il registro delle imprese, occorre sottolineare che il dato normativo è inequivoco nel prevedere detto adempimento soltanto se il procedimento arbitrale coinvolge la società, e non soltanto i soci (Biavati 2016, 151). È certo lecito dubitare della razionalità della previsione, giacché anche la sussistenza di una controversia tra soci, e non soltanto tra soci e società, può destare l'interesse degli altri soci: e tuttavia il dato normativo non si presta a manipolazioni, giacché la lettera è assolutamente inequivoca, nello stabilire che: «La domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto è depositata presso il registro delle imprese». Del resto, se così non fosse, al legislatore sarebbe bastato dire puramente e semplicemente che la domanda di arbitrato deve essere depositata, poiché, ad ammettere che il deposito sia richiesto non solo in caso di controversia tra società è soci, ma anche tra soci, altro non si farebbe che prevedere il deposito per qualunque controversia societaria (Luiso 2003, 718). Per di più, non è detto che la norma non abbia un senso: uno dei caratteri che rende preferibile l'arbitrato, in luogo del ricorso al giudice ordinario, è la riservatezza, riservatezza che, naturalmente, viene meno una volta prescritta l'ostensione degli atti, posti a disposizione dei soci, sicché è ben possibile che la ratio della disposizione sia da identificare nel perseguimento della minor limitazione del carattere riservatezza dell'arbitrato, destinato a cedere solo in presenza di una controversia che coinvolga la stessa società. La norma nulla dice sugli effetti del mancato deposito, sicché si ritiene che l'inosservanza di essa finisca per essere in definitiva inoffensiva, sul rilievo che la previsione del deposito è dettata da una finalità di semplice pubblicità-notizia (Luiso 2003, 718), come tale non assistita da sanzione. La mancanza del deposito non può difatti determinare la nullità della domanda arbitrale, stante la previsione di tassatività delle ipotesi di nullità stabilita in via generale dall'art. 156; ancor meno potrebbe discutersi di improcedibilità, che, pacificamente, è necessariamente testuale. Taluno ha ipotizzato che, in difetto di deposito presso il registro delle imprese, le parti del giudizio arbitrale non potrebbero far valere l'inosservanza del termine per l'intervento dei terzi, ma si è replicato che l'affermazione non si giustifica, «visto che poi nulla impedirà al terzo di tutelare i suoi diritti, dinanzi ad un collegio arbitrale, se vincolato dalla clausola o dinanzi al giudice ordinario negli altri casi» (Biavati 2016 152). Ciò rende poi sostanzialmente irrilevante il quesito sul quando l'adempimento debba essere realizzato, aspetto sul quale pure la norma tace. Discussa è anche l'individuazione del soggetto che deve provvedere al deposito, se l'attore o anche il convenuto ovvero se l'adempimento debba andare a ricadere sugli amministratori (Santagada, 281). Pare poi scontato che il registro delle imprese presso il quale effettuare il deposito sia quello nel cui ambito ricade la sede della società. Il deposito deve essere accessibile ai soci: se si assume che l'adempimento sia posto a carico dell'attore, questi depositerà la domanda di arbitrato; il convenuto in arbitrato provvederà poi doverosamente a depositare la propria comparsa contenente domanda riconvenzionale; se invece si ritiene che l'obbligo vada a gravare sugli amministratori, può agevolmente aggiungersi a ritenere che questi debbano depositare tutto quanto disponibile una volta instaurato il contraddittorio. Quanto all'intervento dei terzi, occorre premettere che uno dei limiti dell'arbitrato è la sua fisiologica inettitudine a dar luogo all'estensione della lite al soggetti in essa coinvolti, ma estranei alla clausola compromissoria o al compromesso. A ciò ha cercato di ovviare la disciplina dell'arbitrato societario con l'art. 35, comma 2, d.lgs. n. 5/2003, che, introducendo una novità assoluta nel panorama, consentiva l'intervento volontario dei terzi ex art. 105 c.p.c., nonché l'intervento coatto di soci su istanza di parte o su ordine del collegio arbitrale, ai sensi degli artt. 106 e 107 c.p.c., fino alla prima udienza di trattazione. Allo stesso modo l'art. 838-ter, comma 2, stabilisce che: «Nel procedimento arbitrale promosso a seguito della clausola compromissoria di cui all'art. 838-bis, l'intervento di terzi a norma dell'articolo 105 nonché l'intervento di altri soci a norma degli artt. 106 e 107 è ammesso fino alla prima udienza di trattazione. Si applica l'art. 820, quarto comma». Successivamente alla novella del 2003, la riforma del 2006, con l'introduzione dell'art. 816-quinquies c.p.c., ha introdotto una regola applicabile all'arbitrato di diritto comune per il caso della pluralità di parti e per l'intervento dei terzi: ciò, però, nel solco della tradizione, «solo con l'accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri». L'art. 35, comma 2, come la nuova norma, distingue tra coloro che partecipano della clausola compromissoria, quali gli altri soci, ed i terzi estranei alla clausola. Difatti, mentre con riferimento all'intervento volontario di cui all'art. 105, la norma parla di «terzi», nel secondo periodo, per la chiamata in causa su istanza di parte o per ordine del collegio arbitrale, parla di «soci». E cioè, l'intervento coatto può essere imposto solo a quei soggetti nei cui confronti la clausola compromissoria estende la sua operatività. La norma si caratterizza poi, per così dire in negativo, perché non si sofferma sul consenso delle parti originarie del giudizio, dei terzi e degli arbitri. Larga parte della dottrina, ponendo l'accento sulla difformità della previsione da quella dettata dall'art. 816-quinquies ha ritenuto consentito qualunque intervento volontario del terzo, sebbene estraneo alla clausola compromissoria e pur senza il necessario consenso degli arbitri e delle parti (Luiso 2003, 719; Biavati 2016, 154). Un cenno infine alla tutela cautelare. In deroga al precetto all'epoca dettato dall'art. 818 c.p.c., che vietava agli arbitri di concedere sequestri o altri provvedimenti cautelari, «salva diversa disposizione di legge», l'art. 35, co. 5, d.lgs. N. 5/2003 aveva previsto che, in caso di controversia avente ad oggetto la validità di delibere assembleari, il collegio arbitrale potesse disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera. Oggi il quadro complessivo è cambiato, giacché il vigente art. 818 c.p.c. consente invece, sia pure entro certi limiti, la tutela cautelare dinanzi agli arbitri. Per l'effetto il comma 4 dell'art. 838-ter, nel ribadire che, in caso di devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari, agli arbitri compete il potere di disporre la sospensione dell'efficacia della delibera, fa per un verso salvo quanto previsto dall'art. 818, e per altro verso stabilisce che l'ordinanza sia reclamabile ai sensi dell'art. 818-bis. L’efficacia del lodoL'art. 35, comma 4, d.lgs. n. 5/3003, ed oggi il comma 3 dell'art. 838 ter, stabilisce che «le statuizioni del lodo sono vincolanti per la società». La disposizione va letta tenendo conto che la società può essere o meno parte del giudizio arbitrale, e sta a significare che il vincolo sussiste anche nell'ipotesi in cui si tratti di una controversia che non coinvolge la società. La S.C. ha in proposito osservato che «l'art. 35 d.lgs. n. 5 del 2003, in tema di arbitrato societario, prevede, al comma 4, che “le statuizioni del lodo sono vincolanti per la società”. Ma tale previsione rispecchia, una volta introdotto l'arbitrato societario anche per la impugnazione delle deliberazioni sociali, il dettato dell'art. 2377, comma 7, c.c., nonché dell'art. 2434-bis, comma 3, c.c. Secondo la prima disposizione, applicabile anche alle delibere nulle in virtù del rinvio ad essa contenuto nell'art. 2379 c.c., nonché alle s.r.l., in ragione dell'analogo rinvio ex art. 2479-ter c.c., l'annullamento della deliberazione “obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità”. Del pari, la disposizione speciale dell'art. 2434-bis, comma 3, c.c. prevede che il bilancio dell'esercizio nel corso del quale sia dichiarata l'invalidità di quello anteriore “tiene conto delle ragioni di questa”. Si tratta, invero, dell'esplicita presa di posizione del legislatore, in ragione dell'interesse che l'organismo societario riveste per il mercato, sull'obbligo per gli organi sociali, con richiamo diretto alle rispettive responsabilità, di ottemperare alla pronuncia del giudice, il quale abbia ravvisato l'invalidità della deliberazione sociale, dovendo essi ripristinare, per quanto possibile, lo status quo ante ed eliminando gli effetti della deliberazione viziata dal mondo giuridico. Non diversa è la ratio dell'art. 35, comma 4, d.lgs. n. 5 del 2003, dettato all'interno di un articolo che, come risulta in modo patente dai rimanenti commi (cfr., in particolare, il comma 1, che espressamente menziona la domanda “proposta dalla società o in suo confronto”; il comma 2, che prevede l'intervento di “altri soci”; il comma 5, espressamente riferito alla impugnazione per vizi di “validità di delibere assembleari” ed al potere di “sospensione dell'efficacia della delibera”) ha avuto presente, quale situazione di massimo rilievo, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari, in cui dunque la società è, per definizione, il soggetto legittimato passivo. Onde l'espresso richiamo, anche qui, al "vincolo" per la società delle pronunce arbitrali che la riguardino. Ma non ne deriva, invece, l'integrazione della fattispecie del litisconsorzio necessario, la quale va individuata sulla base delle ordinarie regole: secondo cui tale situazione sussiste solo allorché, in mancanza del legittimo contraddittore, la pronuncia sarebbe inutiliter data. Così è quando, oltre ai casi espressamente previsti dalla legge, una situazione sostanziale di natura plurisoggettiva, dedotta in giudizio, debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne siano partecipi, onde non privare la pronuncia dell'utilità connessa con l'esperimento dell'azione proposta, in quanto l'azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico, oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile incidente su una situazione pure inscindibile comune a più soggetti (cfr., ex multis, Cass. n. 3692/2020). Tale situazione non sussiste in relazione alla domanda di intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali, quale contratto concluso tra fiduciante e fiduciario, in cui le partecipazioni al capitale della società costituiscono soltanto l'oggetto del negozio, onde non può ritenersi al riguardo il litisconsorzio necessario quale proiezione degli elementi costitutivi della fattispecie. In tal senso è un precedente specifico della Corte, il cui portato si intende ora ribadire (Cass. n. 339/2005), secondo cui, nel giudizio avente ad oggetto il trasferimento di partecipazioni societarie, la società non è litisconsorte necessario, ma il trasferimento è valido ed efficace inter partes sin dall'incontro dei consensi» (Cass. n. 11226/2021). Arbitrabilità soggettivaIn generale il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, sicché le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo interno dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori, sono compromettibili in arbitri, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Cass. n. 2759/2016). Si è di recente ripetuto che la controversia tra l'amministratore e la società resta soggetta alla competenza arbitrale convenuta, per tale lite, con la clausola compromissoria, ove la soppressione di questa sia stata deliberata dopo la cessazione dalla carica del detto amministratore e non sia intervenuto un accordo tra lo stesso e la società volto a privare di effetti la clausola stessa (Cass. n. 6221/2023). Sono state ritenute compromettibili le controversie fra la società e gli amministratori aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale qualora la clausola li menzioni espressamente (Trib. Milano 11 maggio 2018, in un caso in cui la clausola includeva qualsiasi controversia tra i soci, ovvero tra i soci e la società nonché quelle promosse da o nei confronti di amministratori, liquidatori e sindaci).La clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo di una società, che prevede la possibilità di deferire agli arbitri le controversie tra i soci, quelle tra la società e i soci nonché quelle promosse dagli amministratori e dai sindaci, in dipendenza di affari sociali o dell'interpretazione o esecuzione dello statuto sociale, non include anche l'azione di responsabilità ex art. 2476 c.c. promossa dal socio nei confronti dell'amministratore, non rilevando che quest'ultimo sia anche socio della società (Cass. n. 12333/2012; Cass. n. 33149/2022). È stato però affermato che rientra nella competenza arbitrale l'azione di responsabilità esercitata nei confronti del socio amministratore di s.r.l. receduto a causa della soppressione della clausola compromissoria statutaria (Trib. Milano 19 novembre 2020). In tema di arbitrato, la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società non è opponibile allo Stato, divenuto socio a seguito della confisca delle partecipazioni societarie ai sensi dell'art. 416-bis, comma 7, c.p., poiché la deroga alla competenza dell'autorità giurisdizionale può operare solo a seguito di una scelta volontaria, mentre, in caso di confisca, l'ingresso in società dello Stato si verifica ex lege per effetto di un acquisto a titolo originario, che piega lo scopo sociale alla finalità di conservazione del patrimonio aziendale per il tempo necessario alla definitiva destinazione dei beni confiscati (Cass. n. 6068/2021, che, in sede di regolamento di competenza, ha escluso l'operatività della clausola compromissoria statutaria in riferimento all'azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. dallo Stato, quale socio unico di una s.r.l. a cui erano state confiscate tutte le partecipazioni societarie). In tema di società di persone, in mancanza di una esplicita previsione statutaria che estenda l'arbitrabilità delle controversie societarie agli eredi del socio, questi ultimi, anche se titolari di un diritto di credito alla liquidazione della quota, sono estranei alla società e, pertanto, non possono promuovere la causa per ottenere tale liquidazione davanti agli arbitri (Cass. n. 2164/2023). La vincolatività della clausola compromissoria statutaria nei confronti del creditore pignoratizio si giustifica sia in considerazione del subentro dello stesso nelle medesime posizioni di carattere sostanziale del socio, e tanto per salvaguardare le scelte negoziali della società e dei soci ad adire giudici privati, a tutela delle ragioni organizzative proprie dell'ente (Trib. Napoli, 15 febbraio 2022). E cioè la clausola compromissoria, contenuta nello statuto sociale, non è opponibile al creditore pignoratizio, in quanto ha rilievo organizzativo e la sua efficacia è, quindi, opponibile all'esterno, da ciò derivando che l'efficacia di tale clausola è vincolante nei confronti dei soci e di ulteriori soggetti terzi, i quali siano venuti in contatto con l'organizzazione societaria, come nel caso del creditore pignoratizio di quote o azioni sociali (Trib. Napoli 15 febbraio 2022). La clausola compromissoria statutaria opera anche nell'ipotesi di controversia promossa dal curatore della società fallita avente ad oggetto l'esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale, trattandosi di vertenza relativa a diritti disponibili, inerenti al rapporto sociale ed inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio (Cass. n. 4956/2020). BibliografiaAuletta F., Dell'arbitrato, in Sassani B. (a cura di), La riforma delle società. 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