I limiti dell'intervento volontario nel giudizio da parte dell'amministratore di condominio

Adriana Nicoletti
02 Febbraio 2023

La Corte di Cassazione, con una recentissima ordinanza, ha esaminato, forse per la prima volta, la questione dal punto di vista dell'amministratore che, in proprio, abbia svolto un intervento nel giudizio di impugnazione di una deliberazione assembleare. La decisione ha circoscritto il campo di azione anche per l'amministratore, il quale in tale occasione assume la posizione di “terzo”.
Massima

L'intervento del terzo è ammissibile soltanto quando il diritto che, ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.c., fatto valere nel giudizio pendente tra altre parti sia relativo all'oggetto sostanziale dell'originaria controversia, da individuare con riferimento al petitum ed alla causa petendi, oppure dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fondamento della domanda giudiziale originaria; ciò esclude che il terzo, estraneo al processo, asseritamente offeso da frasi contenute negli atti di causa possa chiedere la cancellazione delle stesse ed il risarcimento del danno.

Il caso

Per quanto di specifico interesse, nell'àmbito di un giudizio di impugnazione di una delibera assembleare avente ad oggetto lavori eseguiti in una proprietà esclusiva, l'amministratore del condominio spiegava intervento volontario, ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.c., chiedendo la cancellazione di alcune frasi offensive della propria persona e contenute nell'atto di citazione.

Il Tribunale, rigettata l'impugnativa, condannava l'attore alla cancellazione delle espressioni incriminate, oltre che alle spese di lite liquidate anche in favore dell'amministratore.

Confermata la sentenza di primo grado in sede di appello, il soccombente ricorreva in Cassazione ribadendo, per quanto concerneva la posizione dell'amministratore, l'errore in cui era incorso il giudice di secondo grado, il quale aveva ritenuto ammissibile l'intervento in causa del medesimo, anche se con l'azione l'intervenuto non aveva inteso far valere un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo in corso.

I giudici di legittimità accoglievano, per tale motivo, il ricorso cassando la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello in diversa composizione.

La questione

Due le questioni, conseguenziali l'una all'altra, che emergono dal provvedimento in esame: da un lato, individuare le condizioni di ammissibilità per riconoscere in capo all'amministratore il diritto di intervenire, in proprio, in un giudizio di cui siano parti il condominio ed un terzo e, dall'altro, il possibile riconoscimento di un diritto risarcitorio legato alla cancellazione di espressioni offensive aventi ad oggetto il rappresentante del condominio.

Le soluzioni giuridiche

La Corte non ha ravvisato che, alla fattispecie concreta, si possa applicare il disposto dell'art. 105, comma 1, c.p.c. poiché l'intervento del terzo, in un giudizio pendente tra altre parti, richiede che il diritto possa essere esercitato solo se strettamente connesso all'oggetto sostanziale dell'originaria controversia: petitum e causa petendi.

Non era questo, invero, il caso dell'amministratore del condominio, dal momento che con l'intervento in questione il rappresentante, il quale aveva agito in proprio, non aveva rispettato il presupposto richiesto per l'ammissibilità dell'intervento volontario talchè non poteva essere accolta neppure la domanda fondata sull'art. 89 c.p.c.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza, infatti, il rimedio contenuto in tale disposizione si colloca all'interno del processo, nel senso che è applicabile soltanto quando l'offensore e l'offeso siano parti in causa in un medesimo giudizio (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2011, n. 21696).

La Corte, tuttavia, ha affermato che, in presenza di una tale situazione, non è precluso al soggetto che ritenga di essere stato violato nella sua onorabilità di far valere il diritto sancito dal citato art. 89 in altra sede o chiedendo, in un apposito giudizio, la cancellazione delle frasi offensive in una con il risarcimento danni (sempre se dimostrati), poiché la responsabilità connessa al comportamento illecito permane e si fonda sull'art. 2043 c.c.

Osservazioni

L'amministratore è titolare, nei confronti del condominio, di una duplice rappresentanza: sostanziale e processuale. La prima attribuisce al mandatario un potere decisionale pieno, se egli opera nell'ambito delle attribuzioni a lui conferite dalla legge (art. 1130 c.c.), oppure limitato, se condizionato all'autorizzazione a lui conferita dall'assemblea. In entrambi i casi l'amministratore agisce a nome e per conto del condominio, assumendo obbligazioni per conto del medesimo, con una ricaduta dei relativi effetti direttamente sull'ente stesso. Ad essa è strettamente collegata la seconda (art. 1131 c.c.), che si sostanzia nella capacità del mandatario di rappresentare in giudizio, tanto dal lato attivo quanto da quello passivo, il condominio quale centro di interessi comuni ed individuali. Questi ultimi in quanto ascrivibili a posizioni soggettive. L'assenza di un riconoscimento della personalità giuridica in capo al condominio è, pertanto, il fattore che determina la necessità che l'amministratore sia il soggetto deputato ad essere investito, in sede di contenzioso giudiziario, della rappresentanza dei partecipanti al condominio, i cui interessi coincidono per tutto ciò che rappresenta i diritti collettivi, le parti ed i servizi comuni.

La connessione tra questi due profili è stata evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. II, 13 marzo 2007, n. 5862; Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2005, n. 8570), che ha sostanzialmente affermato che per l'amministratore non vi è legittimazione processuale se manca un potere rappresentativo sostanziale.

Tutto ciò non esclude che l'amministratore possa essere chiamato in causa personalmente quando, ad esempio, non abbia espletato il mandato con la diligenza del bonus pater familias, poiché nel rapporto interno tra mandante e mandatario, l'amministratore negligente, che con la sua azione od omissione abbia procurato danni a terzi, è comunque tenuto - per il principio generale del neminem ledere - a risarcire i danni che risultino essere in rapporto eziologico con la sua condotta (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20317). Parimenti l'amministratore può essere a sua volta attore nei confronti non solo del condominio da lui amministrato ma anche di un condomino o di un terzo quando ritenga di avere subìto un torto.

Nell'àmbito di un'azione giudiziaria pendente tra due o più soggetti (condominio, condomino e/o terzo estraneo alla compagine), si inserisce la questione concernente la possibilità per l'amministratore di intervenire per fare valere un proprio diritto nei confronti di uno dei contendenti. Ed a questo proposito ci si domanda se anche per l'amministratore sia valido il disposto dell'art. 105, comma 1, c.p.c., oppure se per tale applicabilità vi siano ulteriori limiti, considerato che a seconda della domanda formulata il rappresentante condominiale potrebbe essere escluso da tale azione.

Nel caso sottoposto all'esame della Corte, come visto, l'oggetto della domanda proposta dal rappresentante condominiale - richiesta di cancellazione di espressioni asseritamente offensive e conseguente risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c. - ha indotto il giudicante a riformare la sentenza di secondo grado, dichiarando la non ammissibilità dell'intervento volontario, in difetto dei presupposti di cui all'art. 105 citato: il diritto di cui si richiede la tutela deve essere relativo all'oggetto del giudizio in essere oppure deve essere connesso al titolo dedotto nel processo medesimo.

La natura della domanda proposta dell'amministratore il quale, da un lato, era passivamente legittimato a rappresentare il condominio nell'azione di impugnativa di una deliberazione assembleare e, dall'altro, aveva trovato ingresso attivo, nella veste di intervenuto, nel medesimo giudizio con una domanda propria, non poteva, pertanto, trovare collocazione nell'ambito dell'art. 105 c.p.c.

La Corte, sempre esaminando il problema sotto il profilo generale ma estendibile anche alla posizione dell'amministratore/intervenuto, ha affermato che è escluso che il terzo estraneo al processo a cui l'espressione ingiuriosa sia riferita possa intervenire in giudizio per chiedere il risarcimento del danno, non essendo egli portatore di alcun diritto relativo all'oggetto o subordinato al titolo dedotto nel processo medesimo e sul quale cadrà la sentenza finale. In effetti - ha proseguito il giudicante - le espressioni ingiuriose di cui si chiede l'eliminazione ed il riconoscimento del danno ad esse connesso (fondamento per l'azione a difesa dell'onore, anche professionale, del soggetto) sono non solo indipendenti ma anche assolutamente estranee rispetto ai diritti in contestazione (nella specie, come detto, si trattava di impugnazione di una delibera condominiale).

Peraltro, come ancora evidenziato dai giudici di legittimità, la fattispecie contemplata nell'art. 89 c.p.c. trova base nella necessità di sanzionare il comportamento processuale della parte e del suo difensore nell'ambito del processo. Quest'ultimo, infatti, ha il dovere deontologico di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità ed il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione, non deviando dal codice deontologico della categoria.

Non per questo, però, il terzo/amministratore deve rinunciare ad ottenere soddisfazione per i suoi diritti presuntivamente violati, essendo allo stesso riservata la possibilità di farli valere in altra sede. In effetti, se l'offesa vi sia stata ed il relativo danno sia dimostrabile, l'amministratore potrà incardinare un separato giudizio nel quale accertare quella sussistenza di responsabilità che non sia stato possibile fare emergere con il meccanismo conseguente al combinato disposto degli artt. 105 e 89 c.p.c., ottenendo anche la concessione dei conseguenziali provvedimenti.

In questo caso, l'azione si fonda sull'art. 2043 c.c., a norma del quale qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, rispetto al quale l'onere della prova è a carico del danneggiato. Nel caso, invece, in cui il danno patito sia connesso ai presupposti dell'art. 89 c.p.c. il giudice, una volta ordinata anche nel corso dell'istruttoria la cancellazione delle frasi sconvenienti od offensive, potrà liquidare all'offeso, con la sentenza definitiva, una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa.

Dalla motivazione del provvedimento oggetto di commento appare evidente che, ad avviso dei giudici di legittimità, l'affermazione contenuta nell'atto di citazione - come avvenuto nel caso concreto - secondo la quale si asserisca che l'amministratore si sia adoperato per coprire il comportamento di un condomino nell'attuare un abuso edilizio non rientri nell'ambito applicativo dell'art. 89, comma 2, c.p.c.

Riferimenti

Acquaviva, Intervento adesivo dipendente del condomino: che cos'è, in Condominioweb.com, 19 luglio 2021;

Taraschi, Intervento dei terzi, in IUS Condominio e locazione, 15 ottobre 2020.

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