Le cripto attività come prodotti finanziari

Ranieri Razzante
16 Febbraio 2023

La Suprema Corte si è trovata ad interrogarsi sull'opportunità di prevedere l'introduzione di obblighi informativi a tutela del consumatore che consentano al potenziale investitore di decidere, disponendo di sufficienti ed adeguate informazioni.
Massima

La valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono, attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale, la tutela dell'investimento; pertanto, chi eroga detti servizi è tenuto ad un innalzamento degli obblighi informativi verso il consumatore, al fine di consentire allo stesso di conoscere i contenuti dell'operazione economico-contrattuale e di maturare una scelta negoziale meditata.

Il caso

La Corte di cassazione, già nel 2020, aveva sancito che la vendita di bitcoin, ove promossa come fosse una proposta di investimento, dev'essere accompagnata dagli adempimenti ex artt. 91 ss. TUF, pena l'integrazione del reato di abusivismo, previsto all'art. 166, comma 1, lett. c), TUF (cfr. Cass. pen., sez. II, 17 settembre 2020, n 26807). Ebbene, la questione sottesa al caso de quo concerneva, più precisamente, un'ipotesi di sequestro preventivo di portafoglio di valute virtuali.

In sede di riesame, il Tribunale di Brescia aveva confermato l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia, con cui non era stata accolta l'istanza di sequestro preventivo del wallet di bitcoin, ritenuto dal Pubblico Ministero oggetto del delitto di autoriciclaggio ai sensi dell'art. 648-ter, comma 1, c.p., commesso reinvestendo in criptovalute altre monete virtuali costituenti profitto del reato di esercizio abusivo di attività bancaria e raccolta del risparmio (art. 131 TUB) e del reato di abusivismo finanziario (art. 166 TUF). Il rigetto da parte del Tribunale dell'istanza di sequestro del wallet era stato motivato dall'assenza del fumus commissi delicti relativamente al reato presupposto; venivano, inoltre, ritenuti insufficienti gli accertamenti compiuti per ritenere configurata un'offerta di servizio o un'attività di investimento.

Allora, il Pubblico Ministero aveva presentato un ricorso per Cassazione, sostenendo l'opportunità di accertare se l'attività di Initial Coin Offering (ICO) fosse assimilabile ad un'offerta di servizio o attività di investimento, onde poter valutare concretamente l'imputabilità ex art. 166 TUF. Difatti, secondo lo stesso PM, la condotta era identificabile in un'offerta di investimento. Più precisamente, l'organo requirente aveva eccepito l'erronea applicazione della legge penale, in riferimento all'art. 640 c.p. ed all'art. 125, comma 3, c.p.p.

La questione

La Suprema Corte si è trovata a interrogarsi sull'applicazione della disciplina vigente in materia di intermediazione finanziaria (artt. 94 ss. TUF) alla vendita di bitcoin reclamizzata come offerta d'investimento.

Le soluzioni giuridiche

Per inquadrare la fattispecie, la Corte sviluppava una risposta muovendo dalla definizione di valuta virtuale elaborata a livello comunitario: «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente (Direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018)». A proposito di tale definizione, i giudici di legittimità osservavano che la Direttiva tentava di definire in negativo la moneta virtuale, al fine di disegnare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente e, altresì, cercando di fornire una definizione omnicomprensiva che tenesse conto dell'espansione costante delle modalità d'impiego delle valute virtuali.

Volgendo, invece, lo sguardo al legislatore italiano, la Suprema Corte riprendeva la definizione dell'art. 1, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, in cui la moneta virtuale viene descritta come: «la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente», sottolineando come qui, contrariamente alla definizione più vaga del Legislatore sovranazionale, venga fatta espressa menzione della finalità d'investimento.

Ebbene, è proprio sulla finalità d'investimento che i giudici imperniavano la trattazione al fine di sancire l'applicabilità della disciplina vigente in materia di intermediazione finanziaria al caso di specie. La Corte di legittimità richiamava, infatti, la sentenza 17 settembre 2020, n. 26807 della Seconda Sezione della Cassazione Penale, in cui era stato affermatoche, qualora la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, saranno obbligatoriamente previsti gli adempimenti di cui agli artt. 91 ss. TUF, pena l'integrazione della fattispecie di reato di cui all'art. 166, comma 1, lett. c), TUF.

Nel caso di specie, quindi, la medesima Corte riteneva che, dal momento che i destinatari della proposta di investimento hanno fornito bitcoin, per ottenere monete virtuali che avrebbero consentito la partecipazione alla piattaforma successivamente, con valore variabile a seconda del momento dell'acquisto e con ritorno maggiore in caso di successo della piattaforma stessa, questi avessero assunto un rischio d'investimento corrispondente al capitale investito. Allora, dato che la raccolta di investimenti era finalizzata al finanziamento della piattaforma, la Cassazione giungeva a considerare erronea la valutazione del Tribunale di Brescia, che aveva ritenuto assente il fumus commissi delicti in relazione all'art 166 TUF,che sanziona, giova qui ricordarlo: «chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento». Ne deriva che, secondo la S.C., la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere anche applicata la disciplina vigente in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. TUF).

Osservazioni

Al fine di comprendere l'importanza della pronuncia in esame, è opportuno ricordare che, sia a livello nazionale che sovranazionale, le cripto-attività sono ancora prive di una normativa di riferimento esaustiva, generando una “zona grigia” in cui le ambiguità richiedono al giudice di intervenire ormai sempre più di sovente. Questa assenza di determinazione è emersa, di recente, soprattutto per quanto concerne operazioni denominate offerte inziali e scambi di cripto-attività, note come ICO (Initial Coin Offering).

Queste ultime rientrano in un alveo più ampio di attività speculative note come cryptocurrency exchange, riconosciute come veri e propri investimenti finanziari. Difatti, le ICOs consistono in sistemi di raccolta di investimenti a fini imprenditoriali, in cui invece di emettere strumenti finanziari si propongono agli investitori crypto assets. Nel caso di specie, come evidenziato dalla Corte di Cassazione, è stato messo in luce come un'ICO non sia dissimile da un'offerta di investimento finanziario, dal momento che figuravano elementi singolari quali l'impiego di un capitale proprio, a fronte di un'aspettativa di rendimento, e l'accettazione del rischio di investimento.

È in ragione di questa analoga finalità tra un'offerta di investimento finanziario e un'ICO che appare appropriato prevedere l'applicazione degli artt. 94 ss. TUF all'ipotesi di offerte di investimento aventi ad oggetto crypto assets. Conseguentemente, l'annullamento con rinvio dell'ordinanza del Tribunale di Brescia, in cui si esclude l'applicazione dell'art. 166 TUF, che sanziona la fattispecie di abusivismo finanziario, risponde alla medesima necessità di tutela dell'investitore e della trasparenza. Sarebbe, quindi, opportuna non solo l'applicazione delle norme in materia di intermediazione finanziaria – come già peraltro suggerito dalla nostra Consob - ma anche di quelle in materia di abusivismo finanziario, delegando a soggetti abilitati anche la gestione di ICO. Tale previsione sarebbe anche coerente, in una lettura sistematica, con quanto previsto all'art. 18 TUF, in cui si prevede che l'esercizio professionale dei servizi di investimento sia riservato ad imprese di investimento e banche; si richiede, quindi, l'autorizzazione di CONSOB e Banca d'Italia per gli intermediari iscritti all'albo.

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