Riforma processo civile: la modifica della responsabilità aggravata

22 Febbraio 2023

Il d.lgs. n. 149/2022 ha aggiunto all'art. 96 c.p.c. un quarto comma, per dare attuazione al comma 21, lettera a), della legge delega: esso contiene la previsione che nei casi di responsabilità aggravata, come disciplinati dal primo, secondo e terzo comma di tale disposizione, è possibile comminare alla parte soccombente una sanzione pecuniaria.
Il nuovo quarto comma dell'art. 96 c.p.c.

Il d.lgs. 149/2022 ha aggiunto all'art. 96 c.p.c. un quarto comma che prevede che: «Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000».

Nella relazione illustrativa al decreto delegato, pubblicata sulla G.U. del 19 ottobre 2022, si legge (pag. 17), a commento di tale modifica, che essa costituisce attuazione del comma 21, lettera a), della legge delega (criterio direttivo che si inserisce tra quelli diretti «a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi»), consistendo nella previsione della possibilità di «comminare alla parte soccombente la sanzione pecuniaria, determinata in una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000, da versarsi a favore della cassa delle ammende, a compensazione del danno arrecato all'Amministrazione della giustizia per l'inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo».

La norma in esame, nel momento in cui ricollega la sanzione a tutti i commi dell'art. 96 c.p.c., muove dalla premessa, di carattere sistematico, che essi disciplinino tre distinte ipotesi di lite temeraria e che, in particolare, anche l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c., al pari di quelle previste dai primi due commi di tale norma sia una forma di illecito aquiliano.

Ora, un simile postulato si pone in contrasto con l'opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo la quale il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., introdotto dall'art. 45, comma 12, della l. n. 69/2009, ha una esclusiva finalità sanzionatoria mentre i presupposti della responsabilità processuale aggravata sono fissati dai primi due commi.

Tale conclusione è stata il frutto di un lungo dibattito, avviatosi subito dopo l'entrata in vigore della novella 69/2009, che è opportuno ripercorrere brevemente.

Secondo un primo indirizzo, per giustificare la condanna ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. non sarebbero necessari i presupposti soggettivi, previsti dai primi due commi, della mala fede o della colpa grave.

A sostegno di tale opzione era stato valorizzato l'incipit della previsione (le parole “in ogni caso”), che sarebbe indicativo dell'affrancamento di essa da tutti i presupposti del primo comma, con la conseguenza che la sola soccombenza della parte potrebbe giustificare la sua condanna ai sensi del terzo comma.

Saremmo quindi di fronte ad un'ipotesi di responsabilità oggettiva.

La tesi è stata sostenuta anche da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ha affermato che «la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta -con finalità deflattive del contenzioso- alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente» (Cass. civ. 21 novembre 2017, n. 27623; Cass. civ. 18 novembre 2019, n. 29812; Cass. civ. 24 settembre 2020, n.20018; Cass. civ. 15 febbraio 2021, n. 3830).

E' in linea con tale ricostruzione anche la relazione sul d.lgs. n. 149/2022 dell'ufficio del massimario della Cassazione, la n. 110/2022, leggibile sul sito della Cassazione. Essa infatti, pur riconoscendo che il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. «si configura come una sanzione di carattere pubblicistico, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale, autonoma ed indipendente rispetto all'ipotesi di responsabilità aggravata prevista dai due commi precedenti», afferma poi contraddittoriamente che «la sua applicazione, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua dell'"abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente».

A questa lettura è però agevole obiettare che essa limita il diritto d'azione e di difesa, garantito dall'art. 24 Cost., perché avalla l'idea che l'aver proposto una domanda infondata, o l'aver resistito ad una domanda fondata, costituisca di per sé un illecito ed una possibile fonte di responsabilità.

Essa comporta, inoltre, che dovrebbe essere il giudice a stabilire, di volta in volta, se e quando la lite sia temeraria e tale valutazione potrebbe risultare ancor più arbitraria se si considera che non sarebbe ancorata nemmeno ai parametri fissati dal primo comma dell'art. 96 c.p.c.

E' risultata quindi più convincente, oltre che conforme a Costituzione, la tesi, anche giurisprudenziale, che ha riconnesso la condanna di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. agli stessi presupposti – fissati nel primo comma – dell'agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave (in giurisprudenza in tale senso si vedano: Cass. civ. 3 maggio 2022, n.13859; Cass. civ. 17 novembre 2021, n.34818; Cass. civ. 9 settembre 2021, n. 24383).

In tal modo si è ottenuto almeno che la condanna derivi da una condotta identificabile a priori e non coincidente con il mero "dato oggettivo" della soccombenza.

E' evidente poi che l'adesione a questa soluzione interpretativa comporta che all'espressione “in ogni caso”, contenuta nel terzo comma dell'art. 96 c.p.c., vada attribuito un significato diverso - o meglio più circoscritto - di quello sopra indicato.

Tali parole, infatti, vanno intese nel senso che la pronuncia di una condanna per lite temeraria è possibile a prescindere dalla sussistenza, o comunque dalla dimostrazione, di un danno per la parte vittoriosa.

I possibili profili di incostituzionalità della previsione

Alla luce di quanto osservato nel paragrafo precedente, si può affermare che il legislatore delegato, sebbene non abbia introdotto direttamente una nuova ipotesi di lite temeraria (sul punto si può quindi convenire con la relazione sul d.lgs. n. 149/2022 dell'ufficio del massimario della Cassazione), ha però fornito un indiretto riscontro normativo alla tesi che considera il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. come una distinta ipotesi di responsabilità processuale aggravata, per la cui applicazione si potrebbe prescindere dai presupposti soggettivi del primo comma.

Tale scelta si espone però ad un facile rilievo di incostituzionalità per il suo contrasto con l'art. 24 Cost., per le ragioni esposte nel precedente paragrafo, e, a ben vedere, non risulta nemmeno conforme alla legge delega.

Infatti, l'art. 1 comma 21, della l. n. 206/2021 aveva disposto che il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile si attenessero ad alcuni criteri diretti «a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi”, tra i quali, alla lett. a), vi era la previsione del “riconoscimento dell'Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e, conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende».

Il legislatore delegato era stato quindi autorizzato ad intervenire sul solo trattamento sanzionatorio dell'istituto e non già a modificarne i presupposti di applicazione, come individuati da dottrina e giurisprudenza.

La scelta compiuta, allora, non pare rispettosa dei criteri di raccordo tra legge delega e decreto delegato, che sono stati enunciati dalla Corte Costituzionale.

Infatti il giudice delle leggi ha ribadito in più occasioni che: «il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l'interpretazione della loro portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (ex plurimis: sentenze n. 230/2010, n. 98/2008, nn. 340/2007 e 170/2007, e, più recentemente, sentenza 6 dicembre 2012, n. 272).

In tale prospettiva la Corte ha anche indicato dei precisi canoni ermeneutici dei principi e dei criteri direttivi della legge di delegazione affermando che essi «devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341/2007, ordinanza n. 228/2005).

E allora, per risultare rispettosa dei richiamati parametri costituzionali, l'aggiunta avrebbe allora dovuto essere inserita nello stesso terzo comma dell'art. 96 c.p.c., che, conseguentemente, avrebbe potuto risultare del seguente tenore (in neretto la parte da aggiungere): «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata e, a favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000».

La scelta sul quantum della condanna

L'indicazione del delegante era stata duplice, anche se parziale.

Da un lato aveva stabilito che la condanna per lite temeraria, nelle ipotesi previste dall'art. 96 c.p.c., fosse emessa a favore non dello Stato ma dell'Amministrazione della Giustizia, sul presupposto, esplicitato nella relazione ministeriale, che si tratti del soggetto che risulta danneggiato dalla proposizione di difese temerarie.

Dall'altro lato aveva disposto che, in conseguenza della predetta scelta, venissero previste “specifiche sanzioni”, destinate alla cassa delle ammende così lasciando intendere solamente che si dovesse trattare di sanzioni pecuniarie e che potessero essere anche più di una.

La legge delega non aveva però precisato alcuni profili del nuovo regime ed in particolare:

- se la sanzione dovesse essere ad importo fisso, come, ad esempio, quella stabilita dall'art. 8, comma 4-bis, d.lgs. n. 28/2010 per la mancata partecipazione alla mediazione, o quella di cui all'art. 709-ter comma 2, n. 4 c.p.c., o ad importo variabile, come quella per l'inammissibilità o manifesta infondatezza dell'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado (art. 283, comma 2, c.p.c.);

- quali fossero, in questa seconda ipotesi, i limiti edittali e i criteri per modulare la sanzione;

- se il giudice avesse margini di discrezionalità nell'applicazione di essa.

Tali lacune sono state colmate dal legislatore delegato, in questo caso nel rispetto dei criteri di raccordo tra legge delega e decreto delegato, prevedendo unicamente una sanzione pecuniaria, variabile da un minimo ad un massimo, nonché l'officiosità e l'obbligatorietà della sua applicazione da parte del giudice, come inducono a ritenere, da un lato, l'utilizzo del tempo indicativo presente nella nuova norma e, dall'altro, la diversità di formulazione rispetto al terzo comma dell'art. 96 c.p.c.,che prevede che il giudice “possa condannare”.

Risulta pertanto errata l'osservazione della relazione ministeriale secondo la quale la condanna sarebbe solo possibile e quindi il giudice godrebbe di discrezionalità sul punto.

Il tenore letterale del criterio della legge delega potrebbe indurre a pensare che l'intervento mirasse a modificare l'attuale regime della responsabilità processuale aggravata sostituendo, quale beneficiario della condanna per lite temeraria, lo Stato alla parte vittoriosa.

Se però si pone mente al fatto che l'intento dichiarato della legge delega è quello di rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti si deve ritenere che in realtà la sanzione, con esso introdotta, di evidente natura pubblica, in quanto destinata alla Cassa delle Ammende, si aggiunga alle misure previgenti di carattere risarcitorio.

In questo modo la riforma ha inteso probabilmente superare anche le incertezze che gli interpreti avevano avuto in ordine alla natura della condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.

Sulla questione è intervenuta anche la Corte costituzionale (sentenza 23 giugno 2016 n. 152), una prima volta quando è stata chiamata a pronunciarsi sulla prospettata incostituzionalità della norma nella parte in cui dispone che la condanna, di natura sanzionatoria e officiosa, sia emessa a favore della controparte anziché dell'erario.

In quella occasione il giudice delle leggi, pur concordando con il giudice rimettente sulla natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata, aveva ritenuto che essa non sia irragionevole, nel prevedere che la condanna sia emessa a favore della parte vittoriosa anziché dello Stato.

A conclusioni non dissimili è giunta un'altra recente pronuncia del Giudice delle leggi (il riferimento è a C. cost. 6 giugno 2019, n. 139) che ha ritenuto che l'obbligazione prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c., che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell'abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa, in ragione del fatto che l'attribuzione patrimoniale è riconosciuta in favore della controparte.

Per contro le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, dopo aver riconosciuto la natura polifunzionale della tutela risarcitoria, potendo essa assolvere una funzione sanzionatoria, oltre a quella compensativa, hanno incluso la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., tra le ipotesi, contemplate nel nostro ordinamento, di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria o almeno non esclusivamente riparatoria, ma sostanzialmente, o congiuntamente, sanzionatoria.

Il «nuovo» criterio di quantificazione della condanna e la sua conformità alla Costituzione

Con riguardo alla condanna officiosa ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. l'intervento riformatore è consistito, a ben vedere, nell'aver aggiunto al criterio della determinazione equitativadella condanna, di non agevole e comunque non omogenea applicazione, quello di una sanzione determinata nel minimo e nel massimo.

Infatti, in conseguenza della precedente formulazione del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., la quantificazione della somma dovuta a titolo di responsabilità processuale aggravata era stata rimessa alla totale discrezionalità del giudice e, proprio in ragione di ciò, in dottrina erano stati sollevati dei dubbi di incostituzionalità della norma.

Proprio l'assenza nella norma di un limite massimo della condanna comminabile ha poi indotto la giurisprudenza a sottoporla al vaglio di costituzionalità (Trib. Verona 23 gennaio 2018, ord., consultabile in G.U., prima serie speciale, n. 51 del 2018), con riguardo ai parametri degli artt. 23 e 25, comma 2, Cost., che sottopongono ad una riserva di legge sia le prestazioni personali o patrimoniali imposte sia le sanzioni di carattere pubblico.

A sostegno dell'ordinanza di rimessione erano stati richiamati alcuni significativi passi della sentenza delle Sezioni Unite n. 16601/2017, nei quali era stato affermato che tipicità e prevedibilità costituiscono i presupposti indefettibili affinchè la componente afflittiva del risarcimento possa essere contemplata nell'ordinamento giuridico.

Il Giudice delle leggi (sentenza 8 maggio 2019, n. 139) ha però giudicato inammissibile la questione di legittimità costituzionale con riguardo al parametro dell'art. 25, comma 2, Cost., precisando che esso riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative di natura sostanzialmente punitiva e non già le prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l'art. 23 Cost.

Al contempo la Consulta, nel ritenere infondata la questione in riferimento all'art. 23 Cost., ha escluso che l'art. 96, comma 3, c.p.c. violi la riserva di legge relativa in materia di prestazioni patrimoniali imposte, in quanto Il legislatore, nell'esercizio dell'ampia discrezionalità di conformazione degli istituti processuali di cui dispone, richiamando il criterio equitativo per la determinazione della condanna, avrebbe rimesso alla giurisprudenza, soprattutto di legittimità, la specificazione del precetto legale.

E poichè il criterio maggiormente utilizzato dalla giurisprudenza per determinare la condanna officiosa per lite temeraria è quello, già previsto dall'art. 385, comma 4, c.p.c. abrogato, della proporzionalità secondo le tariffe forensi, la somma va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa».

Tali conclusioni sono state però criticate dalla dottrina sulla base del condivisibile rilievo che, nel nostro ordinamento, non esiste il principio del precedente vincolante, tanto che nella stessa applicazione giurisprudenziale esiste una pluralità di criteri di quantificazione della somma oggetto della condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.

L'intervento riformatore corregge quindi un grave difetto della previsione originaria rendendola conforme a Costituzione e confermando indirettamente che sanzioni pecuniarie indeterminate nel quantum sono incompatibili con la carta costituzionale.

Al contempo però, nel destinare le somme oggetto di condanna alla cassa delle ammende, il delegante non ha considerato che la scelta della novella 69/2009 di porre «a favore della controparte» la condanna della parte soccombente era stata giustificata dalla Consulta, nella sentenza n. 152/2016 sopra citata, con «l'obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato … , sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico».

Alla luce di tale condivisibile rilievo è allora lecito dubitare della possibilità per lo Stato di recuperare le somme che dovessero essere oggetto di condanna ex art. 96 c.p.c. una volta entrata in vigore la riforma.

Riferimenti
  • M. Vaccari, Le spese dei processi civili, Questioni giurisprudenziali e indicazioni operative, Milano, 2017;
  • T. Dalla Massara – M. Vaccari, Economia processuale e comportamento delle parti nel processo civile, Napoli, 2012;
  • N.C. Sacconi, La Corte Costituzionale e i criteri di quantificazione della condanna alla somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Corr .giur., 2020, 1116-1122.

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