Il subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo e la liquidazione delle spese

27 Febbraio 2023

Nella decisione in commento viene affrontata la questione relativa alla liquidazione delle spese in seno al procedimento ex art. 549 c.p.c., sebbene la pronuncia della Suprema Corte rilevi, in realtà, per aver fatto chiarezza sulla natura giuridica del subprocedimento di accertamento dell'obbligo del terzo.
Massima

Nell'espropriazione forzata l'accertamento dell'obbligo del terzo ex art. 549 c.p.c. si configura alla stregua di subprocedimento contenzioso interno alla procedura esecutiva, funzionalmente devoluto al giudice di questa e volto alla delibazione dell'effettiva esistenza di un diritto di credito ai soli fini dell'esecuzione in corso. Le spese vanno liquidate, in seno all'ordinanza conclusiva del subprocedimento, in via analogica, sulla base della tabella 2 dell'allegato unico del d.m. n. 55/2014.

Il caso

In seno ad una espropriazione presso terzi, veniva instaurato procedimento ex art. 549 c.p.c. che si concludeva con l'accertamento dell'esistenza dell'obbligo del terzo nei confronti del debitore e conseguente condanna alle spese in favore del creditore. Quest'ultimo, tuttavia, opponeva ex art. 617 c.p.c. l'ordinanza lamentando la errata applicazione delle tariffe professionali in tema di spese. Il Tribunale accoglieva l'opposizione, rideterminando il quantum delle spese in applicazione della tabella 2 (dettata per i giudizi ordinari e sommari di cognizione innanzi al Tribunale) e non già della tabella 17 (regolante i procedimenti esecutivi) dell'allegato unico al d.m. n. 55/2014. Avverso detta decisione ricorreva in Cassazione il terzo pignorato soccombente.

La questione

Nella decisione in commento viene affrontata la questione relativa alla liquidazione delle spese in seno al procedimento ex art. 549 c.p.c., sebbene l'articolata pronuncia della Suprema Corte rilevi in realtà più che altro per aver fatto chiarezza sulla natura giuridica del subprocedimento di accertamento dell'obbligo del terzo nonché su alcune questioni processuali, invero già consolidate nella giurisprudenza di merito.

Le soluzioni giuridiche

Come detto, i giudici di legittimità ripercorrono le origini e la natura del procedimento di accertamento dell'obbligo del terzo, novellato dapprima dalla l. n. 228/2012, poi dal d.l. n. 132/2014, convertito nella l. n. 162/2014, ed infine dal d.l. n. 83/2015, convertito nella l. n. 132/2015. Nel suo assetto originario, il legislatore aveva concepito l'accertamento dell'obbligo del terzo come un ordinario giudizio di cognizione, autonomo rispetto alla procedura esecutiva cui tuttavia era inevitabilmente collegato, tanto che l'esecuzione rimaneva in una fase di stallo (anche per anni) in attesa della sua definizione. Il giudizio si concludeva con una sentenza sottoposta agli ordinari mezzi di impugnazione, «idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale tra le parti del rapporto» ma di «rilevanza meramente processuale». Proprio l'estrema complessità dell'impianto e l'impatto inevitabilmente negativo sui tempi di definizione dell'esecuzione, ha condotto il legislatore a modificare radicalmente la struttura dell'accertamento dell'obbligo del terzo, che oggi – com'è noto- si innesta in seno alla stessa procedura esecutiva costituendone una parentesi, con conseguente riduzione dei tempi di decisione e semplificazione delle modalità di accertamento. La trattazione del subprocedimento spetta oggi, dunque, al giudice dell'esecuzione che emetterà, a conclusione, «una ordinanza priva di ogni efficacia panprocessuale, per definizione inidonea (anche soltanto in potenza) alla formazione di un giudicato sull'an o sul quantum del debito del terzo nei confronti dell'esecutato». Insomma, come si evince chiaramente dal testo dell'art. 549 c.p.c. «L'ordinanza produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione».

A fronte degli iniziali dubbi sulla formulazione del riformato art. 549 c.p.c., negli anni si sono formati orientamenti consolidati in ordine ad alcune questioni di importanza centrale nell'applicazione pratica della norma. In primo luogo, non vi possono essere dubbi sulla necessità che il procedimento venga avviato «su istanza di parte», non sussistendo alcun potere officioso del Giudice in tal senso, a fronte di una chiara dichiarazione di tenore negativo e di una mancata dichiarazione (ove non sia stato possibile applicare, in tal caso, il meccanismo di non contestazione di cui all'art. 548 c.p.c.). Nella decisione in commento, la Corte precisa che «l'istanza (…) va formulata secondo i modelli paradigmatici di adizione del giudice dell'esecuzione tratteggiati dall'art. 486 c.p.c. (proposizione oralmente in udienza o ricorso depositato in cancelleria: così, nel previgente regime, Cass. civ. 20 ottobre 2016, n. 21242; Cass. civ. 6 agosto 1997, n. 7280); il suo contenuto, non limitato alla mera contestazione della dichiarazione del terzo oppure alla sollecitazione di un potere di verifica del giudice dell'esecuzione, si modella a somiglianza di quello di una domanda giudiziale, con la imprescindibile allegazione degli elementi conformativi della stessa (petitum e causa petendi), ovvero con l'indicazione della misura del credito del debitore verso il terzo (possibile anche per relationem, fino a concorrenza dell'importo pignorato) e della ragione causale, del titolo dell'obbligazione da accertare». A fronte di una dichiarazione negativa pur contestata- ove il creditore non abbia formulato alcuna richiesta ex art. 549 c.p.c. - l'unico provvedimento che potrà essere adottato dal Giudice dell'esecuzione è la dichiarazione di improcedibilità dell'esecuzione; ad avviso di chi scrive, detto principio era già ricavabile dalla giurisprudenza formatasi nel vigore della precedente disciplina (cfr. Cass. civ. 20 ottobre 2016, n. 21242; Cass. civ. 17 maggio 2013, n. 12113) che prevedeva espressamente che «nell'espropriazione mobiliare presso terzi, qualora la dichiarazione del terzo sia negativa, è necessario che il creditore faccia istanza di giudizio ex art. 548 c.p.c. e che tale giudizio segua ai sensi del successivo art. 549 c.p.c., non essendo, invece, sufficiente la semplice contestazione di tale dichiarazione. Ne consegue che, in caso di inerzia del creditore procedente, il giudice dell'esecuzione, constatata la stessa, deve dichiarare estinto il processo esecutivo». E ciò tanto più nell'ipotesi in cui il tenore negativo della dichiarazione non sia discutibile, residuando in capo al Giudice il potere di chiedere chiarimenti al terzo esclusivamente nell'ipotesi in cui sussista un oggettivo dubbio interpretativo sul tenore della dichiarazione stessa.

In ordine al contenuto dell'istanza, in alcuni Tribunali (fra cui quello in cui presta servizio chi scrive) già da anni è invalsa la prassi di aprire formalmente il subprocedimento con un'ordinanza in cui, fra l'altro, si invita il creditore a notificare a debitore e terzo (al fine di consentire la corretta instaurazione del contraddittorio cui la norma stessa si riferisce) una vera e propria memoria di contestazione e ciò proprio per consentire con chiarezza la definizione del petitum e causa petendi, cui anche la decisione in commento si riferisce.

Quanto alle modalità di svolgimento del subprocedimento, le stesse sono essenzialmente affidate alle determinazioni del giudice dell'esecuzione. La formulazione dell'art. 549 c.p.c. («compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio tra le parti e con il terzo») fa indiscutibilmente propendere per «l'esonero dall'applicabilità delle regole proprie dei giudizi cognitivi opera sotto plurimi profili (…) potendo il giudice dell'esecuzione disporre ex officio ogni mezzo di prova ritenuto necessario; con il superamento dei limiti di ammissibilità stabiliti dal codice civile per alcuni mezzi di prova (…), giungendo a riconoscere come legittima finanche l'acquisizione di prove atipiche o innominate». Resta, tuttavia, fermo il principio dell'onere della prova, già delineato dalla stessa Corte di Cassazione nella giurisprudenza precedente (Cass. civ. 9 ottobre 2018, n. 24867) in forza della quale il creditore istante è tenuto a provare l'esistenza (e l'entità) del credito verso il terzo del proprio debitore (o l'appartenenza a questi della res staggita), mentre grava sul terzo pignorato il carico della dimostrazione del fatto estintivo dedotto e della anteriorità di esso al pignoramento.

Come specificato nella sentenza in commento «L'instaurazione del contraddittorio, in tal guisa operata, segna per il terzo debitor debitoris il mutamento della veste processuale: da ausiliario di giustizia (investito ope legis del munus custodiale sulle somme o cose staggite, tenuto ad una collaborazione concretata dal rendimento della dichiarazione di quantità e meritevole perciò di compenso ai sensi dell'art. 53 disp. att. c.p.c.) diviene parte in senso proprio dell'incidente di accertamento, siccome destinatario di una domanda relativa ad una sua situazione soggettiva di obbligo, pertanto abilitato sul punto a spiegare ogni più ampia difesa, ma con il necessario avvalimento di difensore munito di ius postulandi». Proprio la qualità di parte del terzo nel subprocedimento, porta a concludere per la possibilità (invero pacifica) di condannare alle spese quest'ultimo nell'ipotesi di soccombenza, ovvero nell'ipotesi in cui il giudice concluda il procedimento accertando la sussistenza dell'obbligo del terzo, nei termini indicati dal creditore. Considerata la natura contenziosa – nonostante trattasi di procedimento endoesecutivo- i parametri di liquidazione non potranno che essere quelli relativi ai «giudizi ordinari e sommari di cognizione innanzi al Tribunale», sebbene applicati in via analogica, essendo da escludere l'applicabilità dei principi di cui all'art. 95 c.p.c. e dei parametri relativi all'esecuzione presso terzi. Nella liquidazione il Giudice terrà conto dell'attività difensiva e dell'effettivo svolgimento delle fasi. Con riferimento allo scaglione di riferimento, «il valore della controversia va fissato - in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall'esegesi sistematica delle disposizioni in tema di tariffe per prestazioni giudiziali - sulla base del criterio del disputatum, cioè a dire sulla base della somma domandata con l'atto introduttivo, in caso di rigetto (ovvero di diniego della pronuncia di merito) della domanda e sulla base del criterio del decisum, cioè a dire in relazione all'importo effettivamente attribuito dal giudice, in ipotesi di accoglimento parziale dell'azione (così, da ultimo, Cass. civ. 12 giugno 2019, n. 15857)».

Osservazioni

La decisione in commento, approfondita ma al contempo estremamente chiara, ha opportunamente fatto luce su alcuni aspetti del procedimento ex art. 549 c.p.c. ed in particolare sull'individuazione del valore della controversia ai fini delle spese, dando rilievo al criterio del decisum (che comunque mai potrebbe essere superiore all'importo precettato, aumentato della metà di cui all'art. 546 c.p.c., salvo che i creditori intervenuti abbiano antecedentemente formulato istanza di estensione del pignoramento ex art. 499 c.p.c.). Sebbene concernente altra fattispecie (con implicazioni di diversi principi), analogo chiarimento sarebbe utile con riferimento allo scaglione di riferimento per la liquidazione delle spese della procedura esecutiva nell'espropriazione presso terzi. Proprio in tale tipologia di esecuzione, infatti, è assai frequente una drastica differenza fra il valore del credito azionato e quello dei beni pignorati, ragion per cui la liquidazione delle spese - ove parametrata sul primo criterio - rischierebbe di portare non solo ad un'esecuzione infruttuosa per il creditore ma addirittura al paradosso di un'esecuzione che, anziché soddisfarli, genera ulteriori crediti.

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