Arricchimento senza causa: qual è l’ambito di operatività della regola di sussidiarietà?

13 Marzo 2023

Le Sezioni Unite valuteranno se sia de seguire la tesi secondo cui l'azione di arricchimento non è ammessa solo ove quella svolta in via principale abbia titolo in un contratto o nella legge, oppure se la residualità valga sempre, quale che sia l'azione che si fa valere.
Massima

Occorre rimettere gli atti al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità di rimettere alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto giurisprudenziale sull'azione di arricchimento, ovverosia se tale azione non sia ammessa solo ove quella svolta in via principale abbia titolo in un contratto o nella legge, oppure se la regola della residualità valga sempre, quale che sia l'azione che si fa valere in via principale.

Il caso

Un comune alienava ad una società finanziaria un terreno edificabile; per effetto della variazione da parte del Piano di fabbricazione e del regolamento edilizio comunale, detto terreno diventava agricolo, con conseguente perdita di valore. A fronte della promessa dell'amministrazione comunale del ripristino della natura edificabile, la società si impegnava alla realizzazione di opere di interramento di cavi ad alta tensione per una spesa di circa 150mila euro. Nonostante la parola data, il terreno tuttavia rimaneva agricolo, per cui la società proponeva avverso il comune domanda di condanna al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale e, in subordine, per arricchimento ingiustificato. Il Tribunale rigettava per difetto di prova la domanda volta a far valere la responsabilità precontrattuale, ma accoglieva la domanda di indebito arricchimento. Avverso tale sentenza veniva interposto appello, poi accolto dalla corte territoriale, avendo quest'ultima ritenuto la domanda di arricchimento senza causa inammissibile per difetto di residualità.

La sentenza di secondo grado veniva tuttavia impugnata in Cassazione. Secondo la società ricorrente la regola di residualità di cui all'art. 2042 c.c. non era invocabile nel caso di specie, applicandosi nei soli casi in cui l'azione proposta in via principale sia fondata su un contratto o sulla legge e non quando invece l'azione principale sia fondata su una clausola generale.

La questione

La questione portata all'attenzione dei Supremi Giudici, è «se sia de seguire la tesi secondo cui l'azione di arricchimento non è ammessa solo ove quella svolta in via principale abbia titolo in un contratto o nella legge, oppure se la residualità valga sempre, quale che sia l'azione che si fa valere».

Le soluzioni giuridiche

Di fronte a tale quesito, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità di rimettere la questione alle Sezioni unite civili.

Osserva il Collegio che secondo una tesi patrocinata da parte della giurisprudenza di legittimità, presupposto per proporre l'azione di ingiustificato arricchimento è la mancanza, accertabile anche di ufficio, di un'azione tipica, tale dovendo intendersi non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile, ma esclusivamente quella derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata, pur se proponibile contro soggetti diversi dall'arricchito; pertanto, deve ritenersi ammissibile l'azione di arricchimento quando l'azione, teoricamente spettante all'impoverito, sia prevista da clausole generali (Cass. 22 marzo 2012, n. 4620; in senso analogo, Cass. 3 ottobre 2007, n. 20747; Cass. 17 maggio 2007, n. 11461; Cass. 15 luglio 2003, n. 11067). Più di recente (Cass. 17 gennaio 2020, n. 843) è stato poi precisato che il «divieto di esperire azione di arricchimento, in presenza di azione tipica, serve ad evitare duplicazioni risarcitorie, ossia ad impedire che chi ha già ottenuto risarcimento o ragione con l'azione principale poi agisca nuovamente con l'azione di arricchimento lucrando di nuovo, ed ingiustamente, una seconda volta». Tale ratio si ricaverebbe da alcune disposizioni del codice civile che prevedono come alternativa l'azione di arricchimento rispetto ad altre (artt. 936 c.c., 1591 c.c.).

Tale posizione non è tuttavia condivisa dalla decisione che qui si commenta, la quale osserva come la ratio appena riportata è «impedita di per sé dalle regole sul giudicato o comunque dal principio per cui da un fatto illecito si può avere solo un risarcimento pari al danno e non superiore ad esso»; inoltre, non è possibile per sostenere la tesi sin qui riportata invocare le norme appena citate che prevedono come alternativa l'azione di arricchimento rispetto ad altre: in primo luogo, nessun rilievo ha ai fini che qui interessano l'art. 1591 c.c., il quale prevede l'obbligo per il conduttore in mora nella restituzione della cosa di dover pagare il corrispettivo per il tempo che comunque la detiene per sé, nonché di risarcire il danno da mancato godimento del locatore, la quale pertanto non riguarda un caso di ingiustificato arricchimento ingiustificato.

Quanto all'ipotesi di cui all'art. 937 c.c., relativo alla scelta rimessa al proprietario se mantenere le opere fatte dal terzo sul proprio suolo pagandone il valore, la norma non mira ad evitare un arricchimento ingiustificato del proprietario, ma tutela un diverso interesse: se si verifica accessione, il proprietario dei materiali avrà azione per il pagamento - anche in questo caso, pari al valore di mercato dei materiali - solo nei confronti del terzo che ha eseguito l'opera. Nessuna pretesa potrà invece avanzare nei confronti del proprietario, a meno che non ne dimostri la mala fede (nel qual caso, potrà anche ottenere il risarcimento dei danni), con una sola eccezione: se il proprietario del fondo (pur in buona fede) deve ancora corrispondere (anche in parte) il prezzo al terzo che ha eseguito l'opera, il proprietario dei materiali avrà, nei limiti di tale somma, una pretesa nei suoi confronti.

Ciò premesso, il Collegio osserva che la ratio sottostante al principio di residualità è quella di evitare che chi ha perso l'azione principale «possa aggirare questo esito ricorrendo all'azione di arricchimento ingiustificato». Per tale ragione, non è possibile agire in via di arricchimento se l'azione principale è prescritta.

Sennonché, se è tale la ratio che giustifica la residualità dell'azione di arricchimento, allora, non si comprende perché essa non sussista anche nel caso in cui è stata rigettata una domanda basata su clausola generale.

La decisione prosegue mettendo pertanto in dubbio l'assunto sostenuto dalla giurisprudenza prevalente secondo cui quando l'azione principale è basata su clausola generale, per verificare se l'interessato ha un titolo da far valere (che come tale preclude l'esperibilità dell'azione di arricchimento) occorre verificare la sussistenza di tutti i presupposti per l'accoglimento della domanda. «Se è vero che “l'azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario ed è quindi inammissibile, ai sensi dell'art. 2042 c.c., allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, possa esercitare un'altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito"», allora ciò «significa che non si richiede in concreto la prova di un rimedio concorrente concretamente fruibile, ma è sufficiente che un tale rimedio risulti configurato "in astratto"».

Per il Collegio, allora, da tale premessa discende allora un importante corollario: «l'accertamento della esistenza di un titolo in astratto che giustifica una diversa azione è identico quale che sia la fattispecie su cui l'azione è fondata».

Osservazioni

Gli elementi costitutivi dell'azione di arricchimento senza causa sono cinque: 1) l'arricchimento; 2) il pregiudizio; 3) la correlazione tra pregiudizio ed arricchimento; 4) la mancanza di giusta causa; 5) la sussidiarietà dell'azione.

A differenza di quanto accade nel sistema giuridico tedesco, non viene dal nostro ordinamento affermato il principio generale che vieta di arricchirsi senza causa a spese di un altro, relegandosi l'azione in una posizione del tutto marginale e residuale, dopo la ripetizione dell'indebito e la gestione d'affari altrui. La scarsa attenzione data a tale rimedio fa sì che il divieto generale che vieta di arricchirsi senza causa resti sullo sfondo, con il rischio tuttavia di non essere ben chiari né i contenuti né l'ambito di operatività di tale azione.

Nell'ordinamento italiano la sussidiarietà dell'azione è stata da sempre intesa in senso astratto, come «non spettanza di azioni rientranti nella previsione di altre norme giuridiche» (Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2017, 712); ciò in quanto la possibilità di esperire una azione per ottenere l'indennizzo escluderebbe una situazione di definitivo impoverimento del danneggiato, anche in considerazione del fatto che se si opinasse diversamente si rischierebbe di offrire all'attore la possibilità di ottenere duplicazioni risarcitorie.

Anche la giurisprudenza ragiona in questo senso, tuttavia precisandosi che l'impossibilità di esperire l'azione di arricchimento deriva dalla presenza non già di un qualunque rimedio, ma di una azione tipica, i.e. relativa ad un contratto o prevista dalla legge (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2350; Cass. 22 marzo 2012, n. 4620, in Vita Notar., 2012, 793; Cass. 5 agosto 1996, n. 7136).

Da tale premessa discendono quali naturali conseguenze che l'azione di ingiustificato arricchimento non è esperibile quando: 1) l'azione tipica non sia più possibile perché l'impoverito è incorso in prescrizione o decadenza (Cass. 27 novembre 2018, n. 30614; Cass. 29 dicembre 2011, n. 29916; Cass. 10 giugno 2005, n. 12265); 2) il giudice adito ha rigettato l'azione tipica nel merito (Cass. 13 marzo 2013, n. 6295; Cass. 5 marzo 1991, n. 2283). Al contrario, l'azione deve ritenersi ammissibile quando l'azione tipica dia esito negativo per carenza ab origine dell'azione stessa derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento, oppure qualora la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall'interessato (Cass. 2 agosto 2013, n. 18502).

A tale nozione di sussidiarietà se ne contrappone un'altra declinata per così dire in senso concreto, a mente della quale è possibile agire ex art. art. 2041 c.c. quando, per qualsiasi ragione, non vi sia la possibilità di utilizzare altri rimedi per rimuovere il pregiudizio subito. Tale possibilità, in passato ammessa sporadicamente in giurisprudenza con particolare riguardo alle ipotesi di arricchimento indiretto, nelle quali l'incremento patrimoniale è realizzato da una persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell'impoverito (Cass. 22 maggio 2015, n. 10663; Cass. 3 agosto 2002, n. 11656, in Corr. giur., 2003, 1177), appare quella a mio avviso maggiormente condivisibile, alla luce delle seguenti considerazioni.

A prescindere dalla circostanza che in molti altri ordinamenti quali quelli di common law e quello tedesco l'azione di arricchimento non è considerata residuale, va considerato che nella realtà il problema della sussidiarietà sorge soprattutto quando il rimedio concorrente non è più usufruibile.

Ora, si è visto come in giurisprudenza si stia consolidando sempre di più una nozione di sussidiarietà "in astratto", in virtù della quale ai fini dell'esclusione del rimedio non si richiede in concreto la prova di un rimedio concorrente concretamente utilizzabile, ma è sufficiente che un tale rimedio risulti configurato "in astratto", anche se poi "in concreto" l'azione non sia esperibile per questioni processuali, preliminari di merito (si pensi alla prescrizione) o attinenti al merito.

Seguendo questa impostazione si finisce però per ridurre all'osso le possibilità di applicazione dell'azione di arricchimento, nonostante tale conclusione non discenda dall'art. 2042 c.c., il quale non implica affatto di per sé la regola di sussidiarietà in astratto accolta dalla Corte di Cassazione, ben potendo la norma essere interpretata anche nel senso di consentire il ricorso ai rimedi restitutori per lo meno quando i rimedi concorrenti non sono più di fatto usufruibili (c.d. sussidiarietà in concreto).

Lungi dall'approvare le tendenze (vecchie e nuove) manifestate dalla giurisprudenza, meriterebbe allora di essere rivista e ridiscussa l'intera questione della sussidiarietà, fermo restando la necessità di evitare che mediante l'azione di arricchimento si possa aggirare o frodare la legge (art. 1344 c.c.).

Come è stato correttamente osservato, è proprio in base al combinato disposto degli artt. 2042 e 1344 c.c. che va interpretato il principio di sussidiarietà, escludendo che «ogni applicazione dell'azione di arricchimento la cui funzione sia quella di aggirare, escludere, o in qualche modo eludere l'applicazione di norme imperative» (Gallo, Arricchimento senza causa, in Dig. disc. priv., Sez. civ., 2011, 99 ss., in part. 112).

Riferimenti
  • Astone, L'arricchimento senza causa, Milano, 1999;
  • Breccia, L'arricchimento senza causa, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, IX, 1, 1999, 973 ss.
  • Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, 809 ss.;

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