Improcedibilità per incapacità: se irreversibili, patologie mentali e patologie fisiche “pari sono”

11 Aprile 2023

Il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell'imputato contenuto nella disciplina del codice di rito sull'improcedibilità determina un'irragionevole disparità di trattamento tra l'imputato, il quale non possa esercitare l'autodifesa a causa di un'infermità mentale in senso stretto, e quello che versi nella medesima impossibilità per un'infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch'essa le facoltà di coscienza, pensiero, percezione, espressione.

Imputato affetto da SLA: perché il processo non può terminare con una sentenza di improcedibilità?

La pronuncia in commento trae origine dalle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 72-bis c.p.p. e, in subordine, dell'art. 159, ultimo comma, c.p.

Nel giudizio principale è imputata per reati edilizi una persona affetta da SLA, malattia che ne ha progressivamente determinato la paralisi, l'incapacità di parlare e finanche di respirare in autonomia, sicché il processo è sempre stato rinviato per legittimo impedimento. Ad avviso del rimettente, la prima disposizione censurata violerebbe il principio di uguaglianza nel prescrivere che il giudice pronunci sentenza di improcedibilità solo quando l'imputato non possa coscientemente partecipare al processo per patologie mentali irreversibili e non anche quando l'incapacità processuale derivi da altrettanto irreversibili patologie fisiche. Per il giudice a quo, l'impossibilità di emettere la sentenza di improcedibilità ex art. 72-bis c.p.p. in ragione della natura fisica e non mentale dell'infermità determinerebbe un'irragionevole disparità di trattamento, ricorrendo anche in tale fattispecie l'esigenza di far cessare un processo destinato a non essere mai celebrato, che assorbe inutilmente risorse pubbliche e inutilmente infligge all'imputato infermo una “sofferenza psicologica aggiuntiva”. Dal canto suo, anche l'art. 159, ultimo comma, c.p. (nel testo applicabile ratione temporis) violerebbe l'art. 3 Cost., in quanto non estende a favore dell'imputato affetto da una siffatta patologia fisica il limite massimo di durata della sospensione del corso della prescrizione viceversa fissato riguardo all'ipotesi della sospensione del processo per assenza.

L'autodifesa nel codice di procedura penale del 1988

Già all'indomani dell'entrata in vigore del codice di procedura penale, la Consulta ha sottolineato l'intangibilità del diritto dell'imputato all'autodifesa, nella prospettiva dell'art. 24 Cost., dichiarando l'illegittimità costituzionale della disciplina che, configurando l'infermità mentale quale causa di sospensione del processo, esponeva l'imputato al rischio di subire una condanna in condizioni di minorata difesa, nei casi in cui l'infermità di mente, non coincidente con la totale incapacità di intendere o di volere, risalisse al tempus commissi delicti e perdurasse nel corso del procedimento (C. cost., n. 340/1992). Il giudice delle leggi, in particolare, ha evidenziato l'accentuazione del profilo della tutela della difesa personale perseguita dal codice di procedura penale del 1988, emergente dal fatto che il nuovo art. 71 c.p.p. richiedesse, quale presupposto per la sospensione del processo, uno stato mentale che non consente all'imputato di partecipare coscientemente al processo stesso, a differenza del codice abrogato, in base al quale lo stato di infermità di mente doveva essere tale da escludere la capacità di intendere e di volere (C. cost., n. 281/1995). Nella prospettiva del nuovo codice di rito, l'autodifesa – autonoma e ulteriore rispetto alla difesa tecnica – è essenziale soprattutto nell'ambito di quegli atti che richiedono la diretta partecipazione dell'imputato (si pensi all'interrogatorio e all'esame ed alle conseguenti facoltà esercitabili al riguardo). L'esigenza di una partecipazione cosciente dell'imputato non può intendersi limitata alla consapevolezza di quest'ultimo circa ciò che accade intorno a lui, ma comprende necessariamente anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa (così C. cost., n. 39/2004): pertanto, quando, non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell'imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione al processo, questo non può svolgersi.

Le malattie degenerative compromettono una partecipazione attiva al processo

La rilevanza dello stato complessivo dell'imputato in funzione di un pieno esercizio dell'autodifesa e la connessa relativizzazione dell'importanza dell'origine fisica o mentale della patologia incidente sull'autonomia della persona, tuttavia, non hanno avuto un adeguato riscontro nella giurisprudenza di legittimità allorché si è trattato di confermare l'applicabilità dell'art. 72-bis c.p.p. all'incapacità processuale di natura fisica (Cass. pen., n. 14853/2021). L'eterogeneità tra infermità mentale e infermità fisica non sembra, però, avere valore decisivo ai fini della questione. Seppure corrisponde a una classificazione tradizionale, questa rigida distinzione postula che sia sempre possibile analizzare le manifestazioni patologiche in termini rigorosamente binari, il che non tiene conto della diffusione delle malattie degenerative, quale quella che ha colpito l'imputato del giudizio a quo, le quali hanno origine fisica e tuttavia possono determinare ugualmente l'impossibilità di una partecipazione attiva al processo.

Conta lo stato “psicofisico” dell'imputato, non solo quello “mentale”

Per il giudice delle leggi, il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell'imputato, che in linea astratta può dedursi – e che la giurisprudenza di legittimità desume – dall'impiego dell'aggettivo “mentale” nel testo dell'art. 72-bis c.p.p., determina un'irragionevole disparità di trattamento tra l'imputato, il quale non possa esercitare l'autodifesa in modo pieno a causa di un'infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un'infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch'essa le facoltà di coscienza, pensiero, percezione, espressione. Anche per patologie diverse da quelle definibili come malattie “mentali” occorre, quindi, che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere qualora sussistano le condizioni indicate dall'art. 72-bis c.p.p., cioè qualora lo stato psicofisico dell'imputato sia tale da impedirne in modo irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento nel senso del pieno esercizio delle facoltà di autodifesa e non ricorrano i presupposti per l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Per queste ragioni, la Consulta dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 72-bis, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato “mentale”, anziché a quello “psicofisico”. L'accoglimento della questione principale comporta l'assorbimento della subordinata.

*Fonte: DirittoeGiustizia

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