La colpa del medico1. Bussole di inquadramentoL'art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24, costituisce l'esito di un processo che ha visto il legislatore intervenire per correggere l'inquadramento dato dalla giurisprudenza al problema della responsabilità civile del medico, in particolare di quello operante all'interno di una struttura sanitaria. In una prima fase, protrattasi sin quasi allo spirare del passato millennio, era accolto un impianto che potremmo dire del doppio binario: da un lato la responsabilità del medico, operante all'interno di una struttura sanitaria pubblica o privata, era qualificata come responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c., essendo il medico estraneo al contratto di spedalità intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria; dall'altro lato era qualificata come contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria. Parte della dottrina riteneva che la soluzione così adottata dalla giurisprudenza non fosse soddisfacente sotto diversi aspetti: anzitutto per la diversità delle regole applicabili nei confronti del medico e della struttura sanitaria: basti pensare al riparto dell'onere probatorio, al termine di prescrizione applicabile, al quantum dei danni risarcibili (in ragione dell'applicabilità dell'art. 1225 c.c. nel solo ambito contrattuale), alla possibilità di addebitare al medico operante entro la struttura sanitaria, che rispondeva per violazione del principio del neminen laedere, soltanto la lesione arrecata alla salute del paziente, e non anche la inalterazione della stessa, quando l'intervento non avesse avuto successo, ma neppure avesse arrecato danno al paziente. Una prima svolta si è avuta con Cass. n. 589/1999, che ha collocato l'intera responsabilità medica nel campo contrattuale, ivi compresa quella del medico operante nella struttura sanitaria, attraverso l'impiego, nei suoi confronti, della responsabilità da contatto sociale. Questa impostazione, che in realtà non giova più di tanto al paziente per i fini risarcitori, dal momento che, anzi, è il patrimonio della struttura sanitaria, peraltro generalmente assicurata, ad offrire la maggior garanzia di risarcimento, ha prodotto nel corso degli anni danni innegabili, per lo sviluppo di quel fenomeno ormai generalmente qualificato come «medicina difensiva», ma anche perché la lievitazione dell'entità dei risarcimenti, dovuta ad una pluralità di fattori, ha fatto sì che le risorse del sistema sanitario pubblico e convenzionato abbiano dovuto essere destinate non già allo scopo istituzionale, ossia al buon funzionamento del sistema, ma al risarcimento dei danni. A ciò ha inteso porre rimedio l'art. 7 della legge Gelli-Bianco, che ha in breve disciplinato un nuovo sistema del doppio binario: difatti, mentre la struttura sanitaria risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. dei comportamenti dolosi o colposi degli esercenti la professione sanitaria di cui si avvalga nell'adempimento delle proprie obbligazioni verso il paziente, ancorché questi ultimi siano stati scelti dal paziente stesso e/o non abbiano alcun rapporto di dipendenza con la struttura sanitaria, l'esercente la professione sanitaria risponde dei danni causati al paziente ai sensi dell'art. 2043 c.c., tranne che nell'ipotesi dell'assunzione di un'obbligazione contrattuale direttamente nei confronti del paziente: al che si collega la previsione dell'art. 9 della stessa legge, secondo cui: «L'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave». 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Come si è evoluta nel corso del tempo la nozione di colpa del medico?
Le previsioni contenute nella Costituzione e nel Codice civile L'inquadramento della colpa medica ha da sempre un punto di riferimento fondamentale, non solo nel settore civile, ma anche in quello penale, nell'art. 1176 c.c. il quale al comma 2 stabilisce che «nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata»: in generale, dunque, il parametro di diligenza al quale il medico deve adeguarsi non è quello del bonus pater familias, bensì quello che si conviene per un professionista che esercita un'attività di così grande rilievo. Altro protagonista del dibattito è l'art. 2236 c.c., in forza del quale il sanitario risponde soltanto in caso di dolo o colpa grave, qualora la prestazione richiesta presenti problemi tecnici di particolare difficoltà. Per lungo tempo, in epoca ormai remota, un'applicazione larga di questa disposizione ha condotto la giurisprudenza ad un atteggiamento di indulgenza nei confronti dei medici, chiamati a rispondere sovente soltanto in presenza di colpa grave, colpa grave ravvisabile ogni in presenza di una condotta incompatibile con il grado di diligenza richiesto al medico, dunque nel caso di grossolane violazioni da parte sua. Questo indirizzo interpretativo, che come si diceva aveva spazio anche nel settore penale, è stato ad un dato momento sospettato di illegittimità costituzionale, sull'assunto che l'applicazione dell'art. 2236 c.c. in caso di responsabilità penale di una particolare categoria di professionisti desse luogo ad una situazione di privilegio, in contrasto col principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. Nel 1973, la Corte costituzionale ha dichiarato l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 del codice penale, sottolineando che l'esigenza di coniugare una certa tolleranza nei confronti dei medici non può trascendere nella creazione di un'area di privilegio, incompatibile col principio di uguaglianza ora menzionato (Corte cost. n. 166/1973). Di qui si era originato un orientamento che ha drasticamente ridotto il campo di applicazione dell'art. 2236 c.c.: la Consulta aveva difatti precisato che la disciplina recata dall'art. 2236 c.c. può essere impiegata solo qualora quest'ultimo incorra in colpa per imperizia, ossia per inosservanza di regole aventi natura tecnica orientative dell'attività del sanitario, cd. leges artis, sicché, a partire dal 1973, si è stabilizzato l'orientamento secondo cui la colpa medica rileva di regola indipendentemente dal connotato della gravità, mentre l'applicazione della disciplina di maggior favore di cui all'art. 2236 c.c. è stata limitata ai soli casi di colpa per imperizia.
Domanda
Dopo la legge Gelli-Bianco il medico risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale?
Sì, di regola Di regola dopo la legge Gelli-Bianco il medico risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale, giacché la legge Gelli-Bianco, nello stabilire che «l'esercente la professione sanitaria... risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 c.c.», ha ripreso e migliorato una disposizione, dal significato però equivoco, già contenuta nel comma 1 dell'art. 3 del c.d. decreto Balduzzi (d.l. n. 158 del 2012, convertito in l. n. 189 del 2012), riferita al medico, secondo cui: «... resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.», riproponendo, in una nuova prospettiva complessiva di riassetto della materia, il sistema del doppio binario: e cioè la legge Gelli-Bianco è intervenuta sulla responsabilità del medico operante nella struttura sanitaria, qualificandola come extracontrattuale, ma ha anche sancito per via normativa la riconducibilità della responsabilità della struttura sanitaria, sulla quale il decreto Balduzzi taceva, all'ambito contrattuale: in tal modo, il livello di tutela garantito al paziente, che ha come naturale controparte la struttura sanitaria, rimane intatto, almeno sotto il profilo dell'an, mentre si alleggerisce la posizione del medico, per le ragioni dianzi indicate.
Domanda
Vi sono ancora casi in cui la responsabilità del medico rimane contrattuale?
Le previsioni della Legge Gelli-Bianco L'art. 7 della legge Gelli-Bianco ha collocato nel comparto aquiliano la responsabilità dell'«esercente la professione sanitaria nell'ambito della struttura sanitaria pubblica o privata»: e ciò perché, normalmente, tra il medico che opera nella struttura sanitaria ed il paziente che vi fa ingresso non intercorre alcun vero e proprio rapporto contrattuale, che sorge invece tra il paziente e la struttura sanitaria, quale contratto di spedalità; è stata in tal modo per così dire rottamata, per via normativa, la costruzione della responsabilità simil-contrattuale del medico c.d. da contatto sociale. In forza della citata norma, dunque, risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale l'esercente la professione sanitaria operante: a) all'interno della struttura sanitaria pubblica o privata, anche se scelto dal paziente e ancorché non dipendente della struttura stessa (art. 7, commi 1 e 3); b) in regime di libera professione intramuraria (art. 7, commi 2 e 3); c) in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale (art. 7, commi 2 e 3); d) attraverso la telemedicina (art. 7, commi 2 e 3). Ma, se non sorge un rapporto contrattuale medico-paziente per il fatto che quest'ultimo si rivolga alla struttura sanitaria, non è escluso, ovviamente, che un simile rapporto contrattuale possa venire ad esistenza ogni qual volta il paziente si rivolga direttamente al medico – basti pensare al caso del dentista «privato» – al di fuori di una struttura sanitaria. Ed il rapporto contrattuale può intercorrere, quando sussistano i requisiti necessari alla conclusione di un contratto, con lo stesso medico anche se operante nella struttura sanitaria: è per questo che il comma 3 della stessa norma qualifica come extracontrattuale la responsabilità del medico «salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente»: ma di vero e proprio contratto deve trattarsi, e cioè di scambio di consensi tra l'uno nell'altro, e non di puro e semplice c.d. contatto sociale. Sembra allora che, nella logica della norma, la previsione secondo cui la responsabilità del medico è aquiliana anche se questi è «scelto dal paziente e ancorché non dipendente della struttura stessa» si riferisca non ad una pattuizione intercorrente tra il paziente ed il medico, nel qual caso la responsabilità è contrattuale, ma ad una scelta che il paziente fa nei confronti della struttura sanitaria, senza che ciò determini uno scambio di consensi, e dunque la conclusione di un contratto, tra paziente e medico.
Domanda
La legge Gelli-Bianco è intervenuta sulla configurazione della diligenza richiesta al medico e dunque sulla colpa medica?
Sì, la legge Gelli-Bianco comporta una complessiva ridefinizione dei confini della colpa medica In generale, può dirsi che la colpa intanto sussiste, in quanto il danneggiante abbia cagionato il danno per effetto di una condotta difforme dal modello definito dalla legge o recepito dalle regole di comune diligenza in ciascun caso applicabile. Al riguardo, la S.C. richiede al medico un coefficiente di diligenza superiore alla media, laddove afferma che occorre riferirsi al grado di diligenza «del regolato ed accorto professionista, ossia del professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale» (si vedano tra le tante per una simile impostazione Cass. n. 1441/1979; Cass. n. 1847/1988; Cass. n. 3492/2002; Cass. n. 9471/2004; Cass. n. 23846/2008), il tutto anche in ipotesi di prestazione eseguita volontariamente ed a titolo gratuito (Cass. n. 18230/2014). Come è stato anche di recente ribadito, la diligenza nell'adempimento della prestazione professionale medica deve essere valutata assumendo a parametro non la condotta del buon padre di famiglia, ma quella del debitore qualificato, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. (Cass. n. 30999/2018, che ha cassato con rinvio la sentenza della corte d'appello che aveva ritenuto diligente la condotta dei sanitari che, in presenza di sintomi aspecifici, quali svenimento e cefalea, non univocamente riconducibili ad un aneurisma cerebrale, ma nemmeno tali da escluderlo, avevano omesso di prescrivere al paziente tempestivi approfondimenti diagnostici con particolare riguardo alla TAC cranica). Non v'è dubbio che tale è la regola alla quale tutti vorremmo si attenessero i medici. E però, ciò si traduce in una irrealistica pretesa di onniscienza, che impone al medico «il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica» (Cass. n. 2466/1995; Cass. n. 4852/1999). Le conseguenze sono sbilanciate, giacché, se in definitiva si pretende che le conoscenze di ogni singolo medico, dal medico di base allo specialista di una determinata branca, debba «necessariamente comprendere la conoscenza di tutti i rimedi che non siano ignoti alla scienza ed alla pratica della medicina» (Cass. n. 1441/1979), si finisce per creare una condizione di incertezza sulle condotte che, ex ante, il medico deve potersi rappresentare come dovute, e per effettuare la valutazione di diligenza non ex ante, ma ex post. L'intervento sulla materia della legge Gelli-Bianco si rinviene nell'art. 5, comma 1, laddove è stabilito che: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie ... si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida ... In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Secondo il successivo art. 6, che novella l'art. 590-sexies c.p., concernente «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario»: «Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida ... ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Dopo di che, l'art. 7, comma 3, qualificata come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, nei limiti prima indicati, soggiunge che: «Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della presente legge e dell'art. 590 sexies c.p. Per questa via, il legislatore perviene ad una soluzione almeno nel proposito equilibrata, giacché individua un parametro di riferimento, quello delle linee guida e buone prassi, pur sempre rapportate al caso concreto e non valutate in astratto, al quale ancorare la verifica della condotta del medico, considerata in una prospettiva ex ante. L'interrogativo che il complesso normativo menzionato pone, in particolare laddove ricollega l'osservanza delle linee guida e buone prassi alla quantificazione del danno, attiene al rilievo che l'osservanza delle linee guida e buone prassi riveste, e cioè se essa, prima ancora che sul piano del quantum debeatur, abbia ad incidere sulla stessa sussistenza dell'illecito, sotto l'aspetto della diligenza richiesta al medico nell'adempimento della prestazione. In proposito, occorre osservare che le linee guida attengono essenzialmente al profilo della «perizia» del medico, ossia al rispetto delle leges artis della professione medica, sebbene non vi sia soluzione di continuità tra linee guida ed obbligo di diligenza, giacché le linee guida, «hanno parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia» (Cass. pen., S.U., n. 8770/2018). Con le linee guida è dunque introdotta una chiara distinzione tra responsabilità per imperizia e responsabilità per imprudenza o negligenza ex art. 1176 c.c.. Tale distinzione – la perizia da un lato, la prudenza e diligenza dall'altro – non ha di regola rilievo in sede di responsabilità civile, salvo che per quanto previsto dall'art. 2236 c.c., secondo cui il professionista risponde solo per colpa grave ove messo dinanzi alla «soluzione di problemi di particolare difficoltà», norma appunto interpretata come riferita al requisito della perizia. Con la legge Gelli-Bianco è dunque valorizzata la distinzione tra responsabilità per imperizia e quella, più in generale, per imprudenza o negligenza ex art. 1176 c.c., norma che conserva il suo spazio applicativo in ordine alle ipotesi di responsabilità «per imprudenza o negligenza», nell'ambito della quale non è destinata ad incidere l'osservanza della perizia da parte del medico.
Domanda
Quando ricorre la colpa del medico?
Gli orientamenti della Suprema Corte La definizione della colpa è data per premessa dall'art. 2043 c.c., sicché la nozione va tratta dall'art. 43 c.p., secondo cui la colpa consiste in «negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline». Ciò già consente di porre una distinzione tra colpa generica e colpa specifica, l'una derivante da negligenza, imprudenza o imperizia, l'altra da violazioni di leggi, regolamenti, ordini o discipline. L'indagine che occorre compiere al fine di verificare se il medico versi in colpa è ben delineata dalla giurisprudenza penale, in particolare formatasi dopo la legge Gelli-Bianco. Viene osservato (Cass. pen., n. 15258/2020) che il giudice di merito investito del compito di pronunciarsi in ordine alla responsabilità dell'esercente una professione sanitaria per l'evento causato nel praticare l'attività, ove concluda per la attribuibilità di detto evento alla condotta colposa dell'imputato, è tenuto a rendere una articolata motivazione, dovendo indicare: 1) specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e, nel primo caso, se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza); 2) se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali; 3) appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle pertinenti linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali (Cass. pen., n. 37794/2018) e più in generale quale sia stato il grado della colpa. Le linee guida, però, contengono esclusivamente o prevalentemente raccomandazioni necessariamente generiche, con la conseguenza che l'adattamento al caso specifico è pressoché indefettibile. Anche in quest'opera può insediarsi un errore; il giudice deve saperlo riconoscere e misurare. Riconoscerlo significa, necessariamente, operare la corretta qualificazione della condotta, accertando se essa sia stata negligente, imprudente o imperita. Con specifico riferimento alla responsabilità sanitaria si è sostenuto che l'errore diagnostico è frutto di imperizia (Cass. pen., n. 57/1998); mentre la scelta compiuta dal sanitario il quale, tra due possibili modalità d'esecuzione di un intervento chirurgico, abbia preferito quella ritenuta più agevole ancorché maggiormente rischiosa, integra gli estremi della condotta imprudente (Cass. pen., n. 45126/2008). La più recente Cass. pen., n. 15258/2020 ritiene però tendenzialmente impossibile operare delle generalizzazioni assolutizzanti, per le molteplici espressioni dell'esercizio delle attività sanitarie, perché almeno nella maggioranza dei casi uno stesso atto medico può mettere radici in causali diverse. La decisione deve quindi riuscire a delineare l'origine dell'errore, facendo applicazione, quale criterio di massima, del principio secondo cui l'imperizia è concetto proprio dell'esercizio di una professione e si configura nella violazione delle regole tecniche della scienza e della pratica o leges artis con ciò differenziandosi dalla imprudenza e negligenza alla cui base vi è la violazione di cautele attuabili secondo la comune esperienza. Rientra cioè nella nozione di imperizia il comportamento attivo o omissivo che si ponga in contrasto con le regole tecniche dell'attività che si è chiamati a svolgere (Cass. pen., n. 16944/2015). Ne consegue che: a) la perizia è connotato di attività che richiedono competenze tecnico scientifiche o che presentano un grado di complessità più elevato della norma per le particolari situazioni del contesto; essa presuppone la necessità che il compito richieda competenze che non appartengono al quivis de populo e che sono tipiche di specifiche professionalità; b) in linea di massima, l'agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad essere valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l'uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l'evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza. Sarà allora necessario isolare con precisione tale errore, sulla scorta di pertinenti dati fattuali che ne attestano la ricorrenza.
Domanda
Su chi ricade l'onere della prova della colpa del medico dopo la legge Gelli-Bianco?
L'orientamento della Suprema Corte L'art. 2043 c.c. stabilisce che qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Tradizionalmente la disposizione è stata interpretata, in combinato disposto con l'art. 2697 c.c., nel senso che l'attore provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio: e cioè, in termini generali, il danneggiato ex art. 2043 c.c. è tenuto a dimostrare gli elementi costitutivi dell'illecito, ossia il fatto, il danno conseguente e, sul piano soggettivo, il dolo o la colpa del soggetto agente. Tale regola generale trova applicazione non soltanto in tema di risarcimento del danno patrimoniale ma anche per colui il quale agisca in giudizio richiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale che, pur ormai risarcibile anche oltre i casi previsti dall'art. 2059 c.c., non è mai in re ipsa, ma esige quale danno-conseguenza sempre la prova, che va fornita da parte del danneggiato, delle effettive e concrete ripercussioni che l'illecito ha avuto sulla sua vita personale (v. per tutte Cass. S.U., n. 26972/2008). All'atto pratico, tuttavia, la generalissima regola così riassunta vuol dire ben poco, ed anzi, in considerazione delle innumerevoli varianti che rilevano nella materia, anche in considerazione della conformazione del caso concreto, non ha costrutto l'intento di stabilire una volta per tutte a chi spetta l'onere probatorio tra l'attore e il convenuto. Il che, nel campo della responsabilità medica, così come in altri campi, assume un rilievo peculiare. Nel corso del tempo, difatti, la giurisprudenza è largamente intervenuta nel governo dei meccanismi di distribuzione dell'onere probatorio, perlopiù al fine di alleggerire la posizione del paziente, così da favorire la realizzazione delle sue aspettative di tutela. In epoca ormai remota, a tale scopo, si è affermata la distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione: l'esordio di questo orientamento si ha con Cass. n. 6141/1978, che, muovendo dall'assunto secondo cui in caso di interventi di routine la realizzazione del risultato è la norma, adotta per l'ipotesi di esito negativo dell'intervento, una presunzione di colpa del medico, al quale spetta di provare di essere stato dirigente nell'esecuzione della prestazione, ovvero che l'esito sia stato cagionato «dal sopravvenire di una causa imprevista ed imprevedibile secondo l'ordinaria diligenza professionale», o ancora dell'«esistenza di particolari condizioni fisiche del malato». In seguito, ha assunto un rilievo centrale la notissima Cass. S.U., n. 13533/2001 (che non riguardava la materia della responsabilità professionale medica), secondo cui il creditore, dunque in questo caso il paziente, deve fornire la prova dell'esistenza dell'obbligazione, e soltanto allegare l'inadempimento della controparte, essendo onere del debitore dimostrare l'avvenuto adempimento, ovvero la causa non imputabile dell'inadempimento: di ciò si è già discorso nel paragrafo L'onere della prova nelle cause di responsabilità medica. Questo orientamento è tuttora attuale, per quanto riguarda la responsabilità della struttura sanitaria, che è normativamente costruita come responsabilità contrattuale, anche se un importante riassetto ha avuto luogo con riguardo al tema dell'onere della prova del nesso di causalità, che, come si è visto a suo tempo, è attualmente fatta ricadere sul paziente. Lo stesso orientamento è ancora attuale in tutti i casi in cui la relazione paziente-medico si atteggia quale relazione contrattuale, ai quali si è accennato poc'anzi. Il quesito è allora il seguente: il riparto degli oneri probatori operante nei confronti della struttura sanitaria, ovvero del medico che sia in rapporto contrattuale con il paziente, può essere applicato anche in caso di domanda proposta nei confronti del medico esercente in una struttura sanitaria pubblica o privata, che, alla stregua della legge Gelli-Bianco, risponde per responsabilità extracontrattuale? La risposta non può che essere negativa: nella rinnovata previsione della legge Gelli-Bianco, che è inquadrato la responsabilità del medico che opera nella struttura sanitaria, «salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente», il paziente deve provare la sussistenza degli elementi costitutivi dell'illecito e dunque la condotta colposa o dolosa, il nesso di causalità ed il danno e, inoltre deve far valere la pretesa risarcitoria nel più breve termine quinquennale di prescrizione. In tal senso appaiono i primo responsi della giurisprudenza di merito, secondo la quale, qualora l'azione venga proposta solo nei confronti del medico che abbia svolto la sua opera professionale in maniera improvvida presso la struttura sanitaria, senza però allegare alcunché in ordine ad un rapporto contrattuale sorte tra le parti, la responsabilità non può che avere natura di illecito ex art. 2043 c.c., per il quale l'onere probatorio cade sull'attore (Trib. Benevento 20 giugno 2022, n. 1434; Trib. Benevento 17 giugno 2022, n. 1429). E già nel caso di applicazione del decreto Balduzzi (che, secondo la prevalente giurisprudenza di merito, a differenza della Cassazione, qualificava come extracontrattuale la responsabilità del medico) era stato affermato che, qualora il danneggiato agisca nei confronti del medico senza allegare l'esistenza di un contratto d'opera professionale con lo stesso concluso, deve ritenersi che il rapporto che si instaura con il professionista abbia natura extracontrattuale, e ciò con la conseguenza che la sua responsabilità (al pari di quella degli altri esercenti le professioni sanitarie) è da ricondursi nell'alveo di quella da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue principalmente in tema di riparto dell'onere della prova, di termini di prescrizione e del diritto al risarcimento del danno (Trib. Milano 23 agosto 2016). 3. Azioni processualiUlteriori azioni processuali Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione). Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo Mediazione Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. Tra i due strumenti sussistono similitudini e diversità, che possono rendere preferibile l'uno o l'altro. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso 1, «La responsabilità della struttura sanitaria». Competenza per territorio La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Competenza per valore La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Rito applicabile La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Legittimazione attiva e passiva Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Contenuto dell'atto introduttivo Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). 4. ConclusioniLa colpa medica è tradizionalmente parametrata sull'art. 1176, comma 2, c.c.. Mantiene rilievo l'art. 2236 c.c., secondo cui il medico risponde soltanto in caso di dolo o colpa grave, qualora la prestazione richiesta presenti problemi tecnici di particolare difficoltà. Tale disposizione è stata tuttavia profondamente depotenziata dalla giurisprudenza, con l'affermazione che la colpa medica rileva di regola indipendentemente dal connotato della gravità, mentre l'applicazione della disciplina di maggior favore di cui all'art. 2236 c.c. è stata limitata ai soli casi di colpa per imperizia. Con la legge Gelli-Bianco occorre considerare che al medico operante nella struttura sanitaria non può applicarsi il riparto degli oneri probatori operante nei confronti della struttura sanitaria, ovvero del medico che sia in rapporto contrattuale con il paziente. |