Il nesso causale nel caso di concorso di cause naturali

Mauro Di Marzio

1. Bussole di inquadramento

Al verificarsi dell'evento possono concorrere più cause. Ciò:

– può accadere perché più danneggianti abbiano separatamente posto in essere condotte causative del medesimo pregiudizio: l'ipotesi è considerata dall'art. 2055 c.c., il quale stabilisce che, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno, ma colui che lo ha risarcito ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate;

– può accadere perché alla causazione del danno abbia concorso, unitamente al danneggiante, lo stesso danneggiato: l'ipotesi è considerata dall'art. 1227, comma 1, c.c., secondo cui, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate;

– può accadere perché alla causa azione del danno abbia concorso, unitamente alla condotta del danneggiante, l'intervento di una causa naturale, non innestata, cioè, né dalla condotta del danneggiante, né del danneggiato: l'ipotesi si ritiene perlopiù considerata dall'art. 41, comma 1, c.p., secondo cui il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento.

Le diverse ipotesi vanno discusse separatamente, rammentando che al concorso di colpa del paziente è stato già dedicata un'apposita trattazione.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Cosa si intende per responsabilità proporzionale? 

È discusso, in dottrina e giurisprudenza, se l'ordinamento risponda ad un principio di causalità proporzionale, o di rilevanza delle concause, in particolare di fonte naturale

L'opinione tradizionale esclude l'esistenza, a tal riguardo, di una regola di apporzionamento causale, dal momento che l'ordinamento, anzi, si fonda, quanto al funzionamento del nesso di causalità, sul principio c.d. all or nothing, in forza del quale il nesso di causalità c'è per intero o non c'è affatto, senza che possa attribuirsi rilievo a concause naturali che non siano state da sole sufficienti a cagionare l'evento. Si trova così affermato che «solo nel caso in cui le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo, si palesino sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dall'apporto del comportamento umano imputabile, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale, senza che, in caso contrario, la sua piena responsabilità per tutte le conseguenze scaturenti secondo normalità dall'evento medesimo possa subire una semplice riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa»(Cass. n. 981/1991). Su tale linea, fino al 2009, la S.C. ha sempre posto l'intero danno carico del medico autore della condotta causativa di danno, anche in caso di accertamento della concorrente efficienza causale di patologie pregresse del paziente (Cass. n. 2335/2001; Cass. n. 5539/2003; Cass. n. 7997/2005).

A fondamento di tale soluzione si è evidenziato per un verso che l'art. 2043 c.c., laddove impiega il verbo «cagionare», non potrebbe che essere inteso in un'accezione naturalistica e, per altro verso, che, se l'art. 1227, comma 1, c.c., non costituisse un'eccezione alla regola generale, determinata dalla particolare natura della concausa, sarebbe superfluo.

Un tentativo di mutare l'orientamento si è avuta con Cass. n. 975/2009, che, attribuendo rilevanza giuridica alle concause naturali preesistenti, ha condannato il medico a risarcire il danno in misura proporzionale all'apporto casuale dell'inadempimento. In tale prospettiva, gli artt. 1227 e 2055 c.c. vennero considerati indicativi dell'esistenza di un generale principio di «frazionamento della responsabilità», giustificato dall'esigenza di equità e giustizia sostanziale, esigenza suscettibile di essere soddisfatta attraverso l'art. 1226 c.c., così da impedire che dell'intero danno debba rispondere «il responsabile di una sola porzione di esso».

La soluzione non ha persuaso la giurisprudenza successiva, tanto che Cass. n. 15991/2011, respingendo anzitutto la lettura dell'art. 1226 c.c., sul rilievo che la norma fissa soltanto un criterio di liquidazione equitativa di un danno che presuppone già accertata sul piano causale; l'ordinamento, inoltre, non conoscerebbe un principio di apporzionamento causale, ed anzi accoglierebbe il principio opposto all or nothing, e gli artt. 1227 e 2055 c.c., lungi dall'essere espressione di un principio generale, costituirebbero eccezione alla regola, tanto più che l'art. 2055 c.c. opera soltanto nei rapporti tra i danneggianti; l'art. 41 c.p. prevede espressamente che il concorso di cause, anche se indipendenti dall'azione o dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità salvo si tratti di causa da sola sufficiente a cagionare l'evento.

L'inquadramento proposto, alla luce del quale la condotta del danneggiante, pur in presenza di una concausa naturale, quale ad esempio la preesistente condizione patologica del danneggiato, è da ritenere interamente legata da rapporto di causalità materiale al danno, sarebbe poi conforme, sul piano comparatistico, alla cd. thin skull rule, o eggshell skull rule, propria del common law, che si riassume altresì nella formula take your plaintiff as you find him: volta alla tutela delle persone fragili. La soluzione così delineata, infine, presenterebbe «notevoli vantaggi in termini di efficienza sotto il profilo dei costi transattivi imposti dal processo, una volta che un netto confine tra lecito ed illecito sul piano della causalità materiale attinge ad elevati gradi di certezza del giudizio risarcitorio, evitandone “zone grigie” entro la quale la responsabilità oscilli in varia misura percentuale».

Ma la giurisprudenza successiva non ha persuaso buona parte della dottrina, mossa, al fondo, dall'evidente carattere di ingiustizia di una lettura del complesso normativo la quale, in estremo, attribuisce al medico che abbia cagionato per ipotesi un evento infausto con un apporto causale dell'1%, essendo stato l'evento cagionato per il 99% da una causa naturale, la responsabilità dell'evento medesimo nel 100%.

Nondimeno, la S.C. resta ferma nella propria opinione, di totale adesione alla logica all or nothing, anche a costo di pervenire a soluzioni che riescono a stare in piedi solo all'interno del ragionamento giuridico, se si dà credito alla maccheronica traduzione che Calamandrei dava del motto tot capita tot sententiae: ossia, tutto capita nelle sentenze. È stato detto, infatti, che la vittima di un sinistro stradale, deceduta in seguito al rifiuto di ricevere delle trasfusioni di sangue per ragioni religiose, non può essere considerata corresponsabile della propria morte, con l'effetto di vedere ridotto il risarcimento dovuto dal danneggiante, per il solo fatto di essere salita su una vettura ed avere così accettato, in maniera volontaria ed imprudente, il rischio della circolazione benché fosse consapevole di non potersi sottoporre a determinate cure mediche, poiché tale rifiuto è espressione del diritto all'autodeterminazione spettante ad ogni individuo (Cass. n. 515/2020). Insomma, la S.C. è giunta ad equiparare le convinzioni religiose del soggetto ad una causa naturale concorrente. Ora, quanto strampalata sia la soluzione si percepisce sol che si consideri che il diritto di rifiutare le cure (al di fuori dei trattamenti sanitari obbligatori) è riconosciuto e garantito, prima ancora che dalla libertà religiosa, dall'art. 32 Cost., sicché, se dovesse darsi credito al ragionamento della S.C. dovrebbe riconoscersi che il medico il quale abbia per avventura commesso un banale errore, suscettibile di essere immediatamente rimediato con un altrettanto banale correttivo, ma letale con l'andar del tempo se non corretto, debba rispondere di omicidio colposo qualora il paziente, depresso ed afflitto da manie suicidarie, sfrutti l'occasione per darsi la morte rifiutando l'intervento correttivo.

Causalità all or nothing e «più probabile che non»

Il tema si collega con quello del «più probabile che non», giacché quell'1% di apporto causale ben potrebbe essere stato accertato su un piano soltanto probabilistico, così da rendere la relazione tra la condotta del sanitario e l'evento avverso davvero troppo lontana. Viceversa, un approccio proporzionale alla responsabilità consentirebbe di superare l'evidente «nocciolo di iniquità», come è stato detto, racchiuso dal criterio del «più probabile che non». Una volta scelta la strada del «più probabile che non», non sembra accettabile coniugare tale criterio di verifica della sussistenza del c.d. nesso di causalità materiale con l'approccio all or nothing, tanto più se l'attenzione si focalizza anche sulla prevedibilità dell'esito dei giudizi risarcitori: l'unione di «più probabile che non» e all or nothing dà infatti luogo al fenomeno che è stato definito di damages lottery. Nondimeno, la S.C., nel dare ingresso alla altamente fluida regola del «più probabile che non», ha volutamente omesso di precisarne il funzionamento dal versante del quantum: in Cass. n. 21619/2007, in cui si discorre diffusamente di «più probabile che non», la S.C., dopo aver licenziato un lungo saggio sulla causalità, si arresta dinanzi al rilievo che «non è compito di questo collegio affrontare il tema del criterio risarcitorio».

Né vale richiamare, a sostegno dell'approccio all or nothing, il principio del cd. thin skull rule: se l'agente ha cagionato una ferita all'emofiliaco, che per questo decede; se ha investito un soggetto psichiatrico, che, a causa delle sue condizioni preesistenti, cade in una depressione che lo conduce al suicidio; se, a causa di un improvvido movimento a bordo di un mezzo pubblico, ha urtato la calotta cranica eccezionalmente sottile del suo vicino, e lo ha in tal modo ucciso; egli deve risarcire l'intero danno cagionato in ossequio alla regola take your plaintiff as you find him. Ma questa regola non è necessitata dalla logica, ed è bensì frutto di una precisa scelta politica: se non si tutelassero in tal modo i soggetti più fragili, si incrementerebbe la loro esclusione dal circuito sociale, si costringerebbero le persone svantaggiate, com'è stato detto, a non uscire di casa. Sembra però che la cd. thin skull rule non sia richiamata a proposito in ambito sanitario. La cd. thin skull rule costituisce infatti un'eccezione alla regola della causalità adeguata (ed al limite della foreseeability), eccezione per l'appunto dettata, in un frangente che si discosta da quello ordinario, per ragioni di complessiva utilità sociale.

Ma non è questo il caso della responsabilità sanitaria, dal momento che, in tal caso, la condizione di debolezza della vittima non costituisce eccezione alla regola generale, ma è dato per lo più connaturato alla condizione di paziente: si va normalmente dal medico perché si è malati, ed il medico normalmente interviene su persone indebolite dalla malattia; e, per di più, il medico non può selezionare i pazienti su cui intervenire, ma è per definizione costretto ad arrischiarsi su persone affette da fragilità. Sicché non sembra razionale attribuire al medico conseguenze, esulanti dall'ambito della causalità proporzionale, una volta constatato che egli svolge un compito, evidentemente essenziale per i fini stessi della realizzazione del diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost., che implica, impone di intervenire su soggetti fragili.

Se vi sono considerazioni di policy da tener presente, semmai, nell'ambito della responsabilità professionale medica, esse concernono la posizione ormai eccessivamente sbilanciata del giudizio di responsabilità medica. Ciò comporta, per le strutture sanitarie, che esse debbano dislocare ingenti risorse non già ai fini del miglioramento del servizio, bensì del sempre più dilatato risarcimento del danno. In definitiva, ciò di cui si discorre è il rilievo dell'obbligo risarcitorio, come si è andato determinando, sulla sopravvivenza del servizio sanitario nazionale, che è un bene al quale sarebbe preferibile non dover in futuro rinunciare del tutto.

Esiste un principio generale di proporzionalità della responsabilità?

Come si diceva, Cass. n. 15991/2011, afferma che gli artt. 1227 e 2055 c.c. sono «norme destinate a disciplinare il concorso tra concause imputabili» e non tra causa imputabile e causa naturale. Quest'affermazione, tuttavia, non è motivata se non, in buona sostanza, con il richiamo alla tradizione, e in altri termini dà per scontato ciò che sarebbe occorso dimostrare. Cospicui, viceversa, sono ormai gli elementi utili a pervenire al risultato opposto.

Certo, l'affermazione della S.C., secondo cui le due norme si limitano a disciplinare il concorso tra concause imputabili, è conforme all'insegnamento della dottrina tradizionale. Tuttavia, ciò che, seguendo la tradizione, imponeva di negare il rilievo alle concause naturali per i fini dell'apporzionamento della responsabilità, non era tanto la formulazione degli artt. 2055 e 1227 c.c., quanto la previsione dell'art. 41 c.p., il quale stabilisce con chiarezza che le concause non escludono il rapporto di causalità se non quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Ora, questa norma ha un senso evidente – se ce l'ha, beninteso: siamo dinanzi al cospetto di un impianto manifestamente autoritario, che dottrina e giurisprudenza hanno in buona parte fatto in modo di scardinare, riconducendo l'arcigna teoria della condicio sine qua non sul più accettabile terreno della causalità adeguata – nell'ambito penale, che non può più, oggi, essere fatto indiscriminatamente traslocare in sede civile, una volta che la S.C., non solo accogliendo la costruzione del «più probabile che non», ma anche dando generale ingresso al risarcimento del danno da perdita di chances, ha costruito la causalità civile (in cui si tratta di risarcire il danneggiato) in termini totalmente distinti da quella penale (in cui si tratta di punire il reo), affrancando così la prima dalla dipendenza concettuale dalla seconda.

Nel mutato quadro, è allora ben possibile rileggere gli articoli menzionati nella prospettiva della responsabilità proporzionale o parziaria, secondo le diverse definizioni accolte dalla dottrina più recente. L'esigenza (anzitutto) di giustizia, che spinge in tal senso, appare evidente: sicché non può continuarsi a tollerare che la distinzione fra concause umane conduca ad una redistribuzione dell'obbligo risarcitorio in proporzione all'efficacia causale delle condotte dei singoli danneggianti, e la distinzione tra concause e naturali rimanga insignificante, di modo che anche una minima compartecipazione eziologica, pur in presenza di preminenti fattori causali naturali, ponga a carico del danneggiante l'intero risarcimento.

L'accoglimento di un principio generale di corrispondenza tra efficienza causale della condotta ed estensione del relativo obbligo risarcitorio può dunque essere orientato dalla lettura degli artt. 2055 e 1227 c.c. Ma non mancano altresì indici giurisprudenziali e normativi in tal senso: si pensi al congegno della compensatio lucri cum damno, alla stessa teorica del danno da perdita di chances, ovvero, sul piano normativo, all'articolo 1307 c.c., in tema di inadempimento di un'obbligazione soggettivamente complessa, il quale pone la responsabilità a carico dei soli condebitori responsabili dell'inadempimento, essendo gli altri tenuti nei limiti del valore della prestazione dovuta, o, ancora, al chiaro esempio dell'articolo 79 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, riferito proprio a cause naturali preesistenti («Il grado di riduzione permanente dell'attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravato da inabilità preesistenti ... deve essere rapportato non all'attitudine al lavoro normale, ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità»).

Il concorso di cause naturali e l'entità del risarcimento

La citata decisione del 2011 non spiega come debba procedersi a liquidare il danno risarcibile scorporando da esso quanto è stato determinato dalle condizioni patologiche preesistenti: non spiega, cioè, in che cosa debba esattamente consistere il «confronto fra le condizioni del danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse intervenuto l'evento dannoso».

Con Cass. n. 28986/2019 e Cass. n. 28990/2019 il tema del nesso di causalità e del concorso di cause naturali preesistenti è stato affrontato in vista della determinazione e liquidazione dei danni subiti da un soggetto già invalido. Viene rammentata la distinzione tra l'imputazione causale dell'evento di danno (causalità materiale: artt. 40 e 41 c.p.) e successiva determinazione del quantum (causalità giuridica: art. 1223 c.c.). Si ribadisce che non si può frazionare la responsabilità del danneggiante in funzione della effettiva incidenza dell'apporto della sua condotta. Perciò: a) una volta accertato che la causa naturale esclude il nesso di causalità tra condotta ed evento, per essere stata da sola idonea a cagionarlo, l'agente va esente da responsabilità; b) se, invece, la condotta dell'agente ha concorso con la causa naturale, la responsabilità dell'evento deve essere per intero ascritta all'autore della condotta illecita, esclusa «la possibilità di qualsiasi riduzione proporzionale della responsabilità in ragione della minore incidenza dell'apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile».

Con riguardo al quantum, si sostiene che occorre distinguere tra il caso in cui i postumi riportati dal soggetto già invalido siano analoghi a quelli che avrebbe riportato un soggetto sano ed il caso in cui i postumi siano più gravi: nel primo caso si è in presenza di una menomazione cd. coesistente, ininfluente ai fini della determinazione del risarcimento: «Se la preesistenza ha concausato la lesione iniziale dell'integrità psicofisica (come nel caso di scuola dell'emofiliaco cui venga inflitta una minuscola ferita), di essa non dovrà tenersi conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di invalidità permanente. In questo caso, infatti, la preesistenza della patologia costituisce una concausa naturale dell'evento di danno, ed il concorso del fatto dell'uomo con la concausa naturale rende quest'ultima giuridicamente irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall'art. 41 c.p.»; nel secondo caso si è in presenza di una menomazione cd. concorrente, che va invece considerata, quantificando l'invalidità accertata e quella ipotizzabile in assenza della condotta censurata, operando poi una sottrazione tra l'una e l'altra. In particolare, occorre che il consulente tecnico stabilisca il grado d'invalidità complessivo del soggetto e il grado d'invalidità precedente all'evento avverso, dopodiché è compito del giudice liquidare il dovuto con cd. metodo differenziale.

In altri termini, una malattia preesistente: 1) può costituire concausa naturale della lesione, come nel caso della persona affetta dalla sindrome delle ossa fragili, senza incidere sul quantum; in questi casi per l'accertamento della causalità materiale opera la regola dell'equivalenza causale, sicché il concorso del fattore naturale con il fattore umano è irrilevante ed il responsabile della lesione è tenuto al un risarcimento integrale; dunque, se il medico contribuisce per l'1% a cagionare un danno che per il rimanente 99% è dovuto a fattori naturali, risponde, seconda la S.C., per l'intero; 2) può costituire concausa della menomazione ed incidere sulle conseguenze risarcibili, come nel caso di chi provoca la perdita di un arto quando il danneggiato aveva già perso l'altro; 3) può non incidere sulle conseguenze risarcibili.

Le menomazioni che aumentano la disfunzionalità già esistenti vanno liquidate operando in modo da: 1) stabilire la differenza dei gradi percentuali di invalidità tra il prima e il dopo la lesione; 2) non limitarsi al «delta» dello scarto tra le percentuali di invalidità, ma attribuire valore monetario a ciascuno stato di invalidità e applicare il calcolo differenziale tra i valori monetari stessi, corrispondenti alle diacroniche invalidità biologiche.

In massima: «In tema di risarcimento del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell'evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall'art. 41 c.p. sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell'evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi “coesistente” vuoi “concorrente”, rispetto al maggior danno causato dall'illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell'art. 1223 c.c. In particolare, quella “coesistente” è, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell'illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato) sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno; viceversa, secondo lo stesso criterio, quella “concorrente” assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni».

3. Azioni processuali

Ulteriori azioni processuali

Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione).

Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo

Mediazione

Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite

Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva

Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. Tra i due strumenti sussistono similitudini e diversità, che possono rendere preferibile l'uno o l'altro. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per territorio

La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per valore

La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c.. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Rito applicabile

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Legittimazione attiva e passiva

Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Contenuto dell'atto introduttivo

La collocazione della responsabilità della struttura sanitaria dal versante contrattuale sposta il fuoco degli oneri gravanti sull'attore dal campo probatorio a quello assertivo. L'attore deve provare l'esistenza del contratto, il che è agevole, giacché il contratto si perfeziona per fatti concludenti per il fatto stesso dell'ingresso del paziente nella struttura sanitaria, e deve dedurre l'inadempimento. Si è già avuto modo di rammentare, nel commento al primo caso, che la giurisprudenza della S.C. richiede la deduzione di un «inadempimento qualificato», ossia astrattamente idoneo a cagionare il danno. È ora da aggiungere che, essendo il paziente attore assoggettato all'onere della prova del nesso di causalità, secondo l'indirizzo giurisprudenziale che si è affermato, l'onere di deduzione ― che precede quello probatorio ― deve essere rapportato anche ad esso.

4. Conclusioni

In caso di concorso tra cause umane e cause naturali la S.C. persevera a sostenere che le cause naturali non rilevano ed il danneggiante risponde come se le cause naturali non vi fossero. La giurisprudenza più recente ha tentato di individuare un criterio attraverso il quale stabilire quali effetti le c.d. preesistenze hanno sulla liquidazione del quantum.

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