Il danno biologico1. Bussole di inquadramentoL'art. 32 Cost., nei suoi due commi, stabilisce per un verso che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti e, per altro verso, che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, aggiungendo che neppure la legge può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La norma si occupa dunque simultaneamente di una pluralità di aspetti: si riferisce, infatti, tanto al diritto all'integrità psicofisica, quanto al diritto alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti, e a non ricevere trattamenti sanitari non voluti se non quelli di carattere obbligatorio. Questa disposizione, poi, è espressione dei principi fondamentali racchiusi degli artt. 2 e 3 Cost., l'uno posto a presidio dei diritti inviolabili dell'uomo, l'altro concernente il principio di uguaglianza sostanziale. Ricollegandosi a quest'ultimo, l'art. 32 Cost., collocato nel titolo dei rapporti etico-sociali, pone, nel tutelare la salute, un diritto sociale, ossia una pretesa positiva nei confronti del potere pubblico ad ottenere prestazioni sanitarie, ed è perciò espressione della concezione sociale dello Stato che anima la Costituzione della Repubblica. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Quali sono le caratteristiche principali del diritto alla salute?
Il dettato della Costituzione e le pronunce della Corte costituzionale Fra i vari diritti sociali che la Costituzione riconosce, il diritto alla salute merita una particolare attenzione, sia perché tutela un bene di rilievo primario, sia perché è stato oggetto di un sistema complesso ed organizzato di attuazione, del quale le prestazioni sanitarie costituiscono soltanto una parte: si pensi, infatti, al rilievo che possiedono, ai fini della tutela della salute, le disposizioni in tema di inquinamento ovvero di divieti o imposizione di vincoli concernenti la commercializzazione di determinati prodotti. Tuttavia, non v'è dubbio che, dal punto di vista pubblicistico, il concetto di diritto alla salute debba essere riguardato anzitutto come diritto alle prestazioni sanitarie: diritto che si riflette nell'obbligo per le istituzioni di assicurare adeguate prestazioni sanitarie, assistenziali e di prevenzione, coerentemente al mandato sociale caratterizzante il nostro ordinamento. È agevole rammentare, con riguardo alla norma costituzionale, come, da un'impostazione che riconosceva ad essa natura meramente programmatica si è passati a qualificare il diritto alla salute come diritto incondizionatamente assoluto (Corte cost. n. 202/1991; Corte cost. n. 559/1987). Il diritto alle prestazioni sanitarie In seguito si è detto che il diritto alla salute (inteso come diritto alle prestazioni sanitarie) è finanziariamente condizionato, nel senso che esso, per quanto attiene al funzionamento del servizio sanitario, deve essere oggetto di bilanciamento con altri interessi (segnatamente quello al contenimento della spesa pubblica desumibile dall'art. 97 Cost.) dotati pure essi di protezione costituzionale (Corte cost. n. 304/1994; Corte cost. n. 218/1994; Corte cost. n. 247/1992; Corte cost. n. 455/1990; Corte cost. n. 432/2005). E tuttavia la Corte costituzionale, in controtendenza rispetto a quest'ultimo indirizzo, ha anche affermato che la selezione e il contemperamento degli interessi rilevanti non deve pregiudicare il «nucleo irrinunciabile» del diritto alla salute: il che sta a significare che, se non tutte le prestazioni possono essere erogate a tutti dal Servizio sanitario nazionale, vi è nondimeno una soglia minima di prestazioni che occorre garantire indipendentemente dai costi poiché, altrimenti, lo stesso bene salute costituzionalmente garantito, inteso nel senso che si è detto, ne verrebbe compromesso (Corte cost. n. 432/2005; Corte cost. n. 233/2003; Corte cost. n. 252/2001; Corte cost. n. 509/2000; Corte cost. n. 309/1999; Corte cost. n. 267/1998). Il riconoscimento pieno del diritto alla tutela della salute, come diritto ad adeguate prestazioni sanitarie, si è in particolare realizzato attraverso la l. n. 833/l 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, legge che mirava a garantire globalmente l'effettuazione delle prestazioni sanitarie senza limiti di spesa. Prima di tale legge l'intervento sanitario era affidato ad un sistema di assicurazione obbligatoria gestito da enti pubblici, le mutue, sottoposte alla vigilanza del Ministero del lavoro. Tale sistema costituiva attuazione non già dell'art. 32 Cost., ma dell'art. 38. La svolta nella materia, si avuta per l'appunto con la legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante la istituzione del Servizio sanitario nazionale, la quale, nel dare attuazione all'art. 32 Cost., ha posto fine ad un sistema divenuto frammentario, diseguale ed insufficiente. Il danno biologico Non occorre, in questa sede, approfondire ulteriormente i complessi sviluppi nell'organizzazione del Servizio sanitario nazionale, dal momento che qui va approfondito il tema dei rimedi civilistici contemplati in generale dall'ordinamento per l'ipotesi che il diritto alla salute venga leso dalla condotta altrui, in particolare dalla condotta del medico. Conviene allora muovere dalla citazione di un classico. Un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più a fare che una scarpa; voi gli dovete il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi». Così scriveva Melchiorre Gioia verso la metà del XIX secolo. E questa impostazione è rimasta sostanzialmente ferma, nella giurisprudenza della S.C., fino alla metà degli anni 70 del secolo scorso, nel quadro del sistema bipolare accolto dalla codificazione (da un lato, sotto l'art. 2043 c.c. il danno patrimoniale; dall'altro lato, sotto l'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale, risarcibile pressoché esclusivamente in caso di condotte lesive criminose): non si risarciva cioè la lesione della salute, ma le perdite patrimoniali secondarie alla compromissione della valetudine psicofisica, il che, come è intuitivo, determinava plurime criticità, massimamente nel caso di soggetti non percettori di reddito. Qui si innesta, sulla spinta della Costituzione repubblicana, ed in particolare dell'art. 32 citato, che, come detto, tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, la nascita della figura del danno biologico, introdotto dalla giurisprudenza di merito a partire da Trib. Genova 25 maggio 1974, mossa da un'evidente finalità egualitaria: risarcire la medesima lesione della salute, indipendentemente dalla capacità reddituale della vittima, con l'attribuzione della medesima somma. In questa fase il danno alla salute, che, reciso il collegamento con la capacità reddituale, assume ben presto la connotazione del danno non patrimoniale, è nondimeno risarcito ai sensi dell'art. 2043 c.c.: il ragionamento si avvale degli apporti della dottrina, la quale aveva svuotato di contenuto l'art. 2059 c.c. con un'operazione semplice, ossia predicandone la riferibilità al solo c.d. «danno morale soggettivo», e cioè, nell'accezione del tempo, alla sofferenza interiore transeunte determinata dall'aver subito l'illecito aquiliano. Sicché, il sistema nato bipolare (danno patrimoniale – danno non patrimoniale) era trasformato in un sistema tripolare, in cui avevano cittadinanza non solo il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, ridotto al rango di mero danno morale soggettivo, ma anche un tertium genus, il danno biologico, danno non patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo, dal semplice pretium doloris, e quindi risarcibile non attraverso l'art. 2059 c.c., ma in applicazione della regola generale dettata dall'art. 2043 c.c. La sentenza Dell'Andro Il passaggio decisivo, in tale prospettiva, è rappresentato dalla c.d. sentenza Dell'Andro (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, dal nome dell'estensore), con cui la Corte costituzionale, dopo aver accolto la ormai tradizionale equiparazione tra danno morale soggettivo (transeunte sofferenza interiore per la lesione patita) e danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., optando così per un'interpretazione drasticamente limitativa del suo campo di applicazione, ha per converso potenziato l'art. 2043 il quale – ha affermato – «va posto soprattutto in correlazione con gli articoli della Carta fondamentale... e, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito». Trattando del danno biologico, dunque, il giudice delle leggi ha affermato che «l'art. 2043, correlato all'art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere... tutti i danni che... ostacolano le attività realizzatrici della persona». Con il riconoscimento della risarcibilità del danno biologico sulla base della regola c.d. del «combinato disposto» (ossia della lettura dell'art. 2043 c.c. in relazione con la norma costituzionale), l'ordinamento ha dunque ammesso il risarcimento di un danno non patrimoniale, quale il danno biologico, al di fuori, come si diceva, delle maglie dell'art. 2059: e – merita aggiungere – configurando tale danno come danno-evento, ossia come danno che si verifica in conseguenza della semplice lesione dell'interesse protetto dalla norma, la salute, indipendentemente dalle sue ricadute. La reintroduzione del sistema bipolare La situazione si è modificata radicalmente nel 2003, nel quadro di un ripensamento che nel complesso è stato determinato dall'esigenza di ricollocazione posta all'ordine del giorno dalla nuova figura del danno esistenziale, di cui più avanti si dirà. Una sorta di «gioco di squadra» attuato dalla S.C. e dalla Corte costituzionale (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003; Corte cost. n. 233/2003) ha dato luogo alla reintroduzione del sistema bipolare, ma secondo un'articolazione profondamente diversa da quella di cui si è parlato. Viene cioè percorsa la strada della c.d. interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., che – si osserva – sarebbe incostituzionale se precludesse il risarcimento di quei danni che attingono «valori della persona costituzionalmente garantiti», sicché la norma viene forzata in modo tale da accogliere il risarcimento non solo del danno morale, ma anche del danno biologico e del danno «derivante da lesione di altri interessi della persona (diversi dalla salute)», ossia del danno esistenziale. Spiega la S.C. che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona»: va perciò ricondotta a quell'area, ex art. 2059 c.c., la figura del danno biologico, unitamente a quella del danno morale e del danno derivante dalla lesione di ulteriori interessi della persona dotati di protezione costituzionale. L'impostazione «eventista» accolta dalla sentenza Dell'Andro – già contraddetta da Corte cost., n. 372/1994, secondo cui il risarcimento del danno discende dalla dimostrazione che «la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» – è anch'essa consegnata al passato dalla svolta del 2003, con le due sentenze della S.C. le quali, riferendosi al danno non patrimoniale, hanno espressamente affermato che: «Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza si tratta di danno-conseguenza». Le sentenze di San Martino 2008 L'indirizzo inaugurato nel 2003 ha infine trovato sostanziale conferma nel 2008 da parte delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 26972/2008, Cass. n. 26973/2008, Cass. n. 26974/2008, Cass. n. 26975/2008), le quali hanno precisato che le espressioni «danno biologico», «danno morale» e «danno esistenziale» posseggono una valenza soltanto descrittiva, mentre il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie, spettando al giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio patito, nell'ottica della riparazione integrale, a prescindere dal nome attribuitogli, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore-uomo effettivamente verificatisi: passaggio motivazionale, quest'ultimo, mosso dall'intento di arginare il rischio di «duplicazioni risarcitorie», e cioè di evitare, in buona sostanza, che le medesime conseguenze cagionate dalla lesione della salute possano essere reiteratamente risarcite sia sotto specie di danno biologico, sia sotto specie di danno esistenziale. In seguito, non sono mancate su questo punto prese di posizione eterodosse, come nella pronuncia secondo cui il danno biologico, quello morale e quello esistenziale costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili, il che contrasta con il principio di unitarietà del danno non patrimoniale giacché detto principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (Cass. n. 20292/2012; nonché Cass. n. 22585/2013, concernente la liquidazione del danno morale unitamente al biologico; Cass. n. 23147/2013). La definizione normativa del danno biologico Il danno biologico è stato definito dalla legge con gli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (c.d. codice delle assicurazioni), ove è detto che esso consiste nella «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». L'art. 139, comma 2, chiarisce che: «In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l'ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente» Alla luce del dato normativo, all'interno del danno biologico si individuano una componente «statica» (e cioè la lesione psicofisica presa in considerazione da un punto di vista strettamente medico-legale) ed una componente «dinamica» (e cioè la ricaduta della lesione psicofisica «sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato»). Volendo ricorrere ad un esempio, il danno biologico subito da colui che abbia subito la frattura di un arto per responsabilità altrui non consiste soltanto nella frattura, ma anche nell'impedimento allo svolgimento di tutte quelle attività «sociali», «realizzatrici», comunque non reddituali, che la frattura preclude, com'è per le attività sportive e in genere ludiche. L'importo che il danneggiato riceve a titolo di risarcimento, generalmente in applicazione di criteri predeterminati (tabelle), va quindi a risarcire anche simili perdite. In tale prospettiva il danno biologico possiede ormai, almeno tendenzialmente, una connotazione totalmente onnicomprensiva, che ha condotto all'assorbimento di altre figure in precedenza utilizzate ed oggi prive di qualunque giustificazione o necessità, quali il danno alla vita di relazione (ossia il pregiudizio alla conservazione, a causa della lesione, dei rapporti sociali e di relazione stretti in precedenza), il danno estetico (ossia la compromissione dell'aspetto fisico, indipendentemente dalle ricadute reddituali) e del danno alla sfera sessuale. In tal senso si trova affermato che il pregiudizio di tipo estetico viene abitualmente risarcito all'interno del danno biologico, inclusivo di ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, ivi compresi il danno estetico e alla vita di relazione, a meno che esso abbia provocato ripercussioni negative non soltanto su un'attività lavorativa già svolta ma anche su un'attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all'età, al sesso del danneggiato e ad ogni altra utile circostanza particolare, nel quale caso può essere riconosciuto per esso un danno patrimoniale purché venga fornita una prova rigorosa di una concreta riduzione del reddito conseguente alle menomazioni subite (Cass. n. 13391/2007; Cass. n. 702/2010). Insomma, poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, ed il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l'operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili (Cass. n. 11950/2013; Cass. n. 21716/2013; Cass. n. 336/2016). Ciò non vuol dire che il pregiudizio estetico non possa determinare ricadute sul piano del danno patrimoniale. I postumi di carattere estetico conseguenti ad un fatto lesivo della persona possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l'aspetto strettamente patrimoniale, quando provochino ripercussioni negative su un'attività lavorativa già svolta o su un'attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all'età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare; in tutti gli altri casi, il danno estetico non potrà mai essere considerato una voce di danno a sé, aggiuntiva ed ulteriore rispetto al danno biologico (Cass. n. 14246/2020). Liquidazione del danno biologico Il danno biologico è temporaneo e/o permanente. Quello temporaneo incide sull'integrità psico-fisica del soggetto per un limitato arco di tempo, ed a fini di liquidazione è di regola misurato in giorni. Il danno biologico temporaneo (talora qualificato come invalidità permanente, talora come inabilità permanente, con sfumature che non mette conto illustrare) può essere totale o assoluto, laddove pregiudichi integralmente il danneggiato nello svolgimento delle sue attività, oppure può essere parziale, ed in tal caso viene valutato in percentuale. Il danno biologico permanente è quello che residua dopo lo stabilizzarsi degli esiti delle lesioni, ossia il danno biologico non suscettibile di miglioramenti. Osserva in proposito la S.C. che è riscontrabile un'invalidità permanente solo allorquando la malattia abbia compiuto il suo decorso ed il leso non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità; il consolidarsi di postumi permanenti può mancare, pertanto, o nelle ipotesi in cui la patologia sia cessata (ed il leso sia del tutto guarito) oppure quando la malattia abbia avuto un esito letale (Cass. n. 3766/2005). Il danno biologico permanente viene misurato in punti percentuali dal 1% al 100%. Si distinguono in proposito le invalidità permanenti comprese tra l'1% ed il 9%, che sono qualificate come «micropermanenti», per gli effetti dell'applicazione della disciplina normativa di cui si dirà. L'accertamento e quantificazione del danno biologico e affidato alla consulenza tecnica d'ufficio ai sensi dell'art. 61 c.p.c. Il medico affidatario dell'incarico, generalmente un medico legale, provvederà a determinare la misura tanto del danno biologico temporaneo, quanto di quello permanente, attraverso le necessarie indicazioni percentuali. La S.C. conferma stabilmente l'utilizzabilità delle c.d. «tabelle» ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, sia nella voce del danno biologico che in quella del danno morale. In Cass. n. 901/2018 si riassumono come segue i termini della questione: «Va, in proposito, dato continuità al più recente orientamento di questa Corte regolatrice (Cass. 18641/2011; Cass. n. 20292/2012; Cass. n. 11851/2015; Cass. n. 7766/2016; Cass. n. 26805/2017), a mente del quale, “al di là ed a prescindere, per il momento, dalla condivisibilità di alcune affermazioni volte a negare tout court l'autonomia del danno morale quale componente risarcitoria, sì come ritenuta foriera di presunte “duplicazioni risarcitorie di incerta classificazione” (Cass. n. 21716/2013; Cass. n. 36/2016), su di un piano generale (Cass. 4379/2016) il nostro ordinamento positivo conosca e disciplini (soltanto) la fattispecie del danno patrimoniale, nelle due forme (o, se si preferisce, nelle due “categorie descrittive”) del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.), e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.)” (Cass. n. 7766/2016). La natura cd. “unitaria” di quest'ultimo, come espressamente predicata dalle sezioni unite di questa Corte con le sentenze del 2008, deve essere intesa, secondo il relativo insegnamento, come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica (Cass. S.U., n. 26972/2008). Natura unitaria sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, del rapporto parentale. Natura onnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari (in tali termini, del tutto condivisibilmente, Cass. n. 4379/2016). L'accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte. Ma, se esse non richiedono il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie, non possono per altro verso non tener conto della reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore ancor più grave, e cioè quello di sostituire una (meta)realtà giuridica ad una realtà fenomenica. Oggetto della valutazione di ogni giudice chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali è, nel prisma multiforme del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione ove si discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo – così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale per il nuovo millennio. La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta appaganti risposte al quesito circa la “sopravvivenza descrittiva” (come le stesse sezioni unite testualmente la definiranno) del cd. danno esistenziale, se è vero come è vero che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute (ma non solo), si colloca e si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto, come conseguenza della lesione medicalmente accertabile (Cass. S.U., n. 6572/2006, sia pur con riferimento alla diversa tematica del mobbing, lo definirà come “pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”). Così che, se di danno agli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto che lamenti una lesione della propria salute (art. 32 Cost.) è lecito discorrere con riferimento al danno cd. biologico (rispetto al quale costituisce, essa si, sicura duplicazione risarcitoria il riconoscimento di un autonomo “danno esistenziale”, consistente, di converso, proprio nel vulnus arrecato a tutti gli aspetti dinamico-relazionali della vita della persona conseguenti alla lesione della salute), quello stesso danno “relazionale” è predicabile in tutti i casi di lesione di altri diritti costituzionalmente tutelati. Il danno dinamico-relazionale, dunque (così rettamente inteso il sintagma “danno esistenziale”), è conseguenza omogenea della lesione – di qualsiasi lesione – di un diritto a copertura costituzionale, sia esso il diritto alla salute, sia esso altro diritto (rectius, interesse o valore) tutelato dalla Carta fondamentale». Le «tabelle» applicabili: la legge Gelli-Bianco La S.C. ha più volte confermato l'utilizzabilità delle c.d. «tabelle» ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, sia nella voce del danno biologico che in quella del danno morale. Con la precisazione, del massimo rilievo, che il giudice non può mai venir meno al proprio dovere di dar conto delle specifiche circostanze di fatto considerate ai fini della liquidazione e di «personalizzare» adeguatamente la medesima (v. p. es. Cass. n. 394/2007). In materia di responsabilità medica occorre considerare che, quanto ai criteri di liquidazione del danno biologico, non si applicano le Tabelle di Milano, attesa l'applicabilità dell'art. 7, comma 4, l. n. 24/2017 e dell'art. 3, comma 3, d.l. n. 158/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 189/2012, che hanno rinviato agli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005 per la liquidazione del danno non patrimoniale biologico. Come chiarito dalla S.C., in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente ad attività sanitaria, la norma contenuta nell'art. 3, comma 3, del d.l. n. 158 del 2012 (convertito dalla l. n. 189 del 2012) e sostanzialmente riprodotta nell'art. 7, comma 4, della l. n. 24 del 2017 – la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 (Codice delle assicurazioni private) – trova applicazione anche nelle controversie relative ad illeciti commessi e a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonché ai giudizi pendenti a tale data (con il solo limite del giudicato interno sul quantum), in quanto la disposizione, non incidendo retroattivamente sugli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite al patrimonio del soggetto leso, ma si rivolge direttamente al giudice, delimitandone l'ambito di discrezionalità e indicando il criterio tabellare quale parametro equitativo nella liquidazione del danno (cfr. Cass. civ., n. 28990/2019, Cass. n. 25274/2020; Cass. n. 22136/2022). Difatti, l'accertamento della «responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», regolata dalla legge n. 24/2017, c.d. Gelli-Bianco, comporta il risarcimento dei danni, di natura sia patrimoniale sia non patrimoniale. I danni patrimoniali non sono toccati dalla legge, sicché trovano applicazione gli artt. 1223 ss. c.c., per quanto riguarda quelli non patrimoniali sussistono regole apposite. Quanto ai danni non patrimoniali, invece, il comma 4 dell'art. 7 rinvia alla disciplina contenuta negli artt. 138 e 139 cod. ass., la quale trova applicazione indipendentemente dalla natura contrattuale o aquiliana della responsabilità della struttura sanitaria e del medico. Più in particolare il comma 4 dell'art. 7, stabilisce che: «il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo». La norma mira alla standardizzazione e contenimento della liquidazione del danno non patrimoniale in ambito di responsabilità professionale medica, escludendo dunque l'applicazione delle tabelle di formazione giudiziale, tendenzialmente più generose. In proposito la S.C. ha osservato che, nel prevedere l'applicabilità alle controversie pendenti riferite a fatti anteriori alla loro entrata in vigore delle norme contenute nell'art. 3, comma 3, della legge Balduzzi e nell'art. 7, comma 4, della legge Gelli-Bianco, ha affermato che «la trasposizione del criterio tabellare previsto nel cod. assicurazioni al settore della responsabilità sanitaria trova fondamento nelle analoghe esigenze sottese alle controversie risarcitorie che interessano le due materie» (Cass. n. 28990/2019). Bisogna inoltre ricordare che il comma 3 dell'art. 7, della Legge Gelli-Bianco prevede, nella sua seconda parte, che «il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge», il quale ultimo obbliga tendenzialmente il medico, pur tenendo conto delle specificità del caso concreto, all'osservanza delle linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali. Secondo alcuni commentatori la norma si limiterebbe ad imporre di valutare se il professionista sanitario abbia o meno rispettato le regole dell'ars medica espresse nelle linee guida e nelle buone pratiche al fine di decidere circa la sussistenza della responsabilità: e cioè si collocherebbe sul piano dell'an. Tale lettura finisce però per privare totalmente la disposizione di carattere precettivo, oltre a disattendere il dato letterale secondo cui l'osservanza delle linee guida incide sulla «determinazione del risarcimento». È da credere dunque che la previsione vada ad impattare sulla liquidazione del quantum, e che cioè imponga al giudice di operare una diminuzione dell'entità del risarcimento dovuto al paziente. Tale soluzione è stata accolta già nel vigore della precedente Legge Balduzzi (Trib. Rovereto 29 dicembre 2013; Trib. Reggio Emilia 18 maggio 2015). Si discute se l'alleggerimento del carico risarcitorio dispieghi i suoi effetti solo in favore del medico o anche in favore della struttura sanitaria, non risultando allo stato pronunce giurisprudenziali sul punto. 3. Azioni processualiUlteriori azioni processuali Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione). Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo Mediazione Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che prevede come obbligatoria condizione di procedibilità il preventivo espletamento del procedimento di mediazione, solo dopo il fallimento del quale può essere adito il giudice. L'ampia dizione impiegata dal legislatore non lascia alcun dubbio che il previo accesso al procedimento di mediazione riguarda qualunque causa di risarcimento del danno cagionato nell'esercizio dell'attività medica, indipendentemente dalla circostanza che la domanda venga proposta nei confronti del medico, o di altro personale sanitario, o della struttura sanitaria, ed altresì indipendentemente dalla natura del pregiudizio lamentato, sia che esso concerna l'integrità psicofisica del paziente, sia che abbia ad oggetto il suo diritto di autodeterminazione nelle scelte attinenti alla sfera sanitaria, come accade nell'ipotesi di intervento operato in mancanza del necessario consenso informato: in questa prospettiva, dunque, nulla rileva che la domanda risarcitoria abbia ad oggetto poste di danno patrimoniale oppure non patrimoniale, giacché, anche in quest'ultimo caso, non v'è dubbio che la condizione di procedibilità sia operante, salvo quanto subito si dirà con riguardo all'alternativa offerta dalla legge Gelli-Bianco. Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite Con la legge Gelli-Bianco, infatti, è stato previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c.. L'art. 8 l. 8 marzo 2017, n. 24, nel regolare la materia, fa i fatti «salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28», cui si è poc'anzi fatto cenno. L'art. 669-bis c.p.c., cui rinvia la legge Gelli-Bianco, disciplina un accertamento tecnico preventivo che prevede l'obbligo, per il consulente tecnico, di effettuare un tentativo di conciliazione sulla base di quanto accertato in sede di indagine tecnica: naturalmente, laddove il paziente intende intraprendere una domanda risarcitoria del danno biologico, l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio è sostanzialmente necessitato, sicché, nell'alternativa tra mediazione e accertamento tecnico preventivo affini conciliativi, quest'ultimo appare senz'altro preferibile. Il ricorso per accertamento tecnico preventivo ai fini della conciliazione della lite deve contenere gli elementi previsti dall'art. 125 c.p.c., che menziona l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o l'istanza. Non è tuttavia indispensabile indicare l'oggetto della futura domanda di merito, dal momento che il procedimento non riveste natura cautelare anticipatoria, ma appunto conciliativa. Quando la domanda giudiziale sia stata proposta senza farla precedere dalla consulenza tecnica preventiva o dalla mediazione obbligatoria, il giudice, su eccezione del convenuto o a seguito di rilievo d'ufficio non oltre la prima udienza, dispone che si dia ingresso, o se del caso si prosegua, il procedimento di consulenza conciliativa. L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. L'efficacia della conciliazione raggiunta in sede di mediazione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dell'accordo raggiunto sulla base della consulenza tecnica preventiva: entrambi gli accordi sono riconducibili sul terreno negoziale alla disciplina dell'art. 1372 c.c., e su quello esecutivo, esecutivo alla previsione dell'art. 474, comma 2, n. 1, e comma 3, c.p.c.. Non mancano però rilevanti diversità tra i due istituti relative, non solo in ragione non sovrapponibilità dell'attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, ma soprattutto in considerazione del rilievo istruttorio che detta attività assume, dal momento che la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice va fisiologicamente a far parte del corredo istruttorio della causa di merito, mentre le risultanze dell'attività svolta nel procedimento di mediazione può al più costituire prova atipica rimessa al prudente apprezzamento del giudice: per tali ragioni, come si diceva, la scelta della consulenza tecnica conciliativa appare preferibile. Competenza per territorio La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Competenza per valore La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Rito applicabile La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria», rammentando che, se si condivide quanto poc'anzi osservato con riguardo all'alternativa tra la mediazione e la consulenza tecnica conciliativa, e si ritiene preferibile quest'ultima, la domanda risarcitoria deve in tal caso seguire il procedimento semplificato di cognizione. Legittimazione attiva e passiva Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria», «La responsabilità della struttura sanitaria». Contenuto dell'atto introduttivo La collocazione della responsabilità della struttura sanitaria dal versante contrattuale sposta il fuoco degli oneri gravanti sull'attore dal campo probatorio a quello assertivo. L'attore deve provare l'esistenza del contratto, il che è agevole, giacché il contratto si perfeziona per fatti concludenti per il fatto stesso dell'ingresso del paziente nella struttura sanitaria, e deve dedurre l'inadempimento. A tale ultimo riguardo, è appena il caso di accennare che la giurisprudenza richiede la deduzione di un «inadempimento qualificato», ossia astrattamente idoneo a cagionare il danno: tuttavia, per quanto concerne i profili attinenti al danno biologico, e dunque, non all'an, ma al quantum debeatur, l'attenzione va prestata più che altro alla distinzione tra le diverse voci di danno. 4. ConclusioniLa liquidazione del danno biologico va effettuata, in applicazione della legge Gelli-Bianco, mediante le tabelle previste dagli artt. 138 e 139 cod. ass. in un'ottica di standardizzazione e contenimento dei risarcimenti. |