Il danno psichico1. Bussole di inquadramentoIl danno psichico è una specie del genere danno biologico: esso consiste cioè nell'insorgenza di una malattia psichica eziologicamente riconducibile alla condotta del danneggiante, sicché esso non ha nulla a che vedere con il danno morale soggettivo, ossia con la sofferenza interiore determinata dallo stesso illecito. Il tema deve la sua complessità per l'appunto alla difficoltà di scrutinare la relazione causale e l'addebitabilità del danno all'autore della condotta. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Come si definisce la nozione di danno psichico?
L'orientamento della giurisprudenza di legittimità Vale tuttavia osservare che, con riguardo alla nozione di danno psichico, si incontrano sovente fraintendimenti. La S.C., ad esempio, ha adoperato il concetto per definire il danno patito da colui che abbia subito una lesione dell'integrità fisica che lo abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, nel qual caso è stato giudicato configurabile «un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte» (p. es. Cass. n. 1072/2011). La confusione concettuale si acuisce altresì dinanzi a massime secondo cui costituirebbe «danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., integrando una sofferenza di particolare gravità e idonea a compromettere lo svolgimento della relazione affettiva, il danno psichico subìto in via riflessa dagli stretti congiunti di una paziente che abbia sviluppato uno stato depressivo a causa di un'erronea diagnosi di malattia mortale con breve aspettativa di vita» (Cass. n. 14040/2013). Viceversa, deve tenersi per fermo che per danno psichico si intende una sottospecie del danno biologico, dipendente da una lesione della salute tale da cagionare una malattia psichica. In giurisprudenza, ad esempio, è stata cassata con rinvio la pronuncia di merito che aveva negato il collegamento eziologico nel caso di atti di libidine continuati su una bimba di nove anni che aveva patito un disturbo psichico in conseguenza delle violenze subite (Cass. n. 13530/2009). Per il danno psichico conseguente alla morte di un parente od un congiunto, v. Cass. n. 24745/2007. Il danno biologico sta dunque al danno psichico in rapporto di genere a specie. Per la sussistenza del danno psichico occorrono perciò i medesimi requisiti richiesti per la sussistenza del danno biologico, e, in particolare, una lesione ― in questo caso ― della sfera psichica, ossia l'insorgere di una patologia psichica a carico del danneggiato, suscettibile di rilievo medico-legale. A monte del danno psichico può porsi una lesione fisica, la quale, però, secondo il nostro approccio al problema, può anche mancare: in ambito di responsabilità professionale medica può manifestarsi un'ipotesi paradigmatica di danno psichico, quale quello che può verificarsi a fronte di una errata diagnosi di una malattia di particolare gravità. Molti approfondimenti vi sono, sul tema, nella giurisprudenza statunitense, che più volte si è pronunciata sul danno da pericolo, e così sul fear of contracting disease, sotto forma di fear of cancer, fear of Aids e così via. I responsi non sono sempre omogenei. A volte il danno viene riconosciuto e risarcito, con diversi gradi di severità, sia nel suo aspetto patrimoniale (expenses for medical monitoring), sia in quello non patrimoniale, generalmente come emotional distress (slegato da una lesione fisica), ma anche talora come pain and suffering (dipendente da una lesione fisica) o come lost quality of life. A volte prevalgono considerazioni di natura tecnica (la mancanza di un physical impact) o, soprattutto, di policy: tra le figura di danno è sfuggente, è difficile da accertare nella sua oggettività, si presta a strumentalizzazioni, rischia di spostare risorse a favore di soggetti non particolarmente colpiti e di sottrarne a chi si ammala davvero. Il danno psichico, inoltre, come si è accennato, richiede l'insorgenza di una vera e propria malattia psichica: non, dunque, un generico peggioramento del tono dell'umore, un'inclinazione vagamente depressiva, ma il verificarsi di una patologia psichiatrica. Può trattarsi di una patologia permanente, ma anche di una disfunzione transitoria, destinata a risolversi con la terapia, se non per il mero decorso del tempo. Danno psichico e danno morale L'affermazione che precede, secondo cui il danno psichico richiede l'insorgenza di una patologia psichiatrica, comporta che esso non possa essere confuso con il danno morale, ossia con il «turbamento dell'animo transeunte e soggettivo». È dunque da ascrivere ad un certo grado di confusione concettuale, alla quale già si è fatto cenno, nell'impiego, da parte della giurisprudenza, di espressioni quali «sofferenza psichica», o altra equivalente, volte ad indicare, in effetti, il danno morale. Emblematico è il caso di Cass. n. 8177/1994, che pone sullo stesso piano il «turbamento ingiusto dello stato d'animo» e lo «squilibrio o riduzione delle capacità intellettive della vittima». Ciò ha determinato una ingiustificata sovrapposizione di concetti, che vanno invece tenuti nettamente distinti. Il danno morale consiste in sofferenze che non hanno una base organica, non sono sintomatiche di una malattia, né sono suscettibili di essere valutate attraverso barémes medico legali; il danno psichico richiede l'insorgenza di malattie diagnosticabile dallo psichiatra. È perciò da escludere che la sofferenza morale, per quanto grave, possa di per sé dar luogo a danno psichico. Il criterio distintivo tra danno psichico e danno morale non risiede dunque nell'intensità del dolore provato dal danneggiato, bensì nella presenza-assenza di patologie medicalmente accertabili. L'accertamento del danno psichico La difficoltà fondamentale che il danno psichico pone sul piano giudiziario e quello dell'accertamento, con particolare riguardo al nesso di causalità: ed è, questo, un campo in cui assai significativo può essere l'impatto dell'orientamento giurisprudenziale, maturato con l'avvento della legge Gelli-Bianco, che, come si è avuto modo di osservare nel capitolo «Il nesso di causalità: evoluzione giurisprudenziale in punto di riparto dell'onere probatorio», pone la prova del nesso di causalità a carico del danneggiato. Dal punto di vista della individuazione della patologia, lo strumento di riferimento di più comune impiego è il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM-5, a cura della American Psychiatric Association (APA), il quale individua gli elementi da valutare ai fini della verifica di sussistenza della malattia, fermo restando che nella pratica può essere ben difficile fissare la netta linea di demarcazione tra il disturbo mentale e manifestazioni emotive che non rientrano nel campo della malattia, soprattutto con riguardo a talune diagnosi, quali quelle di personality disorder not otherwise specified o di post-traumatic stress disorder. Si consideri, inoltre, che la S.C., nel delimitare il concetto di «infermità di mente», contenuta negli artt. 88-89 c.p., ha affermato che possono ricorrere «alterazioni» della mente che non sono patologiche (Cass. S.U., n. 9163/2005), quale il disturbo di personalità: «Tali disturbi della personalità rientrano nella più ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, com'è noto, da quella delle psicosi, queste ultime considerate, anche dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte ..., vere e proprie malattie mentali, comportanti una perdita dei confini dell'Io; il disturbo della personalità, invece, si caratterizza come “modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative di cultura dell'individuo”, e “i tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili, non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva”». Nella stessa prospettiva Cass. n. 28964/2001 ha stabilito che i disturbi della personalità sono idonei a configurare il vizio di mente solo qualora siano di gravità tale da escludere o far scemare grandemente la capacità di intendere e volere del soggetto. Il problema del nesso di causalità concernente l'insorgenza del danno psichico e poi collegato a quello della eziologia sovente multifattoriale delle malattie psichiche: è cioè evidente che il medesimo evento traumatico ― come, ad esempio, quello al quale si è accennato nella errata diagnosi di una gravissima malattia ― può produrre un danno psichico nell'uno, e non produrre alcun danno nell'altro, al seconda del carattere, dell'ambiente da cui proviene, dalle esperienze fatte, e così via. Tutto ciò, naturalmente, comporta ricadute rilevanti sull'accertamento del danno psichico in sede giudiziale, accertamento che mal si presta a ragionamenti di tipo approssimativamente presuntivo che si risolvono in un post hoc, ergo propter hoc. 3. Azioni processualiUlteriori azioni processuali Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione). Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo Mediazione Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che prevede come obbligatoria condizione di procedibilità il preventivo espletamento del procedimento di mediazione, solo dopo il fallimento del quale può essere adito il giudice. Al fine di evitare ulteriori ripetizioni è sufficiente qui per inviare a quanto detto nel caso precedente: e cioè, che l'attore danneggiato può scegliere tra l'impiego della procedura di mediazione e quella di accertamento tecnico preventivo con finalità conciliativa, ma che, almeno orientativamente, quest'ultima soluzione appare preferibile nell'ambito di controversie le quali richiedano in ogni caso l'espletamento di un accertamento di natura tecnica mediante la nomina di un consulente. Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite Con la legge Gelli-Bianco, infatti, è stato previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c.. L'art. 8 l. 8 marzo 2017, n. 24, nel regolare la materia, fa infatti «salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell'art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28», cui si è poc'anzi fatto cenno. L'art. 669-bis c.p.c., cui rinvia la legge Gelli-Bianco, disciplina un accertamento tecnico preventivo che prevede l'obbligo, per il consulente tecnico, di effettuare un tentativo di conciliazione sulla base di quanto accertato in sede di indagine tecnica: naturalmente, laddove il paziente intende intraprendere una domanda risarcitoria del danno psichico, l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio è sostanzialmente necessitato, sicché, nell'alternativa tra mediazione e accertamento tecnico preventivo affini conciliativi, quest'ultimo, come si è appena osservato, appare senz'altro preferibile. Si rinvia per il resto a quanto detto nel caso precedente. L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. L'efficacia della conciliazione raggiunta in sede di mediazione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dell'accordo raggiunto sulla base della consulenza tecnica preventiva: entrambi gli accordi sono riconducibili sul terreno negoziale alla disciplina dell'art. 1372 c.c., e su quello esecutivo, esecutivo alla previsione dell'art. 474, comma 2, n. 1, e comma 3, c.p.c. Non mancano però rilevanti diversità tra i due istituti relative, non solo in ragione non sovrapponibilità dell'attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, ma soprattutto in considerazione del rilievo istruttorio che detta attività assume, dal momento che la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice va fisiologicamente a far parte del corredo istruttorio della causa di merito, mentre le risultanze dell'attività svolta nel procedimento di mediazione può al più costituire prova atipica rimessa al prudente apprezzamento del giudice: per tali ragioni, come si diceva, la scelta della consulenza tecnica conciliativa appare preferibile. Competenza per territorio La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Competenza per valore La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Rito applicabile La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale), rammentando che, se si condivide quanto poc'anzi osservato con riguardo all'alternativa tra la mediazione e la consulenza tecnica conciliativa, e si ritiene preferibile quest'ultima, la domanda risarcitoria deve in tal caso seguire il procedimento semplificato di cognizione. Legittimazione attiva e passiva Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale). Contenuto dell'atto introduttivo La collocazione della responsabilità della struttura sanitaria dal versante contrattuale sposta il fuoco degli oneri gravanti sull'attore dal campo probatorio a quello assertivo. L'attore deve provare l'esistenza del contratto, il che è agevole, giacché il contratto si perfeziona per fatti concludenti per il fatto stesso dell'ingresso del paziente nella struttura sanitaria, e deve dedurre l'inadempimento. A tale ultimo riguardo, è appena il caso di accennare che la giurisprudenza richiede la deduzione di un «inadempimento qualificato», ossia astrattamente idoneo a cagionare il danno: tuttavia, per quanto concerne i profili attinenti al danno psichico, e dunque, non all'an, ma al quantum debeatur, l'attenzione va prestata più che altro alla distinzione tra le diverse voci di danno ed alla precisa individuazione del contenuto del pregiudizio subito, a seconda che esso attenga agli aspetti patrimoniali o non patrimoniali. 4. ConclusioniIl danno psichico è una specie del danno biologico. Esso discende dall'insorgenza, a causa della condotta dell'agente, di una malattia psichica. Pertanto, il danno psichico non deve essere confuso con il danno morale, sofferenza interiore priva di una base patologica suscettibile di accertamento medico-legale. Il problema fondamentale che il danno psichico pone, sul piano applicativo, è quello della prova, soprattutto sul piano del nesso di causalità. |