Il danno terminale

Mauro Di Marzio

1. Bussole di inquadramento

Il c.d. danno terminale è figura elaborata dalla giurisprudenza, dai contorni applicativi non esattamente determinati. Si tratta del caso in cui la persona subisce una lesione della salute talmente grave da condurla alla morte in breve tempo: ciò se la persona percepisce lo stato in cui versa e l'inevitabilità dell'exitus.

Alla base del danno terminale v'è dunque una lesione della salute: e tuttavia il danno terminale non è così e semplicemente una sottospecie del danno biologico, giacché ricomprende tutte le conseguenze che derivano dalla consapevolezza della fine inesorabile; non è neppure un danno morale, poiché non coincide con la mera sofferenza collocata nel foro interno ma, appunto, si fonda, a differenza del danno morale e soggettivo, su una base biologica, rilevabile all'esame medico legale. Perché ricorra il danno terminale occorre che tra la lesione della salute e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo: se invece la morte è sostanzialmente immediata, il menzionato danno non sussiste, né è considerato risarcibile il danno da perdita della vita, giacché la morte d'una persona può costituire un danno non patrimoniale per chi le sopravvive e non per chi viene a mancare (da ult. Cass. n. 13261/2020).

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Quale risarcimento può essere reclamato dai prossimi congiunti in caso di danno terminale?

Si tratta, secondo una certa giurisprudenza, del diritto al risarcimento di un danno subito direttamente dal danneggiato, diritto che i congiunti acquistano iure hereditario

Si afferma che, in caso di lesioni fisiche che abbiano condotto a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima, la quale abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica la cui entità non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi (p. es. Cass. n. 3260/2007).

Occorre, cioè, tenere anzitutto presente la distinzione tra i danni che i congiunti possono reclamare iure proprio e quelli spettanti invece iure hereditario.

Stando alla opinione della S.C., l'insorgenza del danno terminale va verificata a seconda che la morte abbia luogo istantaneamente ovvero si verifichi dopo un «apprezzabile lasso di tempo» dalle lesioni. In questo secondo caso, in particolare, la vittima subisce un pregiudizio risarcibile – i cui contorni sono andati progressivamente delineandosi – sicché il diritto al corrispondente risarcimento entra a far parte del suo patrimonio e, quindi, una volta sopravvenuta la morte, si trasmette iure hereditario.

Fino ad un dato momento la S.C. ha però ritenuto che poche ore di agonia non dessero luogo ad un danno biologico risarcibile e, così, trasmissibile. Si trova in tal senso affermato che la lesione dell'integrità fisica con esito letale a breve distanza dall'evento lesivo non è configurabile quale danno biologico (Cass. n. 6404/1998). Lo stesso principio è stato applicato in caso di intervallo di tre giorni tra lesioni e morte (Cass. n. 9470/1997), mentre si è ritenuto costituisse «apprezzabile lasso di tempo» il decorso di trenta giorni (Cass. n. 1704/1997).

L'atteggiamento della giurisprudenza si è tuttavia in seguito modificato grazie ad una pronuncia intervenuta in un caso in cui la morte aveva avuto luogo quattro ore dopo il sinistro (Cass. n. 4783/2001). In tale occasione stato osservato che l'attesa consapevole della morte determina un danno, definito come psichico, non riducibile all'estensione temporale dalla residua durata della vita. Secondo la S.C., in particolare, ha in tal caso luogo «un danno “catastrofico”, per intensità, a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l'estinzione della propria vita». Sicché, secondo la pronuncia, occorre porre l'accento «sulla diversa natura del danno fisico, del soma e delle funzioni vitali, dove l'apprezzamento della durata attiene alla stessa esistenza del danno (come quantum apprezzabile) e del danno psichico, pur esso prodotto da lesioni mortali, come danno catastrofico, la cui intensità può essere apprezzata dalla vittima, pur nel breve intervallo delle residue speranze di vita». Nel danno in questione, cioè, «non è solo il fatto durata a determinare la patologia, ma è la stessa intensità della sofferenza e della disperazione».

Su tale linea ha quindi preso piede l'individuazione di una specifica figura di «danno terminale» (Cass. n. 7632/2003), la cui particolarità sta in ciò, che «esso è di tale entità ed intensità da condurre a morte un soggetto in un limitato, sia pure apprezzabile, lasso di tempo». Secondo quest'ultima decisione, «ciò che fa la differenza è che il danno biologico terminale è più intenso perché l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto mai di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita». In tal caso, dunque, «la salute danneggiata non solo non recupera (cioè non “migliora”) né si stabilizza, ma degrada verso la morte». Nel caso di danno biologico terminale, quindi, il «minus esistenziale» che accompagna la vittima all'exitus è caratterizzato da un coefficiente di gravità senz'altro intensissimo.

Da ciò discende l'esigenza di adottare adeguate e specifiche regole di quantificazione. Perciò «il limitare la liquidazione del danno biologico terminale alla mera applicazione dei valori liquidatori tabellari a punti per ogni giorno di invalidità, da una parte comporta la violazione del principio ... di necessaria “personalizzazione” di detti criteri, conformandoli alla peculiarità del caso concreto (e nella fattispecie la peculiarità consiste nel fatto che la lesione alla salute non solo è stata massima, ma anche così intensa da dar luogo alla morte), e dall'altra finisce per porsi in contrasto logico-argomentativo, con quanto ormai ammesso in sede di liquidazione del danno morale», ossia con la riconosciuta necessità di procedere ad una liquidazione che tenga in considerazione l'effettiva sostanza ed intensità del pregiudizio.

Lo stesso indirizzo, che si è stabilizzato, ha trovato conferma della giurisprudenza successiva (Cass. n. 9959/2006, concernente un intervallo tra lesione morte di 33 giorni; Cass. n. 1877/2006; Cass. n. 3549/2004; Cass. n. 11003/2003). E tuttavia, la nozione di «apprezzabile intervallo di tempo» rimane ineluttabilmente vaga: così Cass. n. 28407/2008 ammette la risarcibilità dopo un lasso di tempo di 28 ore; Cass. n. 28423/2008 la esclude dopo 40 ore.

Ciò detto, non può nascondersi che la costruzione manifesti aspetti di forzatura, se non altro per la elementare considerazione che l'ipotesi di percezione da parte del danneggiato dello stato in cui versa, nonché della inevitabilità dell'exitus appare in realtà difficilmente riscontrabile nella pratica, sia perché l'approssimarsi della morte può essere forse riconoscibile dal medico, ma non dal paziente, sia perché difficilmente la persona prossima alla morte è ciò nondimeno vigile e lucida, tanto più se in stato di grave sofferenza fisica, nella quale è da attendersi che i sanitari adottino misure volte a contrastare il dolore.

La morte «istantanea» e il c.d. «danno tanatologico»

Come si diceva, la giurisprudenza esclude invece la sussistenza di un danno risarcibile iure hereditario in caso di morte istantanea. Vi è, a tal proposito, un ampio indirizzo della S.C. secondo cui non è risarcibile il danno da «perdita del diritto alla vita», o danno tanatologico, o danno da loss of life, richiesto iure hereditatis, in quanto la perdita del bene-vita in capo al soggetto non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi. E ciò in ragione della funzione non sanzionatoria ma reintegratoria-riparatoria di concreti pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, con la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare, detto risarcimento operi quando la persona abbia cessato di esistere, non essendo possibile un risarcimento per equivalente che operi quando la persona più non esiste (Cass. n. 7632/2003; nello stesso senso, tra le altre Cass. n. 887/2002; Cass. n. 4783/2001; Cass. n. 2134/2000; Cass. n. 1633/2000; Cass. n. 10773/1999; Cass. n. 1131/1999; Cass. n. 491/1999; Cass. n. 10896/1998; Cass. n. 10629/1998).

In sintesi, si può dire che, secondo il menzionato indirizzo: a) il «danno tanatologico» non è trasmissibile, giacché «incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi»; b) è irrilevante la «mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita», giacché, come accennato, il risarcimento del danno non svolge funzioni sanzionatorie, ma di reintegrazione e riparazione; c) non è possibile nel caso di specie un risarcimento anche per il fatto che «per il bene della vita è inconcepibile una forma di risarcimento anche solo per equivalente» (le citazioni tra virgolette sono tratte da Cass. n. 7632/2003).

In senso diverso si è pronunciata Cass. n. 1361/2014, la quale ha sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita – bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile – è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno «biologico terminale» e di danno «catastrofale», sicché esso rileva ex sé, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta «immediata» o «istantanea», senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine, aggiungendo che, il risarcimento del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non patrimonialità è attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata.

Sul tema sono successivamente intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno confermato l'orientamento tradizionale, affermando il principio secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» – dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. S.U., n. 15350/2015). Principio, questo, ulteriormente ribadito da Cass. n. 5684/2016 e dalla giurisprudenza successiva.

Danno terminale e perdita del rapporto parentale

Il tema del danno terminale si interseca con quello del danno da perdita del rapporto parentale. In caso di morte del congiunto, infatti, coloro che gli sopravvivono subiscono a propria volta, non già iure hereditario, bensì iure proprio un pregiudizio derivante dalla rottura del rapporto affettivo. Vale in proposito rammentare le parole di una nota decisione della S.C., secondo cui «il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto lamenta l'incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare, la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l'integrità biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico, sia dall'interesse all'integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all'art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. L'interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2,29 e 30 Cost. Si tratta di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell'art. 2043, nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad un risarcimento (o meglio: ad una riparazione), ai sensi dell'art. 2059, senza il limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato» (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003).

La liquidazione del danno

Il danno terminale ha anch'esso natura di danno conseguenza: non è risarcita la lesione del bene salute in sé, ma le conseguenze pregiudizievoli che essa determina, tenuto conto del già menzionato fattore tempo.

La liquidazione del danno terminale va effettuata considerando che il danneggiato, il quale percepisce lucidamente l'approssimarsi della morte, subisce per questo una sofferenza psichica particolarmente intensa, idonea ad incidere sulla misura del pregiudizio non rapportabili al solo protrarsi dell'intervallo tra la lesione e la morte, bensì, appunto all'intensità della sofferenza.

Detta liquidazione, dunque, non si presta ad una meccanica applicazione di criteri tabellari, in particolare di quelli costruiti per il danno biologico, criteri che, se applicati al danno terminale, condurrebbero a risultati palesemente iniqui. Occorre tuttavia prendere atto che a tale constatazione effettuata in negativo, non segue, da parte della giurisprudenza, l'indicazione di un criterio di liquidazione univoco e ben determinato.

3. Azioni processuali

Ulteriori azioni processuali

Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione).

Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo

Mediazione

Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite

Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva

Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. Tra i due strumenti sussistono similitudini e diversità, che possono rendere preferibile l'uno o l'altro. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per territorio

La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per valore

La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Rito applicabile

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Legittimazione attiva e passiva

Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Contenuto dell'atto introduttivo

Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

4. Conclusioni

Il danno terminale è figura di fonte giurisprudenziale che si realizza quando il danneggiato, vittima di una lesione della salute che lo condurrà ineluttabilmente alla morte, attende lucidamente l'esito fatale: fattispecie, dunque, in cui vi è una base biologica sulla quale, tuttavia, si innesta una sequela sofferenziale di particolare intensità che richiede di essere come tale liquidata, senza possibilità di diretta applicazione dei criteri tabellari, i quali condurrebbero in tale frangente a risultati palesemente iniqui.

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