Il nuovo parametro di giudizio per la sentenza di non luogo a procedere: una proposta interpretativa

21 Aprile 2023

L'art. 23, comma 1, lett. l), d.lgs. n. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia), recependo testualmente (ma non vi erano alternative, pena l'eccesso di delega) quanto previsto dall'art. 1, comma 9, lett. m), l. n. 134/2021, ha modificato l'art. 425, comma 3, c.p.p. prevedendo che il giudice dell'udienza preliminare pronunci sentenza di non luogo a procedere, non già se ritiene che gli elementi acquisiti siano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, bensì se ritiene che tali elementi non consentano una ragionevole previsione di condanna.
Premessa

A seguito della riforma Cartabia, all'insostenibilità dell'accusa in giudizio è subentrata la ragionevole previsione di condanna quale criterio per accedere al dibattimento.

La relazione illustrativa che accompagna il decreto tace sui contenuti della nuova regola. Non vi sono dubbi, però, che lo scopo della modifica sia quello di stringere le maglie del filtro riducendo il numero di processi che approderanno al dibattimento, in linea con l'ottica deflattiva ed efficentista che caratterizza l'ambiziosa novella.

La constatazione che i riti premiali hanno fallito il compito di ridurre in misura consistente i giudizi dibattimentali ha indotto il riformatore ad abbandonare questa strada – marginali sono infatti i ritocchi riservati alla materia – a favore di una valorizzazione dei filtri che precedono il dibattimento, operata lungo due direttrici: l'estensione ai reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio attraverso l'introduzione di una inedita udienza predibattimentale e l'introduzione di un parametro decisorio maggiormente selettivo.

Soffermandoci sulla seconda novità, molti commentatori hanno espresso perplessità sull'efficacia della modifica, ritenendola poco più che un maquillage linguistico che nulla cambierà in merito agli esiti delle udienze preliminari. In breve, l'idoneità degli atti a sostenere l'accusa in giudizio e ragionevole previsione di condanna sarebbero concetti equivalenti sul piano degli effetti.

L'udienza preliminare: un istituto in cerca di utilità

Da tempo le statistiche giudiziarie hanno certificato il fallimento dell'udienza preliminare. Oltre la metà dei processi che approdano al dibattimento esitano in assoluzione (si veda Curzio, Relazione del Primo Presidente della Cassazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2020, Roma, 29 gennaio 2021, p. 29-30; ma si vedano anche Gialuz-Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, p. 105-107, sul patologico sbilanciamento fra rinvii a giudizio e proscioglimenti o assoluzioni di primo grado). Anche al netto dei proscioglimenti per cause estintive sopravvenute o per fisiologiche incrinature della ricostruzione accusatoria a seguito dell'esercizio del contraddittorio nella formazione della prova, si tratta di numeri che dimostrano l'inefficacia del filtro.

Il problema non è nuovo, ma affligge l'istituto dalla sua nascita. La storia dell'udienza preliminare è infatti caratterizzata dai correttivi introdotti dal legislatore nel tentativo di rilanciare l'efficacia del filtro.

La l. n. 105/1993 ha soppresso il requisito dell'evidenza dell'infondatezza dell'accusa, che aveva relegato l'udienza preliminare ad un inutile transito verso il dibattimento, a cui non approdavano esclusivamente le imputazioni davvero azzardate e irragionevoli.

Soppresso l'aggettivo “evidente” dal contesto dell'art. 425 c.p.p., si sono aperti spazi decisori più ampi consentendo l'emissione della sentenza di non luogo a procedere non solo in caso di prova negativa o di mancanza di prove, ma anche nei casi di insufficienza o contraddittorietà probatoria.

Tuttavia, nonostante l'ampliamento cognitivo, l'udienza preliminare ha mantenuto una fisionomia tutta “processuale”, nel senso che l'analisi da effettuare aveva ad oggetto esclusivo l'utilità del dibattimento, non potendosi spingere la prognosi al punto di formulare in giudizio di merito ex ante. In quest'ottica si riteneva che nelle ipotesi in cui il materiale probatorio raccolto si prestasse a soluzioni aperte o alternative o, comunque, tali da poter essere diversamente valutato in dibattimento anche alla luce delle future acquisizioni probatorie, il processo dovesse proseguire anche in presenza di elementi allo stato contraddittori o insufficienti. Il principio che si è affermato è stato quello dell'in dubio pro actione, che ha sancito il fallimento dell'udienza preliminare

Il successivo intervento legislativo operato dalla l. n. 479/1999, ponendosi nel solco del precedente, ha attribuito al giudice dell'udienza preliminare strumenti per giungere ad una valutazione approfondita del materiale probatorio offerto dal pubblico ministero. Infatti, per un verso sono stati ampliati i poteri istruttori demandati al giudice ai sensi degli artt. 421-bis e 422, comma 1, c.p.p. (esercitabili sia su sollecitazione di parte, sia d'ufficio), per altro verso si è previsto che il giudice pronunciasse sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultassero insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio.

Nonostante l'ulteriore ampliamento del panorama cognitivo dell'udienza preliminare, buona parte della giurisprudenza ha continuato a ritenere che il rinvio a giudizio rimanesse ancorato ad una valutazione prognostica circa gli esiti e l'effettiva utilità della fase dibattimentale.

Tuttavia, non sono mancate decisioni più innovative che, prendendo le distanze dall'orientamento maggioritario e valorizzando assai la portata sistematica delle innovazioni introdotte dalla legge Carotti, hanno affermato che la decisione sul rinvio a giudizio non ha natura esclusivamente procedurale, bensì si compone di due fasi distinte per oggetto, natura e proiezione. Una prima fase, a carattere diagnostico, richiede una decisione di merito sulla serietà e la fondatezza dell'accusa, alla luce degli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare. Una seconda fase, a carattere prognostico, comporta una decisione di natura procedurale sulla elevata probabilità che la precedente diagnosi trovi conferma a seguito del vaglio dibattimentale condotto in contraddittorio con le regole probatorie e di giudizio tipiche di tale momento processuale (cfr., tra le poche, Cass. pen., sez. VI, 30 luglio 2015, n. 33763, in Dir. pen. e proc., 2016, p. 332 con nota di Conti-Quagliano, La regola di giudizio nell'udienza preliminare: una decisione bifasica).

Stando a questa lettura, il giudizio preliminare sarebbe di tipo bifasico: prima una diagnosi sulla fondatezza dell'accusa e poi una prognosi sul successo dell'accusa in dibattimento. La valutazione prognostica si configura come meramente eventuale: se al termine dell'udienza preliminare, nonostante l'esercizio dei poteri integrativi officiosi, non è possibile formulare una diagnosi di serietà e fondatezza dell'accusa, non vi è spazio per alcun sindacato sulla utilità del dibattimento che si fonderebbe sulla prospettazione di eventualità meramente teoriche. Per contro, in caso di esito positivo della fase diagnostica, la valutazione sulla serietà e fondatezza dell'accusa si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per la prosecuzione del rito verso il dibattimento. Occorre, infatti, poter ragionevolmente prevedere che gli elementi posti a base dell'ipotesi ricostruttiva formulata dal pubblico ministero potranno trovare conferma passando al setaccio delle regole operanti in tale fase.

Nonostante queste aperture interpretative, l'orientamento prevalente ha continuato a sostenere che il giudice dell'udienza preliminare dovesse emettere sentenza di non luogo a procedere solo quando il dibattimento appariva inutile, senza poter effettuare alcuna disamina del merito.

Il nuovo parametro di giudizio. Un chiarimento

Intervenendo sul terzo comma dell'art. 425 c.p.p., si è previsto che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti «non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna».

Occorre un chiarimento preventivo. Nella legge delega, così come nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 150/2022, si afferma che ciò che viene modificato è la “regola di giudizio” per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

Come autorevolmente osservato (Ferrua, Appunti critici sulla riforma del processo penale secondo la Commissione Lattanzi, in disCrimen, 12 luglio 2021, p. 2; Id., Riassetto senza modello e scopo deflattivi: la legislazione del bricolage, in Giust. pen., 2023, III, p. 108), la regola di giudizio è la regola che, in caso di dubbio, consente di scegliere quale termine affermare in un'alternativa decisoria. Ad esempio, nell'alternativa fra assoluzione e condanna, in caso di dubbio sulla responsabilità dell'imputato deve scegliersi la prima. Nel caso in esame non è stata modificata la regola di giudizio, ma ci si è limitati a modificare il parametro normativo per emettere la sentenza di non luogo a procedere. Non si tratta di una distinzione da poco. In primo luogo, avendo mantenuto la scelta di definire i presupposti della sentenza di non luogo a procedere, anziché quelli del rinvio a giudizio, nei casi di incertezza probatoria dovrebbe prevalere quest'ultimo (Ferrua, Brevi appunti in tema di udienza preliminare, appello e improcedibilità, in disCrimen, 9 dicembre 2021, p. 2). Per modificare la regola di giudizio si sarebbero dovuti invertire i termini dell'alternativa decisoria prevedendo in quali casi l'imputato debba essere rinviato a giudizio. Nei casi dubbi avrebbe prevalso l'alternativa decisoria, ossia la sentenza di non luogo a procedere. Scegliendo questa via, però, il giudice avrebbe dovuto motivare il rinvio a giudizio, dando atto della sussistenza degli elementi in presenza dei quali il legislatore impone quella decisione, e non la sentenza di non luogo a procedere, che avrebbe costituito l'alternativa decisoria per la mancata integrazione dei presupposti necessari a rinviare a giudizio. Il rischio di un pregiudizio instillato nel giudice del dibattimento da un rinvio a giudizio motivato avrebbe potuto essere neutralizzato separando la vocatio in ius dalla motivazione e inserendo quest'ultima nel fascicolo del pubblico ministero, sottraendola così alla conoscenza del giudice dibattimentale.

Un giudizio statico-diagnostico?

Passando ai contenuti del nuovo parametro di giudizio, si potrebbe ritenere che il legislatore abbia inteso sostituire ad un giudizio dinamico e prognostico un giudizio statico e diagnostico. Il giudice, quindi, non dovrà limitarsi a stabilire se il materiale probatorio raccolto dal Pubblico Ministero merita un approfondimento dibattimentale, i cui sviluppi, nei casi di fattispecie a soluzione aperta, potrebbero portare ad esiti favorevoli all'accusa, ma dovrà stimare se sulla base di tale materiale è probabile che sarà emessa una sentenza di condanna (così D'Arcangelo, L'udienza preliminare, in Bassi-Parodi (a cura di), La riforma del sistema penale, Milano, 2022, pp. 148-149). In quest'ottica, il riferimento agli “atti acquisiti” nell'attuale formulazione del terzo comma dell'art. 425 c.p.p. starebbe a significare che la prognosi di condanna deve basarsi sugli atti forniti dal Pubblico Ministero, senza tener conto di quelli che potrebbero essere introdotti nel dibattimento.

Non vi è dubbio che questa soluzione attribuirebbe all'udienza preliminare una capacità selettiva decisamente più efficace di quelle finora esercitata, contribuendo a realizzare gli scopi deflattivi della riforma, anche attraverso l'incentivo (o la costrizione?) ad accedere ai riti premiali.

Tuttavia, vi sono seri motivi per dubitare della legittimità di tale interpretazione.

Attribuire al giudice dell'udienza preliminare il potere di compiere un giudizio di tipo diagnostico anziché prognostico significa chiamarlo a decidere allo stato degli atti dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato, introducendo surrettiziamente un ulteriore grado di merito.

Sul piano della volontà storica del legislatore, si può osservare che nel testo elaborato dalla Commissione Lattanzi il giudice dell'udienza preliminare avrebbe dovuto disporre il rinvio a giudizio se gli elementi acquisiti fossero stati tali da determinare la condanna dell'imputato. Non vi è dubbio che tale formulazione orientava verso un giudizio di tipo statico e diagnostico, richiedendosi al giudice una valutazione di merito sulla fondatezza dell'accusa condotta allo stato degli atti. La riforma Cartabia, però, ha scelto di abbandonare tale formula in favore di una previsione di condanna, dunque di un giudizio prognostico, di tipo probabilistico.

Va aggiunto che la riforma non ha soppresso né modificato i poteri di integrazione probatoria concessi al giudice dell'udienza preliminare dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p., e anche questa scelta sembra militare verso un giudizio dinamico.

Ancora. In materia di sentenza di non luogo a procedere emessa all'esito dell'udienza predibattimentale, l'art. 554-quinquies, comma 1, c.p.p. ne prevede la revoca se successivamente alla pronuncia sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare “l'utile svolgimento del giudizio”. Utilizzando una regola diversa da quella dettata per la sentenza di non luogo a procedere emessa all'esito dell'udienza preliminare (art. 434 c.p.p.), il legislatore richiama un concetto dinamico, aperto ai futuri apporti del dibattimento. Del resto, diversamente opinando si arriverebbe all'assurdo che per revocare la sentenza di non luogo a procedere occorrerebbe qualcosa di meno – l'utile svolgimento del giudizio – di quanto necessario a rinviare a giudizio – la ragionevole previsione di condanna. Tuttavia, si potrebbe recuperare coerenza al sistema intendendo l'“utilità” del dibattimento come finalizzazione dello stesso alla condanna. Così intesa, la norma consentirebbe di revocare la sentenza di non luogo a procedere quando le nuove prove dimostrano che il dibattimento che non si intendeva celebrare potrebbe ragionevolmente esitare in una condanna.

Non va poi sottaciuto che, accogliendo un'esegesi troppo evolutiva del testo, l'eventuale decreto che dispone il giudizio potrebbe rappresentare una pesante ipoteca sugli esiti dibattimentali, con conseguente rischio di ledere la presunzione di non colpevolezza. In verità, la tematica non è nuova perché la dottrina aveva già evidenziato il problema pochi anni dopo il varo del “nuovo” codice di rito (si veda, ad esempio, Presutti, Presunzione d'innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1369).

Infine, ancorare la decisione del giudice sull'attitudine degli atti investigativi, nella loro dimensione statica, a fondare un giudizio di condanna significa obliterale il valore euristico del contraddittorio come luogo di formazione dialettica della prova, svilire la regola della prova di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, che implica la possibilità per l'imputato di esercitare nella massima estensione possibile il proprio diritto di difesa, che non è solo diritto di apportare contributi conoscitivi nuovi, ma anche di confutare quelli introdotti dal proprio accusatore.

Un giudizio dinamico-prognostico?

In favore di una lettura più prudente della norma si sono espressi alcuni giudici nelle prime decisioni successive alla riforma. Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Patti, ad esempio, ha ritenuto che il giudizio prognostico di condanna a cui è chiamato il giudice dell'udienza preliminare deve tener conto «degli arricchimenti, delle integrazioni, dei chiarimenti, che il dibattimento ed il contraddittorio ad esso connesso saranno verosimilmente e ragionevolmente in grado di offrire», oltre che «di eventuali letture diverse ed alternative di tutto il materiale investigativo raccolto che ragionevolmente potrebbero essere fatte proprie dal giudice del dibattimento» (cfr. Uff. Gup Trib. Patti, sent., 27 febbraio 2023-27 gennaio 2023, n. 10).

Anche la dottrina ha assunto posizioni caute osservando che il massimo che si può chiedere ad una fase prodromica come quella dell'udienza preliminare è un giudizio prognostico sulla “probabilità” della condanna (così Ferrua, Appunti critici, cit.).

Del resto, il riferimento alla “ragionevole previsione di condanna” non implica necessariamente che il giudice debba effettuare un anticipato giudizio di colpevolezza. È stato acutamente osservato che è ragionevole la previsione di condanna «anche quando il pubblico ministero o il giudice, a fronte di una situazione di incertezza, considerano “ragionevole” attendere dal prosieguo procedimentale contributi capaci di superare il dubbio sulla responsabilità dell'accusato» (Marzaduri, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflattivi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, in Leg. pen., 25 gennaio 2022, p. 27).

È chiaro, però, che non deve trattarsi di una fiducia incondizionata nelle superiori risorse euristiche del dibattimento; ed è altrettanto chiaro che il dibattimento non può colmare qualsiasi lacuna investigativa. Occorre che il materiale raccolto dal pubblico ministero abbia serietà e solidità e che le eventuali incertezze residue possano essere superate.

Resta naturalmente tutta la complessità in concreto di una prognosi che non ha più ad oggetto l'utilità del dibattimento ma il suo risultato e che deve essere “ragionevole”, aggettivo che non sembra contribuire efficacemente a ridurre il tasso di discrezionalità insito nella valutazione.

Tuttavia, se non si vuol cedere allo scetticismo (Ferrua, Brevi appunti, cit., p. 3, ritiene che il principale effetto che può derivare dalla nuova formulazione della norma sia «quello retorico, di tipo pedagogico, decifrabile dai giudici come un monito a non eccedere nel rinvio a giudizio; effetto destinato in breve tempo ad esaurirsi, come per lo più accade alle formule di carattere puramente esortativo»), occorre prendere atto che il legislatore non ha inteso sopprimere il vaglio predibattimentale, come suggerito da alcuni (si veda Daniele, L'abolizione dell'udienza preliminare per rilanciare il sistema accusatorio, in Sist. pen., n. 1/2020, p. 131 ss., che ritiene l'udienza preliminare un istituto non solo disfunzionale, ma incorreggibile, e ne propugna l'abolizione), ma piuttosto potenziarlo. Si impone quindi all'interprete l'arduo compito di elaborare una lettura delle formule teleologicamente orientata nel senso voluto dalla riforma.

Un giudizio bifasico

Valorizzando le letture più avanguardistiche della giurisprudenza di legittimità, potrebbe sostenersi che quello introdotto dalla riforma sia un giudizio bifasico, di tipo diagnostico-prognostico.

La prima valutazione che compete al giudice è la verifica di completezza del materiale investigativo al fine stabilire se azionare i poteri integrativi concessi dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.

A fronte di un materiale non più integrabile con gli strumenti fruibili nell'udienza preliminare, il giudice deve domandarsi se ne emerga la colpevolezza dell'imputato. In caso di risposta negativa dovrà emettere sentenza di non luogo a procedere (salve le ipotesi – invero marginali – in cui appaia evidente l'integrabilità del quadro probatorio in dibattimento). Se, invece, la risposta è positiva, dovrà chiedersi se il quadro probatorio restituito dalle indagini preliminari sia idoneo a resistere al contraddittorio dibattimentale, ossia al vaglio critico delle prove a carico e/o all'introduzione di quelle a discarico; ma, potrebbe aggiungersi, anche al tempo di celebrazione del dibattimento (si pensi a reati il cui termine di prescrizione sia inferiore ai tempi medi di definizione dei giudizi: in questi casi l'accusa può essere sostenuta in giudizio, ma la condanna è improbabile).

Lo scarto con il sistema previgente, nella lettura consolidatasi nella prassi, è evidente. Il giudice non è più chiamato a pronunciarsi sulla mera utilità del futuro dibattimento (difficilmente negabile perché anche compendi probatori particolarmente carenti possono in astratto essere integrati a dibattimento), ma sarà tenuto a verificare la consistenza dell'accusa. Nella prospettiva proposta, la componente prognostica del giudizio non deve stimare tanto le potenzialità espansive del dibattimento rispetto alle lacune del materiale investigativo, quanto la capacità di quest'ultimo di trovare conferma in sede dibattimentale.

Nel valutare gli atti di indagine, sia nella prospettiva diagnostico che in quella prognostica, il giudice dell'udienza preliminare deve applicare le comuni regole dibattimentali sulla valutazione delle prove. Infatti, solo un'omogeneità valutativa nelle due fasi – preliminare e dibattimentale – consente la formulazione di un giudizio sull'epilogo dibattimentale che sia attendibile (così anche Alvino, Il controllo giudiziale dell'azione penale: appunti a margine della “riforma Cartabia”, in Sist. pen., n. 3/2022, p. 32).

Analoghe considerazioni inducono a ritenere che il giudice, nella diagnosi circa la fondatezza dell'accusa allo stato degli atti e nella prognosi di successo dell'accusa in dibattimento, debba ricorrere alla regola b.a.r.d. cristallizzata nell'art. 533 c.p.p. In definitiva, il giudice dovrà emettere sentenza di non luogo a procedere se permangono dubbi ragionevoli sulla colpevolezza dell'imputato allo stato degli atti (perché, ad esempio, sostenuta sulla base di sommarie informazioni contraddittorie), sulla possibilità che il dibattimento offra ulteriori elementi sulla base dei quali fondare un giudizio di colpevolezza (perché, ad esempio, il materiale probatorio è completo ma insufficiente o perché non vi sono ragioni per ritenere che le contraddizioni nelle sommarie informazioni si sciolgano in dibattimento, anche in considerazione dell'inevitabile dispersione di conoscenze dovuta al trascorrere del tempo) e sulla capacità del materiale raccolto e resistere all'urto della dialettica dibattimentale (perché, ad esempio, basato sulle dichiarazioni della persona offesa, che successivamente ha rimesso la querela ritrattando le accuse, così lasciando intendere che non confermerà in dibattimento quanto dichiarato nella fase investigativa).

Non può nascondersi che la lettura offerta non sfugge ad alcuni degli inconvenienti già evidenziati per l'interpretazione in chiave esclusivamente diagnostica.

Si determina un appesantimento delle indagini preliminari, caricate dell'onere di investigazioni complete, non potendo il pubblico ministero fare affidamento nella supplenza del dibattimento. L'arretramento del baricentro del sistema verso le indagini sfavorisce l'indagato, che in quella fase si trova in una posizione nettamente inferiore al pubblico ministero.

L'imputato sarà tenuto ad anticipare la sua strategia difensiva per consentire al giudice dell'udienza preliminare di stimare l'urto distruttivo del contraddittorio dibattimentale nei confronti della piattaforma accusatoria.

Il rinvio a giudizio basato su una diagnosi di colpevolezza allo stato degli atti e su una prognosi di tenuta dell'accusa al vaglio dibattimentale pone sulle spalle dell'imputato un pesante fardello di fronte al giudice del dibattimento. Non si tratta, però, come sostenuto da alcuni, di violazione della presunzione di innocenza, che è regola di giudizio e che rimane tale a prescindere dal parametro di rinvio a giudizio (anche nel nuovo sistema il Pubblico Ministero deve dimostrare la colpevolezza dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio e se non vi riesce l'imputato sarà assolto).

In definitiva, cambiano gli assetti complessi del sistema, che arretra verso la fase delle indagini preliminari, ma questo sembra un prezzo che il legislatore è disposto a pagare pur di conseguire l'obiettivo di ridurre i tempi della giustizia penale del 25% entro il 2026 e nella consapevolezza di non poterci riuscire con altre strategie (implementazione dei riti speciali, depenalizzazione, ecc.).

L'insostenibile leggerezza del decreto che dispone il giudizio

Qualunque sia l'interpretazione del nuovo canone decisorio che si affermerà nella giurisprudenza, la scarna motivazione del decreto che dispone il giudizio (indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono) continuerà a condizionare gli esiti dell'udienza preliminare, seducendo i giudici a preferirlo alla sentenza di non luogo a procedere, soprattutto nei contesti probatori più complessi.

A legislazione invariata, un antidoto potrebbe consistere in un ridimensionamento dell'apparato motivazionale della sentenza di non luogo a procedere. La sommaria esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata richiesta dalla lettera d) dell'art. 426 c.p.p. potrebbe essere soddisfatta anche adottando una motivazione semplificata in stile francese costruita attraverso una serie di enunciati distinti, preceduti dalla locuzione “ritenuto che”, in modo da dare forma ad una frase sola (così, ma ritenendo necessaria una espressa modifica normativa, Amodio, Filtro “intraneo” e filtro “estraneo” nella nuova disciplina del controllo per il rinvio a giudizio, in Cass. pen., 2022, p.24, secondo il quale una motivazione di questo tipo avrebbe «il vantaggio di rendere agevole la costruzione del percorso argomentativo, assicurando al redattore tempi di elaborazione assai contenuti», più adatti «alle specifiche esigenze funzionali delle udienze filtro» […] e ciò «dovrebbe aprire la porta ad un maggior uso della sentenza di non luogo a procedere»).

Cenni ai rapporti fra il nuovo parametro di giudizio e il procedimento cautelare

C'è da chiedersi se la valutazione più intensa ora richiesta al giudice dell'udienza preliminare possa mettere in crisi la tenuta della regola di diritto vivente che riconosce la possibilità di sindacato sui gravi indizi di colpevolezza in sede cautelare nonostante la decisione di rinvio a giudizio. Per ragioni di coerenza del sistema la diagnosi di condanna e la prognosi di successo del dibattimento dovrebbero consentire una rivalutazione del quadro indiziario solo a fronte di elementi sopravvenuti.

Cenni all'omessa modifica del parametro per non procedere nei confronti degli enti

Per concludere è utile accennare al fatto che il d.lgs. n. 150/2022 non ha modificato il canone decisorio per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere nei confronti delle persone giuridiche. L'art. 61 d.lgs. n. 231/2001, non toccato dalla riforma, continua stabilire che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere se «gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell'ente».

Difficile sostenere che si tratti di una scelta consapevole del legislatore: mancano indicazione in questo senso nella relazione illustrativa e non si comprende il motivo di un diverso canone decisorio.

Piuttosto occorre chiedersi se l'involontario difetto di coordinamento normativo possa essere corretto in via interpretativa o se sia necessario un intervento della Corte costituzionale.

Nel primo senso si è espresso il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Milano con ordinanza del 15 febbraio 2023 escludendo che vi sia disparità di trattamento fra le valutazioni riservate alle persone fisiche e quelle riservate alle persone giuridiche. A tale risultato si è giunti adottando nell'interpretazione dell'art. 61 d.lgs. n. 150/2022 la lettura evolutiva dell'art. 425 c.p.p. proposta da alcune pronunce della Suprema Corte, che ancorano la decisione di rinvio a giudizio ad un giudizio prognostico di probabile condanna (nell'ordinanza si cita Cass. pen., sez. V, 4 giugno 2017, n. 32023).

La soluzione desta qualche perplessità perché attribuisce alle due norme il medesimo contenuto precettivo nonostante la diversa formulazione linguistica. Si tratta di un'operazione che sottende la convinzione che l'idoneità a sostenere l'accusa in giudizio e la ragionevole previsione di condanna siano nella sostanza la stessa cosa, ma si tratta di un'idea che, come già detto, occorre superare se vogliamo che la riforma ottenga gli effetti sperati.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario