Osservazioni sparse sui riti speciali “cartabiani”

08 Maggio 2023

Se l'idea di fondo di una novella è quella di imprimere efficienza ad un sistema processuale, l'incentivazione dei riti alternativi al dibattimento dovrebbe essere un passaggio obbligato. Tuttavia, la riforma Cartabia (d.lgs. n. 150/2022) è stata poco coraggiosa in questo senso, soprattutto se paragonata alle proposte della commissione Lattanzi.
Premessa

La scelta, però, è consapevole e deriva dalla constatazione che i riti premiali hanno fallito al banco di prova, impedendo al sistema (tendenzialmente) accusatorio introdotto del 1989 di decollare dando i risultati sperati (sui dati statistici e sui ciclici tentativi del legislatore di ridare linfa ai procedimenti speciali, si veda Varraso, La legge “Cartabia” e l'apporto dei procedimenti speciali al recupero dell'efficienza processuale, in Sist. pen., n. 2/2022, p. 29 e ss.). Si è quindi scelto di puntare su altre strategie, tra cui la valorizzazione dei filtri che precedono il dibattimento (estensione ai reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio attraverso l'introduzione di una inedita udienza predibattimentale e introduzione di un parametro decisorio maggiormente selettivo).

Il giudizio abbreviato

Le modifiche introdotte alla disciplina del giudizio abbreviato sono piuttosto marginali e in gran parte ricognitive del diritto vivente.

Dal punto di vista dei criteri di ammissione della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria, è stato introdotto, in luogo della compatibilità con le finalità di economia processuale del condizionamento probatorio richiesto, un criterio prognostico e relazionale che impone di mettere in rapporto il supplemento probatorio con l'istruzione che dovrebbe svolgersi in un ipotetico dibattimento (art. 438, comma 5, c.p.p.).

Non si tratta di una novità perché già la Corte costituzionale, con la sentenza n. 115 de 2001, aveva stabilito che il giudice dovesse raffrontare il giudizio abbreviato richiesto con l'ordinario giudizio dibattimentale, finendo così per sterilizzare il criterio selettivo (difficile ipotizzare in concerto condizionamenti probatori comparativamente più impegnativi di una istruzione dibattimentale). Va da sé che adesso la selettività del rito, e con essa l'efficienza del sistema, si concentra sulla decisività della prova aggiuntiva (che dovrà essere rilevante ex art. 187 c.p.p., ammissibile ex art. 191 c.p.p., ma soprattutto innovativa e non sostitutiva), altrimenti il rischio è quello di un incremento sensibile delle richieste di giudizio abbreviato condizionato.

Occorre, inoltre, rilevare che attraverso questa chiave di lettura i presupposti di accesso all'integrazione probatoria sollecitata dalla parte (art. 438, comma 5, c.p.p.) e a quella disposta d'ufficio dal giudice (art. 441, comma 5, c.p.p.) finiscono per coincidere, dato che il requisito aggiuntivo che caratterizza la prima di fatto non svolge alcuna funzione selettiva.

Quando l'integrazione probatoria, richiesta dalle parti o introdotta d'ufficio, consiste nell'assunzione di prove orali, si è previsto che anche nel giudizio abbreviato trovi applicazione la disciplina in tema di riproduzione audiovisiva e trascrizione a richiesta delle parti (la cui entrata in vigore è posticipata all'1.07.2003), prevista, per il dibattimento, dall'art. 510 c.p.p., oggetto di espresso richiamo da parte dell'art. 441, comma 6, c.p.p.

Altra novità apparente riguarda la possibilità di rinnovare, in limine al dibattimento, la richiesta di giudizio abbreviato (parrebbe anche non condizionato; così Nacar, Riforma Cartabia e riti alternativi: piccole modifiche all'insegna dell'efficienza del processo, in Dir. pen. e proc., 2023, p. 168) illegittimamente rigettata o dichiarata inammissibile (art. 438, comma 6-ter, c.p.p.).

Va detto che già le Sezioni unite (cfr. Cass. pen., sez. un., 27 ottobre 2004-18 novembre 2004, n. 44711, Rv. 229173) e la Corte costituzionale (sentenza n. 169 del 2003) lo avevano previsto, ma il recepimento del dictum costituzionale non rientrava fra le deleghe.

Analoga disciplina, a seguito di specifico rinvio, è stata introdotta anche per il giudizio abbreviato atipico richiesto dopo la notificazione del decreto di giudizio immediato (art. 458, comma 2, c.p.p.), in recepimento delle raccomandazioni della Corte costituzionale (sentenza n. 127 del 2021), che aveva ritenuto ancora valide le proprie addizioni (v. sentenza n. 169 del 2003) anche dopo che la riforma operata dalla l. n. 103/2017 non le aveva recepite.

Completa il quadro l'introduzione del recupero dibattimentale del rito anche quando è stato richiesto a seguito di notificazione del decreto penale di condanna (art. 464, comma 1, c.p.p.).

Non è stata invece positivizzata, ma vedo ragioni per ritenerla superata, la giurisprudenza delle Sezioni unite (oltre alla sentenza citata sopra, si veda anche Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2014-15 aprile 2014, n. 20214, Rv. 259078) che ritiene possibile operare la riduzione della pena all'esito del dibattimento, ipotesi invece espressamente prevista dal comma 6-bis dell'art. 438 c.p.p. per i reati puniti con l'ergastolo quando l'esito dell'istruzione dibattimentale dimostri che il giudizio era ammissibile.

Sempre con riferimento ai reati puniti con la pena dell'ergastolo, è stata mantenuta ferma l'inammissibilità del giudizio abbreviato ma è stato eliminato il meccanismo di cui all'art. 429, comma 2-bis, c.p.p. perché la riforma ha introdotto una interlocuzione fra giudice e Pubblico Ministero per definire la qualificazione giuridica del fatto prima dell'emissione del decreto che dispone il giudizio (art. 423, comma 1-bis, c.p.p.), con conseguente possibilità di instaurare il rito dinanzi al giudice dell'udienza preliminare facendone richiesta prima delle conclusioni.

Ci sarebbe da chiedersi se sia opportuno che il giudizio sulla responsabilità dell'imputato sia svolto dallo stesso magistrato che in udienza preliminare ha suggerito al Pubblico Ministero di modificare in diritto l'imputazione, anche se in senso più favorevole all'imputato. La questione è più ampia e involge i penetranti poteri di sindacato sull'imputazione che la riforma ha attribuito al giudice dell'udienza preliminare (artt. 421, comma 1 e 423, comma 1-bis, c.p.p.).

Altro intervento ricognitivo riguarda la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato a seguito di contestazione suppletiva. Sul punto la riforma ha recepito i dicta della Corte costituzionale introducendo specifici avvisi da parte del giudice (artt. 519 e 520 c.p.p.)

Infine, è stata introdotta la possibilità di ottenere un'ulteriore riduzione di un sesto della pena irrogata qualora l'imputato e il suo difensore non impugnino la sentenza di condanna (art. 442, comma 2-bis, c.p.p.).

Si tratta di una diminuente processuale che dovrebbe disincentivare le impugnazioni concedendo all'imputato quello che spesso costituisce il principale, se non l'unico, motivo di doglianza. La ratio deflattiva ha reso necessario estendere il meccanismo all'impugnazione del difensore, sebbene la delega facesse riferimento al solo imputato.

La norma si riferisce genericamente all'impugnazione e non è chiaro se comprenda anche le impugnazioni straordinarie, che potrebbero essere azionate, con esito negativo, prima della richiesta di riduzione della pena in executivis. Ritengo che la soluzione più corretta sia quella di escluderle dalla rinuncia (così anche Nacar, Riforma Cartabia, cit., p. 168) sia perché il presupposto per azionarle potrebbe verificarsi anche molto tempo dopo l'esecuzione della pena sia perché appare ingiustificatamente gravoso privare il condannato di strumenti che consentono di superare il giudicato per porre rimedio alle violazioni di diritti individuali accertate dopo l'irrevocabilità della sentenza.

Per l'operatività del meccanismo premiale è necessario che non sia fatta alcuna impugnazione, mentre non basta la mera rinuncia a quella già fatta, perché in questo caso non si realizza a pieno quell'economia processuale che costituisce la contropartita per la rinuncia parziale alla punizione.

La riduzione in esame è operata dal giudice dell'esecuzione. Ciò implica che la sentenza di condanna sia passata in giudicato, eventualità che non consegue necessariamente all'omessa impugnazione da parte dell'imputato e del suo difensore, potendo il Pubblico Ministero impugnare la sentenza di condanna che abbia modificato il titolo di reato (art. 443, comma 3, c.p.p.). La procedura esecutiva è quella de plano di cuiall'art. 667, comma 4, c.p.p. (art. 676 c.p.p.) e può essere introdotta dall'imputato, ma anche dal Pubblico Ministero, che ha interesse a definire la pena prima di emettere l'ordine di esecuzione.

Essendo quella in esame l'unica modifica capace di aumentare l'appetibilità del rito, è naturale che su di essa si siano concentrate le attenzioni degli operatori. Ci si è chiesti, in particolare, se la nuova disciplina possa trovare applicazione ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della novella.

Occorre premettere che il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, ha ricadute sostanziali e quindi deve essere soggetto alla disciplina dell'art. 2, comma 4, c.p., che impone l'applicazione retroattiva della legge sopravvenuta più favorevole al reo, con il limite del giudicato (cfr. Corte EDU, sent., 17 settembre 2009, ric. n. 10249/2003, Scoppola c. Italia; ma si veda anche Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 2017-11 gennaio 2018, n. 832, Rv. 271752, sull'applicabilità retroattiva della diminuente introdotta dalla l. n. 103/2017 per i giudizi abbreviati concernenti le contravvenzioni).

Poiché la formazione del giudicato costituisce, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., un limite invalicabile all'applicazione retroattiva della lex mitior, l'ulteriore sconto di un sesto della pena irrogata non può essere applicato a chi sia stato condannato con una sentenza passata in giudicato prima dell'entrata in vigore della riforma, anche se abbia omesso di impugnarla (in senso difforme, v. Ufficio Gup Trib. Urbino, ord., 7 febbraio 2023, che pare ritenere superabile lo sbarramento del giudicato in ragione della “diretta incidenza sul trattamento sanzionatorio” della novella).

La limitazione alla retroattività della modifica migliorativa costituisce una regola la cui ragionevolezza, sebbene a più riprese messa in dubbio da una parte della dottrina, è stata sempre confermata dalla Consulta; dunque, non è possibile accedere ad una diversa soluzione ritenendo che la pena in esecuzione – non ulteriormente scontata – sia illegale.

Diversamente, deve riconoscersi la possibilità di accordare la riduzione in parola a chi abbia omesso di impugnare una sentenza di condanna pronunciata prima dell'entrata in vigore della riforma e non ancora passata in giudicato al 30 dicembre 2022.

Ritengo che riduzione in argomento applicata a chi, avendo impugnato prima dell'entrata in vigore della riforma, vi rinunci in costanza della nuova disciplina per ottenere il beneficio. Se è vero che anche in questo caso si realizza, almeno in parte, l'obiettivo sotteso all'istituto, e l'imputato potrebbe ritenersi meritevole dell'incentivo introdotto (ciò che non è scontato dovendosi ammettere che rinunciare all'impugnazione non equivale, sul piano dell'economia processuale, sempre e comunque ad ometterla), è altrettanto vero che nel caso in esame non si realizza il presupposto della norma – omessa impugnazione – e l'estensione analogica al caso di rinuncia è impedito dalla natura eccezionale della norma. Si potrebbe allora prospettare un problema di legittimità costituzionale del differente trattamento, ma, come detto, la ratio non è proprio la medesima, salvo, forse, per i casi di rinunce precoci, effettuate all'indomani del deposito dell'atto introduttivo.

Sui punti in esame si è recentemente espressa la Prima Sezione penale della Corte di Cassazione ritenendo manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 25, 27 e 117 Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, nella parte in cui non prevede che il beneficio dell'ulteriore riduzione di pena di un sesto per mancata impugnazione della sentenza di condanna si applichi anche ai procedimenti penali pendenti in fase di impugnazione e a quelli definiti con sentenza divenuta irrevocabile prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Osserva, infatti, la Corte che la condizione processuale che consente l'applicazione della nuova disciplina, costituita dall'irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore della novella, pur se pronunciate antecedentemente, sicché non risulta violato il principio di retroattività della lex mitior, che riguarda le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li sanzionano e la cui applicazione è preclusa ex art. 2, comma 4, c.p. ove sia stata pronunziata sentenza definitiva.

La Corte ritiene che, rispetto a sentenze divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore della riforma, non siano violanti i principi di eguaglianza e di responsabilità penale in relazione al diverso trattamento riservato a coloro che hanno impugnato la sentenza (che non potranno beneficiare della riduzione di pena) rispetto a coloro che invece non hanno proposto impugnazione (che potranno ottenere la riduzione), in quanto giustificato dalla diversità delle situazioni da disciplinare e non percepibile come ingiusto dal condannato che abbia inteso perseguire il medesimo obiettivo (riduzione della pena) con una diversa scelta processuale, ossia impugnando la sentenza (cfr. Cass. pen., sez. I, 10 marzo 2023-14 aprile 2023, n. 16054, in questa Rivista con nota di Minnella, Mancato appello avverso la sentenza in abbreviato e riduzione di pena introdotta dalla riforma Cartabia).

La Corte precisa anche che il legame esistente tra la mancata proposizione dell'impugnazione e l'irrevocabilità della sentenza di primo grado, elementi che rendono applicabile l'ulteriore sconto di pena disposto dal giudice dell'esecuzione, rende evidente che non è possibile ottenere la restituzione nel termine per rinunciare all'impugnazione, posto che l'atto che impedisce l'accesso alla riduzione di pena è già stato compiuto e ha introdotto la fase processuale dell'impugnazione, segmento che la norma premiale vuole evitare.

Ci si è chiesti anche se, alla luce della nuova disciplina di favore, sia possibile ottenere la restituzione in termini per chiedere il giudizio abbreviato.

Svariati sono gli argomenti che portano ad una soluzione negativa (già adottata dalle prime pronunce: Trib. Vasto, ord., 23 gennaio 2023 e Trib. Milano, ord., 26 gennaio 2023, entrambe in Sist. pen., 14 febbraio 2023, con nota di Fragasso, Mancata impugnazione nel giudizio abbreviato e riduzione di un sesto della pena a seguito della riforma Cartabia: i tribunali di Milano e di Vasto escludono la rimessione in termini; ma in senso contrario si veda Trib. Perugia, sent., 18 gennaio 2023, n. 130, in Sist. pen., 19 gennaio 2023, con nota di Gatta, Riforma Cartabia e giudizio abbreviato: il Tribunale di Perugia ammette la rimessione in termini per la richiesta del rito dopo la previsione di una ulteriore riduzione della pena di un sesto in caso di mancata impugnazione, e nella medesima Rivista, 9 febbraio 2023, con nota di Lombardi, Rinuncia all'impugnazione nel giudizio abbreviato e riduzione di un sesto della pena (art. 442 co. 2 bis c.p.p.): il problema della rimessione in termini a giudizio in corso): a) la natura sostanziale del trattamento sanzionatorio dipendente da scelte processuali non implica analoga natura (sostanziale) dei presupposti di accesso ai riti premiali, che dipendono da un scelta discrezionale del legislatore; b) il beneficio in esame è meramente eventuale e dipende da una scelta discrezionale dell'imputato; c) l'accesso incondizionato al rito mediante restituzione in termini vanificherebbe la ratio deflattiva della riforma; d) manca una disciplina transitoria che lo consenta, diversamente da quanto avvenuto in altri casi (sospensione del procedimento con messa alla prova, patteggiamento c.d. allargato, giudizio abbreviato per reati puniti con la pena dell'ergastolo, le cui discipline non sono estensibili analogicamente al caso in esame sia perché derogatrici a regole generali del diritto intertemporale, sia perché la novella non ha aperto l'accesso ad un rito speciale prima precluso, come nei casi citati sopra, ma ha comportato soltanto un miglioramento del trattamento sanzionatorio, tra l'altro del tutto eventuale e subordinato ad un comportamento discrezionale dell'imputato; del resto, nei casi in cui la novella ha consentire all'imputato di accedere ad un rito in precedenza integralmente precluso, è stata prevista una disciplina transitoria ad hoc, come nel caso della sospensione del procedimento con messa, che ha subito una estensione indiretta tramite l'allargamento della platea di reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio: v. art. 90, comma 2, d.lgs. n. 150/2022).

Il patteggiamento

Il rito negoziale ha subito un tracollo statistico, in gran parte dovuto alla concorrenza della sospensione del procedimento con messa alla prova (su tali dati e sulla loro interpretazione, si vedano Gialuz-j. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, p. 112 ss.).

La commissione Lattanzi aveva proposto di rilanciare il rito ampliandone l'ambito oggettivo e soggettivo e aumentando la riduzione di pena, ma la riforma Cartabia ha preferito affidarne le sorte a due incentivi più modesti: a) l'estensione dei poteri negoziali delle parti; b) la riduzione degli effetti extrapenali della sentenza.

Prendendo le mosse dal primo punto, alle parti è stata data la possibilità, in tutti i casi di patteggiamento, di negoziare oggetto ed ammontare della confisca facoltativa oppure di chiederne la non applicazione e la possibilità, nei casi di patteggiamento c.d. allargato, di negoziare la durata delle pene accessorie oppure di chiederne la non applicazione.

Si è parlato al riguardo di “codificazione ragionata” (così Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia. Profili processuali, in Sist. pen., 2 novembre 2022, p. 54) di alcuni indirizzi pretori, alludendo alle pronunce delle Sezioni unite che, a legislazione invariata, si erano spinte fino al punto di ritenere possibile la conclusione di patti accessori sulle misure di sicurezza.

La scelta è dettata dalla consapevolezza che le pene accessorie e la confisca sono spesso più temute delle pene principali.

Naturalmente deve trattarsi di pene accessorie e confische facoltative di natura penalistica, quindi la previsione non riguarda la confisca obbligatoria e le sanzioni amministrative accessorie (rimangono fuori, ad esempio, la sospensione e la revoca della patente di guida e l'ordine di demolizione del manufatto abusivo).

All'estensione dei poteri negoziali delle parti corrisponde un'estensione dei doveri di controllo del giudice, che ora potrà rigettare la richiesta se non condivide l'accordo raggiunto su tali statuizioni accessorie.

Rimane ferma la peculiare disciplina introdotta nel 2019 per i reati contro la pubblica amministrazione, oggetto di una specifica clausola di riserva.

Passando al secondo punto, alla sentenza di patteggiamento è stata sottratta l'efficacia probatoria nei giudizi civili, disciplinari, tributari, amministrativi e contabili.

Va detto che rispetto alla delega, che si limitava al giudicato, la novella ha previsto che l'inefficacia riguardi anche l'aspetto probatorio: “non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova”, recita il comma 1-bis dell'art. 445 c.p.p.

Stando alla formulazione letterale, sembra rimanere fuori il giudizio penale, per il quale si applica la disciplina di cui all'art. 238-bis c.p.p., stante l'equiparazione legislativa della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna.

Se con la sentenza di patteggiamento non vengono applicate pene accessorie (ciò che avviene ex lege quando la pena concordata è fino ai due anni oppure in base ad un eventuale accordo se la pena supera i due anni), non si applicano le disposizioni di legge extrapenale che equiparano la sentenza di patteggiamento a quella di condanna.

Nei casi di richiesta di patteggiamento formulata nel corso delle indagini preliminari si è previsto che il giudice fissi udienza con un autonomo decreto e non più con un decreto scritto in calce all'istanza. L'autonomia del provvedimento si rende necessaria perché deve contenere l'informazione della facoltà, per la persona sottoposta alle indagini, di accedere ai programmi di giustizia riparativa (art. 447, comma 1, c.p.p.). Tuttavia, l'omissione di tale avvertimento non è espressamente sanzionata.

È stata introdotta la possibilità per le parti di concordare l'applicazione di una delle pene sostitutive di cui all'art. 20-bis c.p. e agli artt. 53 ss. l. n. 689/1981, per la cui irrogazione si richiama il meccanismo delineato dall'art. 545-bis c.p.p., basato su un modello bifasico ispirato al c.d. sentencing anglo-americano (art. 448, comma 1-bis, c.p.p.).

Va detto che l'art. 56-bis, comma 4, l. n. 689/1981 stabilisce che in caso di patteggiamento, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato. Stando al tenore letterale della norma, sembra che possano essere revocate anche le confische obbligatorie diverse da quelle citate (ad esempio, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, come quella prevista dall'art. 348, comma 2, c.p.).

Il giudizio immediato

Le modifiche in tema di giudizio immediato sono volte a favorire il più possibile l'instaurazione di un rito premiale per evitare il passaggio diretto al dibattimento (art. 458, comma 2-bis, c.p.p.).

Viene eliminato così un – poco ragionevole – ostacolo alla definizione del giudizio immediato con un rito alternativo, causa di forti criticità nella prassi applicativa, cui la giurisprudenza aveva cercato di ovviare in via interpretativa. Va detto che anche a seguito della novella non è possibile chiedere l'applicazione della pena a seguito del rigetto (meglio, della dichiarazione di inammissibilità) della richiesta di giudizio abbreviato non condizionato, mentre è possibile il contrario (art. 458-bis c. 2 c.p.p.).

Per rendere possibile l'attivazione di tali meccanismi si è resa obbligatoria la fissazione dell'udienza camerale conseguente alla richiesta dell'imputato di giudizio abbreviato o di patteggiamento (“il giudice fissa in ogni caso”, recitano gli artt. 458 e 458-bis c.p.p.). L'istante ha quindi un diritto incondizionato al contraddittorio sui presupposti di accesso al rito e il giudice non può esimersi da tale interlocuzione, nemmeno qualora li ritenga inesistenti. Solo una presentazione fuori termini sembrerebbe rendere eludibile l'adempimento in parola: continua infatti ad essere sanzionato con la decadenza il mancato rispetto dei tempi previsti.

Si coglie una distonia fra il nuovo comma 2-bis dell'art. 458 e il comma 5-bis dell'art. 438 c.p.p.: in udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato non condizionato o di patteggiamento (non si menziona la sospensione del procedimento con messa alla prova) deve essere subordinata al rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, mentre in caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato formulata a seguito di notificazione del deserto di giudizio immediato l'imputato può formulare le richiesta di giudizio abbreviato non condizionato, patteggiamento e (qui anche) sospensione del procedimento con messa alla prova direttamente in udienza dopo il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato. L'incoerenza può essere superata in via interpretativa: va infatti ricordato che la giurisprudenza ritiene che l'art. 438, comma 5-bis, c.p.p. si limiti a disciplinare una mera facoltà e non un obbligo di proposizione della richiesta subordinata contestualmente a quella principale (cfr. Cass. pen., sez. I, 3 aprile 2019-16 maggio 2019, n. 21439, Rv. 275812).

Nell'eventualità che tutte le richieste di rito alternativo non vadano a buon fine ed occorra procedere con la celebrazione del dibattimento, si è previsto che il giudice ne dia comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate (art. 458, comma 2-ter, c.p.p.). In dibattimento sarà possibile reiterare la richiesta di giudizio abbreviato prima respinta in applicazione del nuovo art. 438, comma 6-ter, c.p.p., a cui rinvia il primo comma dell'art. 458 c.p.p.

Per quanto riguarda il decreto di giudizio immediato, si è introdotto l'avviso circa la possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 456, comma 2, c.p.p.), positivizzando, sebbene non fosse previsto dalla delega, quanto statuito dalla Consulta con la sentenza n. 19 del 2020. Di conseguenza la facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova è stata inserita tra le richieste subordinate formulabili nell'udienza camerale fissata a seguito di richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento, mentre tale rito continua a non essere indicato fra quelli che l'imputato può chiedere subordinatamente al rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato (art. 438, comma 5-bis, c.p.p.).

Per concludere, va detto che il giudizio immediato è stato introdotto anche nei procedimenti azionabili con citazione diretta (art. 558-bis c.p.p.).

Si tratta di una previsione inedita, conseguenza diretta dell'introduzione di un'udienza predibattimentale che ha lo scopo di vagliare la necessità del dibattimento, rispetto alla quale si impone un rito che consenta di evitare tale sindacato quando la prova appare evidente o sono in corso misure cautelari custodiali (evenienza che sarà ancora più frequente a seguito dell'allargamento della platea dei reati a citazione diretta puniti con pena edittale superiore nel massimo a quattro anni di reclusione).

Sul punto si è subito formato un vivace dibattito sulla competenza ad emettere il decreto di giudizio immediato, così come su quella a decidere dell'eventuale rito premiale scelto in alternativa al dibattimento. In attesa di un pronuncia della Suprema Corte, già investita del conflitto negativo, ritengo, in accordo con una parte della dottrina (si veda Marandola, Riforma Cartabia: a chi spetta decidere la ricorrenza delle condizioni del giudizio immediato ex art. 558-bis c.p.p., in IUS Penale (ius.giuffrefl.it), 10 marzo 2023), che vi siano vari argomenti che dovrebbero indurre ad attribuire al giudice per le indagini preliminari la competenza ad emettere il decreto di giudizio immediato anche per i procedimenti azionabili con citazione diretta: a) l'unitarietà delle indagini preliminari e del giudice che ad essere presiede, al quale soltanto dovrebbe competere la decisione se passare direttamente dalla fase investigativa a quella dibattimentale); b) le condizioni di ammissibilità del rito (tempo di iscrizione della notizia di reato, evidenza della prova, interrogatorio dell'imputato, status cautelare dell'imputato ed eventuale definitività della misura), che sfuggono alla conoscenza del giudice predibattimentale; c) l'opportunità che non sia il giudice del predibattimento a vagliare la robustezza delle prove a carico dell'imputato.

In definitiva, l'introduzione dell'udienza predibattimentale ha comportato un raddoppio dei filtri al dibattimento, ma nulla ha mutato in ordine alla competenza sull'elisione di tali snodi preliminari, che dovrebbe rimanere sempre del giudice per le indagini preliminari.

Più complessa è la questione sulla competenza a celebrare il rito premiale eventualmente scelto dall'imputato che abbia ricevuto la notifica del decreto di giudizio immediato. In questo caso, solo ragioni sistematiche potrebbero indurre ad attribuire al giudice per le indagini preliminari tale competenza, ma deve ammettersi che anche la diversa opzione in campo ha una sua ragionevolezza ove si consideri che al giudice predibattimentale già competono tali riti ai sensi dell'art. 554-ter, comma 2, c.p.p. (in quest'ultimo senso si veda Marandola, Riforma Cartabia, cit.).

Il decreto penale di condanna

Anche il procedimento per decreto, come il patteggiamento, ha segnato una decisa flessione statistica, sebbene in misura minore. A zavorrare il rito è la mole delle opposizioni, che di fatto ne cancella l'utilità. La rivitalizzazione è complicata dal fatto che al rito sono sottese due esigenze in parte contrapposte: da un lato, incentivare l'emissione e l'accettazione del provvedimento monitorio per decongestionare il sistema e, dall'altro, restituire effettività alla sanzione pecuniaria, che costituisce il contenuto principale del decreto.

Nella prima direzione si colloca l'estensione ad un anno dall'iscrizione del nome dell'indagato nel registro delle notizie di reato del termine per richiedere l'emissione del decreto penale di condanna.

La scelta, dettata dalla necessità di raccordare il termine per azionare il rito monitorio con il nuovo termine di durata delle indagini preliminari, dovrebbe, secondo alcuni (così, ad esempio, Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 56), disincentivare le opposizioni, scoraggiate dalla maggiore solidità del quadro probatorio. Tuttavia, è lecito dubitare che gli organi inquirenti utilizzeranno il maggior tempo a disposizione per svolgere indagini più approfondite rispetto a fattispecie ritenute di rapida definizione. Piuttosto, la dilatazione dei tempi investigativi potrebbe consentire di svolgere accertamenti anche sulle condizioni familiari e patrimoniali dell'imputato, così da ottenere una maggiore personalizzazione della pena pecuniaria che dovrebbe incentivarne l'accettazione e il pagamento.

In un'ottica espansiva del rito si inquadra anche l'estensione ad un anno della pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria o con i lavori di pubblica utilità (art. 53, comma 2, l. n. 689/1981).

La novità più rilevante e che dovrebbe dare il maggior slancio al rito è senza dubbio l'introduzione di un nuovo criterio di calcolo della pena pecuniaria (art. 459, comma 1-bis, c.p.p.).

Accogliendo le preoccupazioni espresse dalla Consulta (si veda, ad esempio, la sentenza n. 28 del 2022, nella quale si rileva che “una quota giornaliera di 250 euro è, all'evidenza, ben superiore a quella che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone”), il valore giornaliero minimo viene abbassato da 75 euro a 5 euro, mentre quello massimo rimane fermo a 250 euro. Per valore giornaliero si intende la quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni non più solo economiche ma anche patrimoniali e di vita dell'imputato e del suo nucleo familiare, dunque secondo una valutazione più ampia che, da un lato, complica di accertamenti del pubblico ministero, ma, dall'altro, consente di individuare una pena maggiormente aderente alle reali possibilità di pagamento dell'imputato. Il valore così individuato viene moltiplicato per i giorni di pena detentiva e l'importo ottenuto può essere pagato con rate mensili (da sei a sessanta) di importo non inferiore a 15 euro e senza interessi.

Poiché i criteri di calcolo della pena pecuniaria e le condizioni di rateizzazione sono complessivamente più favorevoli, dovrebbero applicarsi anche ai decreti emessi prima dell'entrata in vigore della novella ma notificati successivamente, in quanto si tratta di norme di carattere processuale che producono effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole, seppure derivante dalla scelta del rito. Del resto, la giurisprudenza lo aveva già affermato con riferimento al più favorevole criterio di calcolo della pena pecuniaria per il rito monitorio introdotto nel 2017 dalla riforma Orlando individuando nell'incidente di esecuzione lo strumento per ottenere la rimodulazione del trattamento sanzionatorio. Il limite del giudicato (art. 2, comma 4, c.p.), però, impedisce di estendere tale soluzione ai decreti penali divenuti esecutivi prima dell'entrata in vigore della riforma.

In una prospettiva di incentivazione del rito si colloca anche la possibilità di chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità (art. 56-bis l. n. 689/1981) sia durante la indagini preliminari (art. 459, comma 1-bis, c.p.p.) che dopo la notificazione del decreto penale di condanna (art. 459, comma 1-ter, c.p.p.), senza necessità di formulare l'opposizione (ma in caso di rigetto non viene confermato il provvedimento monitorio bensì emesso il decreto di giudizio immediato).

Va detto che l'art. 53, comma 2, l. n. 689/1981 prevede che con il decreto penale di condanna, il giudice, su richiesta dell'indagato o del condannato, possa sostituire con il lavoro di pubblica utilità la pena detentiva determinata entro il limite di un anno. L'art. 56-bis, comma 4, l. n. 689/1981 stabilisce che, in caso di decreto penale di condanna, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato. Sembra, dunque, che possano essere revocate anche le confische obbligatorie diverse da quelle citate (ad esempio, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, come quella prevista dall'art. 348 c. 2 c.p.).

Pacifica dovrebbe essere l'applicabilità della nuova disciplina ai decreti penali emessi prima dell'entrata in vigore della riforma e notificati dopo, essendo legata la decorrenza del termine per la presentazione dell'istanza di lavoro di pubblica utilità alla notificazione del decreto. In caso di rigetto della richiesta di sostituzione, l'imputato dovrebbe poter accedere ad altri riti perché non ha formalizzato opposizione e perché la soluzione contraria potrebbe rappresentare un eccessivo sacrificio dei diritti della difesa, nonché una soluzione contraria allo spirito “efficientistico” della riforma.

Ritengo che il lavoro di pubblica utilità sostitutivo di cui all'art. 56-bis l. n. 689/1981 possa essere applicato anche agli imputati di guida in stato di ebbrezza o di stupefazione a cui siano preclusi i lavori di pubblica utilità previsti dagli artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis, d.lgs. n. 285/1992, per averli già ottenuti o per aver provocato un incidente stradale.

L'art. 56-bisl. n. 689/1981 non prevede limitazione legate alla tipologia di reato, né può dirsi che la sua applicazione alle suddette contravvenzioni comporterebbe l'aggiramento delle preclusione stabilite dal codice della strada, perché tali limitazioni riguardano la peculiare pena sostitutiva ivi prevista e trovano giustificazione nel fatto che tale pena, rispetto all'omologa sanzione prevista dalla l. n. 689/1981, si caratterizza per la possibilità di sostituire sia la pena detentiva che quella pecuniaria e per gli ampi effetti favorevoli conseguenti alla sua esecuzione (estinzione del reato, dimezzamento del termine di sospensione della patente di guida, revoca dell'eventuale confisca del veicolo). Anche volendo impostare il problema in termini di rapporto strutturale fra norma generale – l'art. 56-bis l. n. 689/1981 – e norma speciale – gli artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis, d.lgs. n. 285/1992 –, non vedo perché non possa applicarsi la prima nei casi di inoperatività della seconda.

Rimanendo sul tema, la riforma Cartabia potrebbe mettere in discussione la possibilità, ampiamente riconosciuta dalla prassi, di chiedere al giudice che ha emesso il decreto penale di sostituire la pena pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità previsto dagli artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis, d.lgs. n. 285/1992, senza dover proporre opposizione.

La Suprema Corte ha recentemente avallato tale prassi (cfr. Cass. pen., sez. IV, 13 gennaio 2021-23 febbraio 2021, n. 6879, Rv. 280934), ma la soluzione, dettata da comprensibili esigenze pratiche, desta qualche perplessità, perché, come chiarito dalle Sezioni unite (cfr. Cass. pen., sez. un., 25 marzo 2010-4 giugno 2010, n. 21243, Rv. 246910), il giudice, una volta emesso il decreto penale, si spoglia dei poteri decisori sul merito dell'azione penale, essendo tenuto soltanto all'adozione degli atti di impulso previsti dall'art. 464 c.p.p. Difatti, non sono mancate pronunce in senso contrario, secondo le quali la richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità deve trovare la propria collocazione all'interno del giudizio originato dalla presentazione dell'opposizione e non può costituire oggetto di un'autonoma istanza formulata al di fuori della sede processuale propria (cfr. Cass. pen., sez. I, 15 aprile 2015-4 giugno 2015, n. 24055, Rv. 263968; ma si veda anche Cass. pen., sez. IV, 9 dicembre 2021-14 marzo 2022, n.8498, al quale mette in evidenza che, se si consentisse al giudice di decidere sul merito dell'azione penale dopo avere emesso il decreto penale di condanna, si incorrerebbe anche in una violazione delle regole sulla incompatibilità, atteso che l'art. 34, comma 2, c.p.p. inibisce al giudice che abbia emesso il decreto penale di condanna di “partecipare al giudizio”).

In questo quadro giurisprudenziale è intervenuta la riforma, che, prendendo spunto – come si legge nella Relazione illustrativa – dalla prassi sviluppatasi in tema di contravvenzioni stradali e avallata dalla giurisprudenza citata sopra, ha introdotto la possibilità di chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità senza formulare l'atto di opposizione, limitandola, però, alla sola pena sostitutiva di cui all'art. 56-bis l. n. 689/1981.

Mi pare eccessivo sostenere che la riforma abbia inteso superare la prassi di cui si è detto sopra, sia perché il differente trattamento che si verrebbe a creare fra le due pene sostitutive sarebbe poco ragionevole e sia perché si incentiverebbero le opposizioni frustrando gli obiettivi di efficienza del sistema perseguiti dalla novella. In ogni caso sarebbe stato opportuno che la riforma avesse incluso nel nuovo meccanismo anche la peculiare pena sostitutiva prevista dal codice della strada, in modo da superare, anziché rinfocolare, le obiezioni dogmatiche di cui si è dato conto sopra.

Passando alla seconda direttrice di riforma, il pagamento della pena pecuniaria è stato previsto quale ulteriore presupposto di estinzione del reato, insieme al decorso del tempo senza reiterazione di reati.

Come già detto, sull'esigenza deflattiva ha prevalso la necessità di rilanciare la pena pecuniaria, affetta da una cronica e quasi totale ineffettività.

L'intento è condivisibile ma deve registrarsi un disallineamento con la disciplina del patteggiamento. L'art. 136 disp. att. c.p.p. prevede, infatti, che l'effetto estintivo del reato non si produca se l'imputato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena. Ne consegue che il mancato pagamento della pena pecuniaria negoziata dalle parti impedisce l'effetto estintivo del reato solo se volontario, quindi l'insolvibilità del condannato non impedisce l'effetto estintivo. Si ritiene che il differente trattamento sia giustificato dalla maggiore premialità del provvedimento monitorio (riduzione della pena fino alla metà e ulteriore riduzione di un quinto in caso di pagamento tempestivo), mentre il ricorso strumentale al patteggiamento per non pagare la pena pecuniaria e ottenere comunque l'effetto estintivo dovrebbe essere scongiurato dalle modifiche introdotte al sistema di esecuzione delle pene pecuniarie che prevedono un sistema di conversione in pene sostitutive che tiene conto della volontarietà o meno del mancato pagamento.

In una posizione mediana rispetto alle direttrici divergenti di cui si è detto in apertura si colloca la previsione di un'ulteriore riduzione della pena per i pagamenti tempestivi.

Effettuando il pagamento entro quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all'opposizione, il condannato può pagare la sanzione nella misura ridotta di un quinto.

È chiaro che si vuole incentivare il pagamento immediato della pena irrogata e ciò contribuisce all'effettività della pena pecuniaria, ma tale beneficio finisce anche per disincentivare le opposizioni rendendo più attraente la prospettiva di accettare la condanna.

Il giudice deve indicare due somme nel decreto penale: quella “intera”, da pagare in esito all'acquiescenza al decreto, e quella ulteriormente ridotta di un quinto, da pagare entro quindici giorni dalla notifica del decreto, con contestuale rinuncia all'opposizione.

Ritengo che la riduzione in esame sia applicabile anche ai decreti penali emessi prima dell'entrata in vigore della riforma (e quindi privi dell'avviso e della doppia somma) ma notificati successivamente. Valgono anche in questo caso le considerazioni fatte trattando del nuovo criterio di calcolo della pena pecuniaria, a cui si rinvia. Va escluso, invece, che il condannato possa adire il giudice dell'esecuzione per ottenere lo sconto di pena in executivis, ostando il limite del giudicato alla retroattività del novum normativo.

La riforma ha introdotto il divieto di sospendere le pene sostitutive (art. 61-bis l. n. 689/1981) e ciò vale anche per la pena pecuniaria sostitutiva.

Ci si chiede, però, se tale divieto valga anche per la pena pecuniaria sostitutiva applicata con il decreto penale di condanna.

Il dubbio nasce dalla constatazione che la riforma, da un lato, non ha abrogato il capoverso dell'art. 460 c.p.p., che continua a prevedere la possibilità per il giudice di concedere la sospensione condizionale della pena con il provvedimento monitorio, ma, dall'altro, ha modificato il quinto comma della medesima norma, prevedendo che l'effetto estintivo connesso al decreto penale non consegua più soltanto all'astensione dalla commissione di ulteriori reati, ma anche al pagamento della pena pecuniaria, previsione incompatibile con una pena sospesa.

Sembrerebbe, dunque, che l'attuale sistema preveda la possibilità di concedere la sospensione condizionale soltanto nei casi in cui il decreto penale sia emesso per un reato punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria quando il giudice ritenga di irrogare soltanto la seconda. In questi casi l'effetto estintivo rimarrebbe legato al solo decorso del tempo senza la commissione di ulteriori reati, come nel sistema previgente. Il differente trattamento così riservato ai condannati a pena pecuniaria sostitutiva, che non potrebbero beneficiare della sospensione condizionale della pena dovendo pagare la sanzione pecuniaria per ottenere l'effetto estintivo, potrebbe trovare una ragionevole giustificazione nel fatto che i reati da loro commessi sono più gravi o in astratto, in quanto puniti con pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, o in concreto, in quanto puniti con pena alternativa che il giudice ritiene di applicare nella sua componente più grave. Non va taciuto, però, che la maggior parte dei reati è punita con pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, di talché il beneficio sospensivo sarebbe riservato ad ipotesi statisticamente marginali e questo potrebbe incentivare le opposizioni al decreto penale di condanna e il conseguente rallentamento del sistema giudiziario, che il procedimento monitorio, in ipotesi, dovrebbe invece alleggerire e velocizzare.

Non è chiaro se la sostituzione della pena pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità possa essere chiesta anche nei casi in cui sia stato applicato il beneficio della sospensione condizionale della pena. L'obiettivo perseguito dalla riforma di rilanciare l'efficienza del sistema dovrebbe indurre ad una risposta positiva; in tal caso la richiesta di sostituzione implicherebbe una rinuncia al beneficio. Del resto, diversamente opinando si rischierebbe di incentivare opposizioni strumentali ad ottenere la sostituzione preclusa dal beneficio.

La sospensione del procedimento con messa alla prova

Le statistiche dimostrano che il rito in esame ha avuto un buon successo nella prassi.

La riforma ne opera, innanzitutto, un'estensione indiretta attraverso l'ampliamento del catalogo dei reati di cui all'art. 550, comma 2, c.p.p., includendovi fattispecie che, oltre a non presentare particolari difficoltà di accertamento, si prestano a percorsi risocializzanti o riparatori da parte dell'autore, compatibili con l'istituto di cui all'art. 168-bis c.p.

In secondo luogo, si è attribuita al Pubblico Ministero la possibilità di proporre la sospensione del procedimento con messa alla prova sia durante le indagini preliminari, con l'avviso ex art. 415-bis c.p.p. (art. 464-ter.1 c.p.p.), sia in udienza (art. 464-bis c.p.p.), con eventuale termine di riflessione di 20 giorni concesso all'imputato.

Mentre la proposta contenuta nell'avviso ex art. 415-bis c.p.p. deve indicare quantomeno durata e contenuti essenziali del programma di trattamento, non è chiaro quanto debba essere consistente la proposta fatta in udienza, ossia se il Pubblico Ministero abbia almeno l'obbligo di abbozzare contenuti e tempi del periodo di prova, oppure possa sterilmente limitarsi a suggerire l'utilizzo dell'istituto da parte dell'imputato e se a fronte di proposte strutturate l'imputato conservi la possibilità di fare richieste con contenuti diversi.

Va aggiunto che nella proposta fatta con l'avviso di conclusione delle indagini preliminari non è prevista la possibilità di una interlocuzione perché la proposta è cristallizzata nell'avviso, ma nulla vieta che si instauri una prassi in tal senso, che anzi sarebbe opportuna.

La procedura prevista dall'art. 464-ter.1 c.p.p. è di tipo cartolare e il problema principale che pone riguarda la valutazione della proposta formulata dal Pubblico Ministero.

La norma stabilisce che il giudice deve verificarne la conformità ai requisiti di cui all'art. 464-quater, comma 3, c.p.p., ma appare difficile farlo in assenza di un programma e persino di una bozza di programma. Ci si chiede poi che cosa accada in caso di rigetto della richiesta perché l'imputazione è stata formulata e l'azione penale dovrebbe essere irretrattabile.

A differenza dell'indagato, che può formulare l'istanza prima della conclusione delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero può farlo solo con l'avviso di conclusione delle indagini preliminari. Ciò è giustificato dalla necessità che la rinuncia a contestare l'accusa sia formulata in modo pienamente consapevole e che il giudice sia messo in condizione di svolgere il suo vaglio (ammissibilità proposta in base alla qualificazione giudica fatto, assenza di elementi per sentenza ex art. 129 c.p.p. e idoneità proposta).

Deve osservarsi che la riforma implica un coinvolgimento più attivo del Pubblico Ministero, che finora era rimasto in disparte in questo rito, in un'ottica di generale sensibilizzazione verso un nuovo modo di intendere la pena e la giustizia penale. Il vantaggio che ci si può effettivamente attendere non è quello di orientare la difesa verso una soluzione altrimenti ignorata, ma di convincerla ad accedervi prima di quanto avrebbe fatto, evitando così l'instaurazione dell'udienza preliminare o del dibattimento, sedi in cui la messa alla prova sarebbe stata richiesta.

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