La giustizia riparativa nella fase dell'esecuzione penale: luci e ombre di una riforma dalle fondamenta (troppo) fragili (Prima Parte)

Fabio Fiorentin
26 Maggio 2023

Nella prima parte del contributo, l'Autore delinea il quadro giuridico-normativo che ha fatto da sfondo alla riforma della giustizia riparativa introdotta con il d.lgs. n.150/2022 (c.d. “riforma Cartabia”), soffermando, in particolare, l'attenzione sui princìpi di derivazione costituzionale e su quelli di matrice europea e prendendo, quindi, in esame l'utilizzo di strumenti riparativi e pseudo-riparativi nella giurisprudenza di merito.
Premessa

Il non facile rapporto che intercorre tra l'“effettività della tuteladella vittima e il diritto alla “risocializzazionedel reo trova oggi il suo punto di massima tensione nella fase dell'esecuzione penale, dove, accanto agli strumenti per il recupero dell'autore di reato al consesso sociale, dovrebbero pure operare i percorsi di giustizia riparativa introdotti dalla riforma “Cartabia” (d.lgs. n.150/2022).

L‘ordinamento penitenziario si è sempre proposto di “riparare” metaforicamente la persona colpevole ma – e qui si genera il paradosso (che neppure la riforma appena varata riesce a risolvere pienamente) – nella fase di esecuzione della pena si è sempre massimizzato il valore costituzionale del recupero sociale del reo, visto quale obiettivo e fine ultimo della pena applicata in senso costituzionale che, fino ad oggi, ha regnato incontrastato, vantando una primazia che solo debolmente può essere posta in predicato, nel caso concreto, dalla ponderazione con le esigenze specialpreventive e di difesa sociale. Oggi, invece, dopo la riforma Cartabia, tale prevalenza assiologica viene posta in seria crisi dall'irrompere sulla scena delle ragioni della vittima.

In altri termini: una fase del procedimento che vorrebbe essere dedicata al recupero sociale e – in ultima analisi – al promovimento delle istanze di una soltanto delle parti della “coppia criminale”, dovrà ora fungere da contenitore di altre e spesso dissonanti aspirazioni, promananti da chi sia stato leso dall'agìto criminoso.

Benché il tema della dialettica tra punizione e riparazione sia ovviamente molto più vasto, comprendendo i punitive damages e le nuove sanzioni civili per i reati depenalizzati, i programmi riparativi della m.a.p., i profili risarcitori presidiati dal compendio normativo di cui agli artt. 185 c.p., 2043, 2056 e 2059 c.c. per ciò che attiene la valutazione del danno patrimoniale e non patrimoniale nonché, sul versante processuale, l'attenuante ex art. 62, n.6, c.p., è, tuttavia, nella fase di esecuzione della pena che appare spesso problematico percepire con nitida chiarezza l'operare di due fondamentali premesse concettuali.

Si intende alludere, per un verso, alla distinzione tra il momento riparativo e quellopunitivo (nei termini già enunciati dalle SS.UU. con la sentenza n. 16601/2017, ove si afferma che la riparazione non è il risarcimento e, soprattutto, non è il “risarcimento punitivo”) e, per l'altro verso, alla precisazione che la riparazione non coincide integralmente con il profilo risarcitorio del danno (ha ragione Donini quando osserva che il risarcimento non ripara integralmente l'offesa: «perché l'offesa non è solo il danno, c'è anche il disvalore dell'azione, l'offesa è più complessa, quindi il mero risarcimento non ripara integralmente, risarcisce ma non ripara integralmente l'offesa»).

Il rischio è, in altri termini, quello di una deriva verso quelle “scorciatoie riparatorie” che – sovrapponendo indebitamente la dimensione risarcitoria a quella riparativa - orientano l'esecuzione penale a obiettivi che poco o nulla hanno in comune con i princìpi e gli obiettivi della giustizia riparativa.

Il profilo costituzionale

Non trascurabile peso specifico nell'equilibrio che occorre creare tra i diritti alla rieducazione dell'autore di reato e le ragioni della vittima ha la constatazione che i due profili non sembrano apparentemente godere della medesima posizione sul piano costituzionale: nel nostro ordinamento, almeno formalmente, la posizione della vittima non è espressamente costituzionalizzata.

Come è noto, infatti, l'articolo 27 della Costituzione si occupa della responsabilità penale delle persone e del modo in cui si devono far scontare le pene irrogate e della loro finalità: «La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La Carta fondamentale, dunque, non menziona affatto la vittima del reato, consegnando, anzi, all'interprete una chiara indicazione dell'obiettivo che le pene devono perseguire – quello del recupero sociale del reo – che è, per giunta, l'unico ad essere espressamente menzionato nel testo di matrice costituzionale.

Quest'ultimo indicatore è stato valorizzato da quanti vi hanno voluto scorgere una sorta di primato della vocazione rieducativa rispetto alle altre possibili finalità della pena, così indirettamente rafforzando ancor di più la posizione centrale del condannato nelle dinamiche dell'esecuzione penale.

A fronte di tale quadro, si pone il problema della posizione della vittima nell'ordinamento: è anch'essa “costituzionalizzata”, come quella del reo? È possibile rispondere in senso affermativo, osservando che l'Italia è tenuta ai sensi dell'art. 10 Cost., a conformare il proprio ordinamento al rispetto degli obblighi internazionali ed a conformare il proprio diritto a quello eurounitario (art. 117 Cost.), ove lo statuto della vittima è ormai ben consolidato? É possibile, seguendo un ragionamento triadico in chiave restorative, ritenere che, quando la Costituzione opta, con l'art. 27, per un modello di pena non primariamente retributiva ed esemplare ma principalmente volta al recupero sociale del condannato, essa ponga le premesse per la costruzione di uno status della vittima?

La giustizia riparativa nello spazio giuridico europeo

Se la giustizia riparativa ha dovuto attendere la riforma del 2022 per accedere a pieno titolo nell'ordinamento giuridico, le fonti internazionali si occupano da tempo dei temi afferenti alla tutela della vittima e alla giustizia riparativa. Limitando la rassegna a quelle di matrice europea, risalgono al 1985 i primi inviti agli Stati affinché introducessero modifiche normative per promuovere la ricerca di un diverso spazio di ascolto delle vittime di reato. Alla base, vi è una nuova visione del sistema giuridico penale e delle funzioni della pena, non più basato unicamente sul rapporto Stato-reo finalizzato alla punizione di quest'ultimo nel caso di accertamento della responsabilità, bensì fondato sulla visione del reato come vicenda dinamica, che ha coinvolto le relazioni tra le parti (autore di reato e vittima) ma che ha provocato, altresì, un danno anche per la società, che deve essere riparato in varie forme

Tra le fonti soft law rilevano la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d'Europa e la Dichiarazione di Vienna del 2000, in occasione del X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine ed il trattamento dei detenuti che, al paragrafo 27 afferma: «Noi decidiamo di introdurre, laddove risulti opportuno, strategie di intervento a livello nazionale, regionale, e internazionale a supporto delle vittime, come tecniche di mediazione e giustizia riparativa e fissiamo nel 2002 il termine entro il quale gli Stati sono chiamati a valutare le pratiche essenziali per promuovere ulteriori servizi di supporto alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle stesse e a prendere in considerazione l'adozione di fondi per le vittime»; e al successivo par. 28 aggiunte: «Noi incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparativa, procedure e programmi che promuovano il rispetto dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, degli autori del reato, della comunità e delle altre parti».

Tra le fonti cogenti, particolare rilievo assume la Direttiva europea n. 2012/29, cui si ispira anche la disciplina organica introdotta nel nostro ordinamento con la riforma “Cartabia”, che introduce in tema di garanzie della vittima nel contesto dei servizi di giustizia riparativa, alcuni principi fondamentali, tra i quali:

  1. la focalizzazione sull'interesse della vittima;
  2. il principio che l'accesso ai servizi di giustizia riparativa è fondato sul consenso, libero e informato dei partecipanti che possono, in qualsiasi momento, revocare il consenso dato;
  3. il diritto della vittima a ricevere informazioni complete e obiettive in merito al percorso di giustizia riparativa e al suo potenziale esito, nonché ragguagli sulle modalità di controllo dell'esecuzione di un eventuale accordo;
  4. il riconoscimento da parte dell'autore dei fatti essenziali della vicenda;
  5. la natura riservata dei colloqui e delle dichiarazioni espresse nell'ambito di procedimenti di giustizia riparativa e il divieto di divulgazione all'esterno, salvo l'accordo di tutte le parti o preminenti motivi di interesse pubblico.
L'attenzione va, in particolare, incentrata sull'inclusione, tra i princìpi fissati dalla direttiva europea, della necessità del “riconoscimento” da parte dell'autore del reato, dei “fatti essenziali del caso”, riprodotto anche nella Risoluzione ECOSOC 2002/12 e nella Raccomandazione 2018/8, punto 30, che chiama l'autore del fatto ad uno sforzo particolarmente significativo non solo dal punto di vista intimo e psicologico, ma anche in proiezione esterna, perché pone il sistema nelle condizioni di contemperare il diritto di difesa e il principio-corollario del nemo tenetur se detegere con le finalità della giustizia riparativa (su tali profili, v. infra). La disciplina italiana introdotta con il d.lgs. n. 150/2022 non contiene, tuttavia, specifici riferimenti a tale importante profilo, limitandosi a indicare, tra gli obiettivi che si prefigge la giustizia riparativa, quello di promuovere il “riconoscimento della vittima”.

La Raccomandazione del Consiglio d'Europa relativa alla giustizia riparativa in materia penale CM/REC(2018)8, definisce quale “giustizia riparativa” «ogni processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall'illecito, attraverso l'aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale (da qui in avanti ‘facilitatore')» (paragrafo 3).

La sopra citata Raccomandazione riconosce alla vittima (persona fisica) una serie di prerogative così riassumibili:

a) diritto ad una più ampia partecipazione a livello processuale ma anche rispetto ai programmi di giustizia riparativa per affrontare e definire le questioni legate alla riparazione dell'offesa;

b) diritto ad avere «più voce in merito alle misure opportune da adottare in risposta alla loro vittimizzazione, a comunicare con l'autore dell'illecito e a ottenere riparazione e soddisfazione nell'ambito del procedimento giudiziario» (Rac.CM/Rec(2018)8);

c) riconoscimento dei propri bisogni e interessi, pari a quello garantito all'autore di reato;

d) diritto a partecipare a programmi di giustizia riparativa da rendere «disponibili in ogni fase del procedimento penale» (Rac. CM/Rec(2018)8);

e) diritto a una adeguata informazione che metta in grado le vittime di scegliere se partecipare a un programma di giustizia riparativa;

f) diritto ad un trattamento dignitoso, rispettoso e professionale.

Quanto alla tipologia di programmi, la Raccomandazione del Consiglio d'Europa CM/Rec (2018)8 afferma che: «La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l'autore dell'illecito, e può anche includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell'illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite» (paragrafo 4).

I programmi di giustizia riparativa devono orientarsi, in accordo con le fonti sovranazionali soprarichiamate, e stando alla Raccomandazione R(2010)1 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulle Regole del Consiglio d'Europa in materia di probation, sui seguenti obiettivi:

  • riparare, per quanto possibile, del danno arrecato alla vittima e al soggetto giuridico offeso;
  • promuovere la responsabilizzazione del soggetto che ha ammesso gli elementi materiali del fatto o che è stato riconosciuto come autore del reato, a partire dalla comprensione dell'impatto del reato su vittima, soggetto giuridico offeso e comunità;
  • consentire la possibilità per le vittime di esprimere i loro bisogni materiali ed emotivi affinché possa emergere il tipo di riparazione più adeguato;
  • includere la comunità nella gestione dei percorsi di giustizia riparativa o nella fase di follow-up.

Indicazioni significative sulla tipologia dei programmi e su valori e standard della giustizia riparativa provengono dall'Handbook on Restorative Justice Programmes (UNODC 2020).

Come si è accennato, la riforma italiana guarda alla Direttiva 2012/29 e non alla Raccomandazione del 2018, rivolgendo lo sguardo, quindi, ad una fonte che disegna lo statuto della vittima nello spazio giuridico europeo piuttosto che occuparsi specificamente di giustizia riparativa. Tale opzione del legislatore italiano è, dunque, foriera di possibili tensioni tra la disciplina interna (a es. con riguardo al cruciale profilo del “riconoscimento” dei fatti da parte dell'autore del reato, obliterato dal D.L.gs n.150/2022) tenuto conto del carattere self-executing della direttiva del 2012, che deve essere dunque osservata in caso di lacuna della normativa nazionale.

Il quadro giuridico-normativo nazionale

La vigente disciplina dell'esecuzione penale quasi non si occupa della giustizia riparativa e soltanto sporadicamente accenna alla vittima.

Tutte le scarne disposizioni che si riferiscono alla vittima, inoltre, lo fanno in senso quasi “strumentale” o comunque indiretto mirando, per un verso, a tutelare esigenze preventive (che comprendono la tutela della vittima dagli agiti aggressivi dell'autore di reato, come avviene, a es., nel caso del c.d. “Codice rosso” introdotto con la legge n. 69/2019) e, per l'altro verso, a integrare il giudizio circa l'effettivo ravvedimento del condannato in funzione della sua riabilitazione.

Paradigmatica di una tale prospettiva è la disciplina della riabilitazione, ove l'art. 179, comma 4, c.p., stabilisce che la riabilitazione non può essere concessa quando il condannato non abbia adempiuto alle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle.

Anche l'art.176, ultimo comma, c.p., dettato in materia di liberazione condizionale, espressamente subordina la concessione della misura alla prova dell'assolvimento da parte del condannato delle obbligazioni civili derivanti dal reato, evidenziando un profilo che – alla luce dell'invalsa prassi giurisprudenziale - involge altresì il tema del “perdono della persona offesa”, che nasce storicamente dalle pronunce in materia di benefici applicati in favore di condannati per terrorismo.

Per effetto della ricordata prassi giudiziaria si è, invero, affermata una consuetudine secondo cui il detenuto che si accinge a presentare l'istanza di accesso alla liberazione condizionale sia tenuto a chiedere il perdono della persona offesa, incombendogli addirittura di fornire la prova degli incontri riparativi e, molto spesso, alle espressioni di interessamento del condannato nei confronti delle vittime, cioè ai gesti più diretta espressione di una giustizia riparativa, è attribuita una valenza di elemento decisivo per la concessione della misura alternativa.

La giurisprudenza tende poi a considerare equipollenti i profili rieducativi, riparatori e riparativi, come plasticamente emerge nel noto “caso Vallanzasca”, ove il Tribunale di sorveglianza rilevava: «Quanto all'ulteriore presupposto indicato dall'art. 176 c.p., dall'incartamento processuale non risulta che Vallanzasca abbia mai risarcito le vittime dei suoi gravissimi reati, né attraverso un almeno parziale ristoro economico (anche quando, lavorando, ne aveva avuta la possibilità) né attraverso altre forme di riparazione obiettivamente dimostrative della seria e univoca volontà di alleviare le sofferenze delle predette, né risulta che abbia mai mostrato convinta resipiscenza, chiesto perdono o posto in essere condotte comunque indicative di una sua effettiva e totale presa di distanza dal vissuto criminale» (Trib. Sorv. Milano, ord.17 aprile 2018, Vallanzasca).

La giurisprudenza di legittimità ha cercato di porre chiarezza, rilevando non solo che il perdono della vittima non integra un requisito indispensabile e determinante per la concessione della liberazione condizionale, non essendo neppure legislativamente previsto, ma che esso non assume una rilevanza di per sé decisiva, neppure nell'eventualità di un suo ottenimento.

Si pone, piuttosto, il problema da parte del giudice di sorveglianza di verificare che la richiesta di perdono, e in generale l'interessamento alla vittima da parte del reo, siano frutto di una effettiva resipiscenza, e cioè di un'effettiva volontà di eliminare o quantomeno arginare i danni causati dalla condotta criminale e non il risultato di un mero calcolo opportunistico e strumentale all'ottenimento di un vantaggio «e dunque di per sé non significativi di una reale revisione critica di quanto commesso» (così espressamente Cass. pen., n. 8410/2022, dep. l'11 marzo, condividendo la posizione già espressa nell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bari).

Per contro, è stato messo in evidenza che «il rancore delle vittime non può di per sé stesso tenere in cella il colpevole», così che la mancanza di perdono da parte delle vittime non può giustificare di per sé stessa la non ammissione del reo al beneficio, dal momento che il giudizio deve attenere a tutta quella serie di elementi suddetti che sono stati individuati dalla giurisprudenza come indici per la constatazione o meno del sicuro ravvedimento (Cass. pen., n. 8410/2022).

Proseguendo la rassegna delle fonti, sul versante normativo del trattamento penitenziario le norme di riferimento sono rinvenibili, anzitutto, nella disposizione di cui all'art. 27 del regolamento di esecuzione penitenziario (d.p.r. n. 230/2000) che, espressamente assegna agli educatori incaricati dell'osservazione della personalità del detenuto il compito di promuovere “una riflessione . . . sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.” Si tratta di una indicazione sufficientemente chiara sulla finalizzazione anche riparativa dell'esecuzione, benché offuscata da una certa confusione terminologica, laddove si tende ad accostare riparazione a risarcimento e non si menziona, ancora una volta, la “vittima” del reato bensì la “persona offesa”.

Altre indicazioni si trovano nell'art. 13 comma 3 ord. penit., nel testo modificato dal d.lgs. n. 123/2018 che riproduce parte del contenuto del già evocato art. 27 reg. esec. ord. penit., aggiungendovi un richiamo espresso alla vittima di reato non esistente – come si è appena rilevato - nella norma regolamentare: «nell'ambito dell'osservazione è offerta all'interessato l'opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione».

Nella dinamica del trattamento penitenziario intra moenia, l'osservazione dei condannati a pene detentive dovrebbe, pertanto, essere prima di tutto finalizzata a verificare le riflessioni compiute dal reo in merito al disvalore dell'illecito e con riguardo alle sofferenze provocate alla vittima del reato. Si tratta di un profilo determinante, anche se non esclusivo, per la valutazione della pericolosità sociale del reo, anche perché affatto scontato e non solo nei casi in cui i condannati proclamano la loro innocenza, come è loro diritto, ma anche in altri casi in cui pur, essendovi l'ammissione degli addebiti, magari fin dalla fase delle indagini o processuale, i condannati si limitano a dolersi delle conseguenze dei reati derivate nella loro vita o al più in quella dei loro congiunti (es. le sofferente causate ai figli per l'assenza dovuta alla detenzione), mentre raramente emergono considerazioni di consapevolezza delle sofferenze e del timore provocati nelle persone che sono state vittime delle azioni delittuose.

Problemi assai delicati si pongono, nella prospettiva appena considerata, in tema di concessione delle misure alternative alla detenzione in rapporto a soggetti condannati per crimini sessuali, sex offenders o soggetti maltrattanti.

Sotto il profilo compensativo, va segnalata la difficoltà di predisporre un progetto risarcitorio congruo, tanto per la difficoltà che spesso si incontra nell'ottenere la collaborazione della vittima (che comprensibilmente vive ogni occasione di contatto con l'agente in modo traumatico) quanto per la relativa carenza di precedenti o prassi consolidate nella materia in esame. A titolo esemplificativo, le prescrizioni di alcuni Tribunali di sorveglianza impongono in casi simili dazioni a carattere pecuniario (eventualmente rendendo effettivo il risarcimento già statuito nella sentenza di condanna ovvero nel giudizio civile); progetti di inserimento lavorativo o scolastico della vittima a spese del condannato; attività di volontariato presso enti o istituzioni pubbliche qualora la vittima rifiuti ogni proposta risarcitoria; l'obbligo di frequenza da parte della persona affidata di percorsi o programmi per soggetti maltrattanti.

La norma che è stata, tuttavia, maggiormente valorizzata in favore della vittima è stata senz'altro quella contenuta nell'art. 47, comma 7, della legge 354/75, dettata in tema di affidamento in prova al servizio sociale, che recita, nella formulazione vigente introdotta in seguito alla novella della l. 10 ottobre 1986 n. 663, «nel verbale (delle prescrizioni n.d.r.) deve anche stabilirsi che l'affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato…».

Qui si determina il più importante punto di saldatura fra le “due anime” della riparazione: quella risarcitoria/riparatoria, già immanente nel sistema, e quella riparativa, ora valorizzata dalla riforma del 2022, ma è proprio in questo contesto che appaiono anche i rilevanti ostacoli che si frappongono al pieno ingresso delle istanze riparative nella fase esecutiva della pena.

Una riparazione in fase esecutiva? I rischi delle scorciatoie “riparatorie”

Uno degli ostacoli principali alla diffusa applicazione di pratiche riparative è la diffusa e non infondata convinzione che esse dovrebbero trovare spazio elettivamente nell'immediatezza dei fatti o, comunque, nel corso del giudizio di merito, laddove la fase esecutiva, situandosi a troppa distanza dai fatti stessi, rischierebbe di produrre forme di vittimizzazione secondaria o terziaria e dovrebbe, per tale motivo, essere piuttosto consacrata ai profili rieducativi e risarcitori.

Si tratta di una impostazione che risente della prospettiva con cui storicamente la giurisprudenza della sorveglianza ha inteso introdurre nell'ambito delle misure alternative elementi di sapore riparativo, intendendoli in senso “contrapassistico” o “risarcitorio”.

La disposizione del comma 7, art. 47 ord. penit., infatti, è stata inizialmente utilizzata in funzione retributiva: le prime evidenze di tale fenomeno si registrano in seguito al fenomeno di “tangentopoli”, con le condanne ai c.d. “tangentisti” che pervenivano ai Tribunali di sorveglianza di Milano e Torino. Il leading case in materia è costituito dal caso deciso con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino del 15.10.1997 (caso Rossanigo) in rapporto all'istanza di affidamento in prova al servizio sociale formulata da persona condannata per peculato aggravato, avendo distratto a proprio vantaggio delle ingenti somme di denaro destinate ad un ospizio per poveri. Nella fattispecie, emergeva dagli atti che la donna aveva commesso il reato per incrementare ulteriormente il proprio tenore di vita, sottraendo alle pubbliche necessità una somma consistente, avvalendosi della posizione di rilevo all'interno della struttura pubblica ove prestava servizio.

Il contenuto precettivo delle prescrizioni collegate alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale avrebbe dovuto assolvere – secondo il tribunale torinese – alla finalità di far percepire alla condannata le conseguenze negative per la società del reato commesso, in funzione specialpreventiva, e attenuare le stesse attraverso una prestazione di “dare”.In ordine poi a quest'ultimo aspetto, il tribunale di sorveglianza in quell'occasione evidenziò come non fosse possibile imporre una prescrizione restitutoria (risarcitoria in forma specifica) poiché l'interessata aveva nel frattempo dilapidato le somme illecitamente sottratte alla istituzione pubblica, e si trovava in disagiate condizioni economiche. Si optò allora per una prescrizione restitutoria “per equivalente”, disponendo che l'affidata prestasse la propria opera a titolo gratuito, per tutta la durata della messa alla prova, in favore dello stesso ospizio per poveri danneggiato dalla condotta antigiuridica dell'affidata, quale addetta alle pulizie. È evidente la prospettiva retributivo/sanzionatoria correlata all'applicazione di una pena alternativa che, nell'intento del tribunale di sorveglianza si è voluto far diventare una pena “esemplare” esaltandone la connotazione contrappassistica.

La peculiarità della casistica riportabile ai “white collars crimes” ha poi indotto la giurisprudenza di merito a elaborare dei parametri specifici per valutare la ricorrenza dei presupposti di concedibilità delle misure alternative alla detenzione. Si è, infatti, puntato a soluzioni di tipo marcatamente retributivo (come nel caso sopra esaminato), in grado di collegare la prestazione riparatoria al reato commesso, appagando le esigenze di vendetta sociale.

Successivamente, la giurisprudenza del tribunale di sorveglianza di Milano, occupandosi dei condannati di “tangentopoli”, ha enucleato ulteriori parametri: si è verificato se il soggetto avesse manifestato segni di resipiscenza rispetto al reato commesso (Trib. Sorv. Milano 03.04.1997, Pillitteri; Trib. Sorv. Milano 27.05.1997, Tassan Din; Trib. Sorv. Milano 23.07.1997, Cusani), o avesse compiuto una seria e reale revisione critica del comportamento, se prestasse un'attività lavorativa estranea all'ambito in cui era maturato il reato commesso e se avesse integralmente risarcito il danno (Trib.Sorv.Milano, 23.02.1998, Ligresti; Trib. Sorv. Milano 11.02.1998, Schemmari). Accanto alla tentazione retribuizionista si materializza, dunque, la “scorciatoia riparatoria”.

Opponendosi a tale impostazione, la Cassazione, occupandosi del celebre caso Cusani (soggetto socialmente “iperintegrato”), censurò il rilievo del tribunale di sorveglianza di Milano, il quale aveva affermato che la misura richiesta avrebbe dovuto non soltanto garantire il recupero sociale del soggetto attraverso la sua piena resipiscenza rispetto ai fatti commessi ma soddisfare, altresì, il profilo risarcitorio della pena, attraverso manifestazioni di tipo altruistico che compensassero – appunto – il vulnus inferto dal condannato alla società. La Corte di legittimità, esprimendosi sullo stesso caso, ha, infatti, rilevato che la concedibilità della misura di cui all'art. 47 ord. penit. non presuppone affatto né il pentimento o la revisione critica del condannato rispetto ai reati commessi, né alcuna forma di manifestazione concreta di tipo riparatorio, essendo sufficiente che il giudice di sorveglianza accerti che la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale possa assicurare meglio che la detenzione in carcere la funzione rieducativa della pena stabilita dall'art. 27 della Costituzione, sulla base dei dati dell'osservazione penitenziaria che evidenzino un'iniziale processo di modificazione dell'atteggiamento antisociale del condannato.

A distanza di molto tempo dalle vicende di Tangentopoli, le indicazioni della Cassazione faticano ancora a trovare spazio nel diritto vivente, e la giurisprudenza di merito continua a operare in termini analoghi a quelli del tribunale milanese. Molti tribunali di sorveglianza continuano, infatti, a subordinare la concessione dell'affidamento in prova al servizio socialeall'avvenuto risarcimento dei danni (o la promessa formale di farlo, resa a verbale) interpretando la disposizione del comma 7, art. 47 ord. penit. alla stregua di una condizione di ammissibilità della misura, altri l'interpretano nel senso di prevedere lo svolgimento di attività di volontariato sociale, sia nel caso di impossidenza economica, sia nel caso di delitti che non hanno una persona offesa diversa dallo Stato oppure anche congiuntamente al risarcimento del danno, per dare un ulteriore contenuto al progetto di esecuzione penale esterna.

Comunque la si voglia considerare, la prescrizione “obbligatoria” in esame fuoriesce dall'ambito della giustizia riparativa poiché, in questo caso, la condotta del reo non è volontaria ma è imposta dalla precisa indicazione del giudice trasfusa nel corredo prescrizionale dell'affidamento in prova e, soprattutto, non viene coinvolta attivamente la persona offesa.

Il rischio che si è spesso concretizzato è che – analogamente a quanto è accaduto nell'esperienza del Giudice di pace - quando la disciplina normativa manca o non è chiara sulle coordinate di fondo della giustizia riparativa, nascano e trovino terreno fertile prassi applicative concentrate tutte sulla dimensione riparatoria appiattite su letture sviluppate nel solco di una tradizione che non di rado trascura la dimensione più autenticamente riparativa dell'esecuzione penale. È proprio quanto si è verificato nella giurisdizione di pace, ove la dimensione conciliativa della mediazione penale di cui all'art. 29 d.lgs. n. 274/2000 è risultata spesso recessiva a fronte di tentativi di conciliazione condotti nel segno dell'omologo istituto civilistico, fondato su reciproche concessioni, piuttosto che su un reciproco ascolto e riconoscimento.

Tornando alla disposizione del comma 7, art. 47 ord. penit., il punto di equilibrio dovrebbe essere quello per cui una prescrizione di “facere” o di “dare” può essere legittimamente inserita tra quelle che il soggetto ammesso all'affidamento al servizio sociale è tenuto a rispettare, quale manifestazione tangibile della sua volontà di rispettare la legge e di eliminare – per quanto nelle sue possibilità (v. infra) - le conseguenze negative della propria condotta illecita.

Effettivamente, i commi 4 e 5 dell'evocata disposizione penitenziaria non prevedono, in via generale, limitazioni al contenuto delle prescrizioni, se non quelle ricavabili dal diritto vivente, che indica due “paletti”: il contenuto delle prescrizioni non può essere contrario alla legge e non deve rivestire carattere immotivatamente afflittivo, e deve essere, inoltre, finalizzato alla rieducazione del reo e/o ad evitare il pericolo di una sua recidiva (Cass. pen., sez. I, 4 maggio 2001, Muccio; Cass. pen., sez. I, 7 giugno 2001, n. 23218 (CC.20/02/2001), Brighel, CED).

Un limite intrinseco alla disciplina dell'affidamento in prova è contenuto, inoltre, nello stesso comma 7 dell'art. 47 in analisi, a cui mente l'affidato deve adoperarsi “in quanto possibile” in favore della vittima del suo reato. Qui occorre scindere la questione esaminando due distinti profili:

- “in quanto possibile” dal punto di vista del condannato: la locuzione “in quanto possibile” – intrinseca ad ogni prescrizione riparativa - non può essere intesa (come pure in qualche caso è stato) come attenuativa della doverosità della prescrizione con riferimento alle sole possibilità economiche del reo di risarcire, in quanto il risarcimento è solo uno dei mezzi attraverso cui il condannato può “adoperarsi in favore della vittima”. Sull'inciso, infatti, si riflette il tipo di riparazione possibile, che nel nostro caso, per l'elasticità della locuzione, può esplicarsi mediante una qualsiasi forma di sostegno morale o materiale realizzabile nel caso concreto. L' “in quanto possibile” deve, dunque, leggersi in coordinato disposto con l'art. 27 reg. es. circa la “riflessione” sul reato e sulle conseguenze negative per l'autore stesso, condizione necessaria per l'ulteriore “riflessione” sulle possibili “azioni di riparazione” in favore della vittima e conl'art. 13 ord. penit. Una tale lettura coordinata non può non valere anche per l'indagine personologica da espletare (a cura dell'equipe penitenziaria, o dell'UEPE) in occasione di istanza di misura alternativa (in primo luogo di affidamento al servizio sociale) dalla libertà, in vista dunque del trattamento in ambiente esterno.

Spetterà, poi, al giudice verificare, sulla base degli atti osservativi, se l'offerta riparativa sia effettivamente accompagnata ad una elaborazione interiore e al conseguente riconoscimento della vittima, così che la riparazione non si riduca ad una finzione, ad un “semplice” impegno risarcitorio dove è essenziale rispettare non la vittima, ma le forme e i tempi burocratici fino alla chiusura della pratica.

È noto, infatti, che nel trattamento intramurale rieducativo viene inevitabilmente in rilievo il c.d. sinallagma carcerario, ovvero lo scambio tra disponibilità da parte del detenuto ad accettare il percorso trattamentale (e quindi anche riparativo) e la concessione di misure premiali alternative alla detenzione, previste anche per agevolare il consenso ritenuto necessario per garantire l'efficacia del trattamento.

L'ovvio pericolo sotteso a questo scambio è che il consenso espresso dal detenuto sia spurio, utilitaristico, in quanto finalizzato alla riduzione della propria sofferenza (libertà o anticipazione del ritorno in libertà) e non di quella della vittima (con ulteriore sua vittimizzazione),

- “in quanto possibile” dal punto di vista della vittima: La “possibilità” della condotta riparatoria dipende anche dalla disponibilità della vittima (individuabile/individuata): dopo molti anni dal fatto, magari grave, nel corso del quale è stata solo “persona-mezzo” per l'accertamento processuale della verità è verosimile che la vittima possa rifiutare ogni contatto con l'autore del reato, così come può non avere interesse per quelle attività riparative che invece il reo vuole o può porre in essere. E comunque un contatto con la vittima che sia rispettoso ed efficace non può essere certo imposto dal giudice o affidato all'iniziativa dell'autore del reato. Su questo versante non v'è ancora, purtroppo, una norma equivalente all'art 27 reg. esec. o all'art. 13 ord. penit., mancando, cioè, la previsione della presa in carico anche della vittima per essere informata e formata ai fini del percorso riparativo.

Il più importante limite al dispiegarsi della creatività giurisprudenziale è però contenuto nella stessa norma dell'art.47 ord. penit., laddove essa indica il fine che la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale deve perseguire e stabilisce che il beneficio alternativo può essere applicato «nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati». Prevenzione e rieducazione rappresentano, dunque, le coordinate normative che vincolano il contenuto precettivo delle prescrizioni che possono essere imposte dal tribunale all'affidato.

Posto in questi termini il problema a livello concettuale, sono emerse immediatamente nell'applicazione concreta ulteriori e articolate questioni applicative:

  • se, sotto il profilo rieducativo potesse o meno ritenersi adeguata una prestazione riparativa formalmente espletata nei termini stabiliti dal giudice cui non corrisponda, tuttavia, una reale resipiscenza del reo e neppure l'effettiva introiezione del valore etico rappresentato dalla doverosità dell'obbedienza alla legge;
  • se, e in quali termini, dovesse contemperarsi il diritto della vittima a non accettare contatti con l'agente ovvero prestazioni riparatorie da parte del medesimo (il problema si pone soprattutto in rapporto alla commissione di crimini di natura sessuale), che potrebbero tradursi, dal punto di vista soggettivo della vittima, in un ulteriore vulnus (vittimizzazione secondaria), con il diritto-dovere del condannato a adoperarsi concretamente in favore della persona offesa;
  • se, e in quali termini, sia consentito, da parte del giudice di sorveglianza, subordinare la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale alla pregiudiziale offerta da parte del condannato di un compiuto progetto restitutorio;
  • di quali obblighi possano essere concretamente gravati i condannati ammessi all'affidamento in prova, in rapporto alla garanzia costituzionale di cui all'art. 23 della Costituzione (pericolo di “vittimizzazione terziaria”).

Dubbi, quelli sopra affacciati, che possono ricondursi alla questione di fondo: la norma dell'art. 47, comma 7, ord. penit. può sostenere prescrizioni di tipo riparativo o siamo fuori dal sistema?

L'impellente necessità di confrontarsi con tale interrogativo risponde all' altrettanto stringente tenore della previsione che prevede l'esplicarsi dei programmi di giustizia riparativa anche nella fase dell'esecuzione penale o della misura di sicurezza. Si impone, in altri termini, di fare spazio alle finalità riparative.

Ciò implica, tuttavia, che occorre tenere ben distinti concettualmente e operativamente i profili afferenti alla dimensione del recupero sociale del condannato da quelli restitutori e riparativi. Ciò dovrebbe portare – tra le altre cose – a un ripensamento della tecnica redazionale dei provvedimenti di concessione dei benefici penitenziari, tenendo distinte a es., nel caso dell'affidamento in prova al servizio sociale, la prescrizione riparatoria ex comma 7, art. 47 ord. penit. da quella che autorizza l'esperimento di attività di giustizia riparativa.

È molto chiaro, tuttavia, che il decollo della giustizia riparativa nella fase dell'esecuzione penale potrà aversi soltanto nella misura in cui si potranno attivare efficienti servizi a tutela della vittima, di supporto, informazione e sostegno alla stessa (tutto quello, cioé, che al momento appare carente o comunque largamente deficitario). In difetto – come rileva Bouchard – è che questa annunciata “rivoluzione copernicana” nella prospettiva di tutela della vittima «rischia di poggiare su gambe molto fragili se il governo non si adopera per assicurare alle vittime di reato servizi riservati, gratuiti e competenti e, così, colmare uno dei più gravi “gap” rispetto agli altri paesi europei».

Al proposito, si deve osservare che non secondarie resistenze ad un coinvolgimento della vittima nei procedimenti di sorveglianza si sono registrate anche all'interno della stessa magistratura di sorveglianza, sensibile al pericolo che il protagonismo della vittima sulla scena dell'esecuzione della pena potesse riflettersi negativamente sul percorso di reinserimento sociale del condannato, facendo – per così dire - rientrare dalla finestra quelle istanze di vendetta sociale che si era voluto far uscire dalla porta con l'art. 27, comma 3, della Carta fondamentale.

Al proposito, si paventa il materializzarsi di eccessi riparativi, a loro volta forieri di una possibile vittimizzazione terziaria, che è quella di cui verrebbe a soffrire l'autore del reato. Non si tratta, a ben considerare, di un timore del tutto peregrino, considerando l'esperienza statunitense dei Victim Impact Statements (VIS), che potremmo tradurre come le dichiarazioni della vittima sull'impatto del reato. In pratica si tratta di dichiarazioni, scritte o orali, rese nel corso del processo, che danno alle vittime del reato o, nel caso di morte, ai loro parenti, l'opportunità di parlare del loro essere divenute vittime e dell'impatto che il reato ha avuto sulla loro vita. In alcuni Stati americani è permesso rendere tali dichiarazioni anche durante l'udienza per concedere il parole. In altri i VIS sono ammessi anche per i processi in cui può essere inflitta la pena di morte, e la procedura, dopo pronunce di segno contrario, è stata infine ritenuta legittima dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. La prassi dei VIS non è unitaria e alle dichiarazioni delle vittime viene accordata rilevanza diversa, anche se esse devono essere comunque tenute in conto dal giudice. Con la conseguenza ulteriore che la imponderabile reazione della vittima o dei suoi cari al fatto di reato può portare a valutazioni opposte di situazioni analoghe. Il principio di colpevolezza dell'autore si stempera nella casualità della risposta della vittima.

Molto c'è da riflettere su questo tipo di inclusione della vittima o dei suoi parenti nel processo, sulle ricadute che essa potrebbe avere sul sistema penale, dalla funzione della pena alla concezione stessa del reato e sulla rischiosità di offrire un palcoscenico alla vittima, in una società mediatica come la nostra, in cui la persona offesa, accuratamente selezionata per classe sociale, età, linguaggio, e cultura può divenire un simbolo ed essere strumentalizzata dai mass media e dal potere politico, con un processo di attribuzione di visibilità (o invisibilità) funzionale a scelte di altro livello, con conseguenti mirati impatti anche sulla produzione normativa.

D'altra parte, le più avanzate concezioni ritengono maturi i tempi per ripensare ad un ruolo attivo della vittima nella dinamica post delictum, relegando le diffidenze a tale riconoscimento a retaggio di quella prospettiva del sistema penale che considera il fatto-reato come vicenda statica, avvenuta in un certo momento storico, non considerando che lo stesso fa nascere una relazione tra persone, vittima e reo che possono anche evolversi positivamente nel tempo e dovrebbero essere aiutate a farlo, nell'ottica di entrambe le parti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario