La giustizia riparativa nella fase dell'esecuzione penale: luci e ombre di una riforma dalle fondamenta (troppo) fragili (Seconda Parte)

Fabio Fiorentin
29 Maggio 2023

Nella seconda parte del contributo, l'Autore esamina le novità introdotte dala riforma Cartabia in tema di giustizia riparativa nella fase dell'esecuzione della pena, soffermandosi in particolare sulle modifiche alla legge di ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975 n.354) e sulle possibili tensioni con la recente riforma del c.d. “ergastolo ostativo” (d.l. n. 162/2022).
La riforma della giustizia riparativa

Come si è già accennato, storicamente nel nostro ordinamento il ruolo della vittima tende ad essere marginalizzato (ad esclusione di alcune tipologie di vittime, operata con scelta legislativa spesso intrisa di istanze emotive come a es. nel caso delle vittime di reati di genere, nei cui confronti si indirizzano le disposizioni del c.d. “codice rosso”), così che la vittima non può influire sul trattamento sanzionatorio del reo, né sull'indennizzo a motivo del monopolio punitivo dello Stato, che lascia limitati spazi alle istanze della vittima (essenzialmente ridotti alla costituzione di parte civile e alle correlate facoltà).

Vero è che da quando la vendetta è stata esclusa come modo lecito di “riparare” le vittime, gli offesi sono stati esclusi dal proscenio giudiziario. Ma da quando ciò è accaduto, «si sono fatte sempre più forti le voci che invocano un ritorno prorompente delle vittime sulla scena processuale» (Bouchard).

Si avvertiva, quindi, l'esigenza di riequilibrare le posizioni di entrambi i soggetti della relazione criminale, nella prospettiva che, come l'esecuzione della pena si pone l'obiettivo del recupero dell'autore del reato, così l'ordinamento dovrebbe operare con altrettanta attenzione per favorire la riparazione in favore della vittima, riconoscendola (questa è la parola chiave) come protagonista del dramma processuale nato dal reato.

Non farlo sarebbe come voler suturare una ferita agendo su uno soltanto dei lembi: è evidente che solo agendo su entrambi i versanti della “coppia criminale” autore/vittima (per dirla con Von Hentig) la ferita aperta dalla commissione può sperare di essere richiusa e, forse, di guarire.

Su tale humus attecchisce la riforma italiana della giustizia riparativa, varata con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 e ispirata agli espliciti impegni assunti in Europa, tra i quali, espressamente, viene richiamata la Direttiva 2012/29/UE.

In precedenza, anche il Tavolo XIII degli Stati Generali dell'esecuzione penale aveva formulato alcune proposte e la “Commissione Giostra” nel 2017 aveva proposto un testo di riforma dell'art. 13 ord. penit. – poi adottato con il d.lgs. n. 123/2018 – che introduceva le istanze riparative nell'ambito del trattamento penitenziario. Infine, la legge-delega del 2021 ha posto definitivamente le basi per una riforma organica della giustizia riparativa (art. 1, comma 18, lett. a), della legge n. 134 del 2021).

Quest'ultima si è realizzata sulla base dei principi espressi dalla Direttiva 2012/29/UE e pone il focus sulla vittima quale soggetto giuridico offeso dal reato. Cambia, dunque radicalmente la prospettiva: la tutela dell'offeso non è più perseguita attraverso l'inasprimento sanzionatorio o previsioni volte a garantirne la sicurezza, bensì prioritariamente attraverso la riparazione.

Tra gli obiettivi della riforma vi è, significativamente, quello di «mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa», presenti sul nostro territorio in modo non sistematico e fondate su disposizioni sconnesse e frammentarie, disseminate tra i testi sulla giustizia minorile, sulla giustizia di pace e con qualche bagliore nel procedimento ordinario di cognizione e in sede di esecuzione penale.

Un primo tentativo di sistematizzazione della materia era stato fatto dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità con l'adozione della Circolare del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del 17.05.2019 denominata “Linee di indirizzo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di comunità in materia di Giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato”.

Tale documento di prassi forniva alcune significative indicazioni, tra le quali possiamo ricordare la centralità attribuita agli UEPE sul versante della formazione e dell'attivazione dei percorsi di giustizia ripartiva in ambito penale, l'utilizzo di strumenti riparativi, suscettibili di essere applicati nella gestione dei conflitti all'interno degli istituti di pena o per “l'attivazione di gruppi riparativi per i soli autori di reato”, l'avvio dei condannati allo svolgimento di attività riparative a favore della collettività.

Quello che mancava, tuttavia, era una cornice normativa strutturata entro cui inserire la giustizia riparativa.

L'importanza di introdurre una riforma organica in materia di giustizia riparativa è espressa nelle Linee programmatiche della Ministra Cartabia ove si legge: «Non posso non osservare che il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell'ordinamento in forma sperimentale che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell'intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l'illecito ha originato. Le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale. Non mancano nel nostro ordinamento ampie, benché non sistematiche, forme di sperimentazione di successo e non mancano neppure proposte di testi normativi che si fanno carico di delineare il corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. In considerazione dell'importanza delle esperienze già maturate nel nostro ordinamento, occorre intraprendere una attività di riforma volta a rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione».

La riforma introdotta con il d.lgs. n.150/2022 muta radicalmente il quadro normativo e la giustizia riparativa entra a pieno titolo nel sistema penale. Certo, si può discutere se fosse questa la sede più appropriata; se gli obiettivi che la giustizia riparativa si propone di raggiungere siano in realtà coerenti con le altre finalità prese di mira dal decreto: e cioè con «l'efficienza del processo penale» e soprattutto con la «celere definizione dei procedimenti giudiziari».

Oggi siamo a uno snodo fondamentale e, forse, all'alba di un nuovo modo di intendere la pena: una sorta di rivoluzione copernicana (il giudice del dibattimento pensa ad accertare la responsabilità dell'imputato, il giudice di sorveglianza pensa al recupero sociale del condannato).La riforma apre al passaggio da un paradigma misto (retributivo/rieducativo) ad un altro (rieducativo/riparativo).

Il decreto legislativo n. 150/2022
Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. “riforma Cartabia”) introduce per la prima volta nel nostro ordinamento una riforma organica della giustizia riparativa, in attuazione della delega contenuta nell'art. 1, comma 18, lett. a), della legge n. 134/2021.Si prendono ora in esame alcuni assi portanti della riforma, con specifico riguardo alla fase dell'esecuzione penale: A) La definizione di “vittima”

Nella fase esecutiva, il problema della definizione di “vittima” del reato e del suo status sembra trascendere l'orizzonte del reato, nella misura in cui possono ipotizzarsi percorsi riparativi in rapporto a fatti della vita detentiva (a es. in sede di procedimento per un illecito disciplinare). Un accenno in tale prospettiva si rinviene nella già evocata Circolare del 2019, che ipotizzava il ricorso alla giustizia riparativa quale strumento per gestire i conflitti in carcere.

Nel quadro dell'esecuzione penale, inoltre, “vittima” nel (del) procedimento penale, infatti, è non solo la “persona offesa”, ma anche altri soggetti su cui incide la potestas statuale: le donne incarcerate (pensiamo alla difficile situazione della popolazione detenuta femminile, sotto il profilo delle dotazioni logistiche, delle possibilità di accesso al trattamento, etc.), gli anziani detenuti, gli immigrati (normalmente privi di quei supporti esterni che consentano l'accesso alle misure alternative), le persone rinchiuse nelle istituzioni totali (pensiamo ai “vecchi” O.P.G. ma anche alle attuali REMS). Ci sono poi le vittime di comportamenti lesivi (es. gli hate-crimes) commessi nei confronti di una pluralità indistinta di persona (vittimologia generale) che possono essere compiuti da un determinato Stato, come la pratica della tortura o l'emissione di leggi di discriminazione razziale.

Non solo: La definizione di vittima adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella risoluzione n. 40/34 del 28.11.1985 sui principi fondamentali di giustizia relativi alle vittime della criminalità e alle vittime di abuso di potere (Dichiarazione di Vienna) ha, infatti, un ambito significativamente ampio in quanto include non soltanto le vittime del crimine, ma anche quelle dell'abuso di potere: «Victims means persons who, individually o collectively, have suffered harm, including phisical or mental injury, emotional suffering, economic loss or substantial impairment of their fundamental rights, through acts or omissions that are in violation of criminal laws operative within Member States, including those laws proscribing criminal abuse of power».

B) L'accesso ai programmi riparativi

L'accesso ai programmi di giustizia riparativa può avvenire in ogni stato e grado del procedimento, nella fase di esecuzione della pena e della misura di sicurezza e dopo l'esecuzione delle stesse.

La riforma intende, evidentemente, offrire la massima potenzialità operativa all'esplicarsi dei programmi di giustizia riparativa, consentendone lo sviluppo nel corso dell'intera fase dell'esecuzione della pena e anche nel tempo successivo.

C) Tipologia dei programmi riparativi nell'esecuzione penale

Sulla base della ricognizione sui programmi di giustizia riparativa realizzati in Italia nel 2019 e nel 2020, alla vigilia della riforma “Cartabia” emerge innanzitutto il dato, prevedibile, che assegna alla giustizia minorile un netto primato (60% del totale) nella realizzazione di programmi riparativi, rispetto a quelli omologhi adottati nella giurisdizione ordinaria.

Benché vi siano molte incertezze nella catalogazione delle misure riparative è stata registrata una chiara propensione in sede applicativa per due tipi di programmi: da un lato, le attività riparative a favore della vittima o della comunità coerenti con il reato e, dall'altro, la mediazione penale. Nell'area minorile vi sono state 710 attività riparative e 800 mediazioni penali; nell'area adulti 550 attività riparative e 320 mediazioni penali. Più contenuti numericamente sono i gruppi di sensibilizzazione per autori di reato (che prevalgono tra gli adulti) e la mediazione allargata/gruppi di discussione. Da ultimo, si segnalano gli incontri di ascolto con le vittime di reato che suscitano un certo interesse tra i minori (400 casi), decisamente scarso (30 casi) tra gli adulti. La mediazione penale nella giustizia minorile contempla nell'80% dei casi l'incontro diretto tra le parti coinvolte, mentre tra gli adulti raggiunge appena il 40% dei casi, il 28% nella forma indiretta (senza contatto diretto tra le parti) e il 20% con il ricorso ad una persona offesa da un reato diverso da quello contestato alla persona indicata come autore del fatto.

In questa prospettiva può essere utile il rilevamento, già citato, del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità negli anni 2019 e 2020. Quell'analisi ha individuato sei tipologie di programmi: 1) mediazione victim-offender, 2) gruppi di sensibilizzazione con autori di reato, 3) mediazione allargata/gruppi di discussione, 4) incontri tra vittime e autori di reato analoghi a quello subito, 5) attività riparative coerenti con il reato e 6) incontri di ascolto con le vittime di reato.

Un dato significativo riguarda il rapporto tra l'invio disposto dall'autorità giudiziaria e la reale fattibilità della mediazione: nella giustizia ordinaria tocca il 40% dei casi con un'incidenza preoccupante (non meglio precisata) di esiti negativi (Bouchard). Un indizio, quest'ultimo, che dovrebbe fare riflettere sull'utilizzo prudente che dovrebbe essere adottato, da parte del giudice, del potere di invio ex officio dell'autore di reato al Centro di giustizia riparativa per l'avvio di un programma, ai sensi dell'art.129-bis c.p.p.

Il proliferare nella prassi di modelli di programma anche molto diversificati impone di fare chiarezza su quali tipologie siano compatibili con la genuina essenza della giustizia riparativa. Dal punto di vista della “sintattica” riparativa, infatti, è possibile affermare che programmi di giustizia riparativa sono solo quelli che contemplano, sempre, il coinvolgimento della vittima e della persona indicata come autore del reato e la presenza del mediatore come facilitatore del dialogo tra le parti.

È pur possibile un allargamento – ma non una sostituzione vicaria – del dialogo riparativo a familiari (in senso lato) e a persone legate da vincoli di parentela; il dialogo riparativo è ammesso anche nella sua forma indiretta, vale a dire senza il contatto diretto, visivo o uditivo, tra le parti. In ogni caso, tali programmi dovranno essere svolti nell'interesse della vittima e della persona indicata come autore, alla luce delle indicazioni ricavabili dalla Direttiva 2012/29, che orienta la giustizia riparativa all'interesse della vittima. In difetto di interesse di alcuna delle parti non potrà dirsi integrata la fattispecie del programma riparativo.

Per contro, non rientrano tra i programmi riparativi le mere prestazioni riparative a favore delle vittime o della comunità, comprese quelle a titolo di volontariato (ancorché coerenti con il reato per cui si procede) e a meno che costituiscano l'esito di un accordo tra le parti; gli incontri di ascolto per le vittime e i gruppi di sensibilizzazione con e tra autori di reato.

D) I programmi con vittima surrogata

Su tale premessa, una questione assai delicata riguarda l'interrogativose siano ammissibili programmi con vittima surrogata.

La riforma apre a tale possibilità, espressamente introdotta dall'art. 53 comma 1 lett. a) del d.lgs. n.150/2022, consentendo l'attivazione di un programma in favore della “vittima di un reato diverso da quello per cui si procede”.

I quasi-restorative programmes contemplati dalle fonti internazionali contemplano percorsi di natura riparativa con vittima aspecifica, definendoli, tuttavia, significativamente, “quasi-restorative programmes” proprio per il fatto che non coinvolgono la vittima effettiva del reato per cui si procede. (cfr. il già richiamato Handbook delle Nazioni Unite in materia di giustizia riparativa).

Una tale possibilità sarebbe secondo la Relazione illustrativa alla riforma Cartabia «uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto a quella ‘convenzionale': un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi di giustizia riparativa la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia ‘classica' non ha nulla da offrire».

Al netto di tali considerazioni, tuttavia, la previsione della vittima sostitutiva si giustifica solo – come si è già accennato - nella prospettiva del prevalente interesse dell'accusato/condannato indicando così la possibilità di accedere ad un programma di giustizia riparativa anche quando la vittima diretta non sia disponibile, sia contraria, sia deceduta, non sia stata reperita.

Dal punto di vista della giurisprudenza, la previsione di programmi riparativi con vittima surrogata non pare guardata con favore. Nel caso Vallanzasca (Cass. pen., sez. I, 23 marzo 2021, n. 19818, ric. Vallanzasca), la Suprema Corte, nel confermare la decisione del Tribunale di Sorveglianza che aveva respinto la domanda di liberazione condizionale, evidenzia tra l'altro: « l'avviato percorso di mediazione penale ha un carattere piuttosto astratto e a-specifico, in quanto caratterizzato da manifestazioni formali e senza un reale, pur possibile, confronto con le vittime dei reati, che è stato raccolto dall'équipe con eccessiva accondiscendenza alla prospettazione del condannato che, in realtà, allo scopo di non confrontarsi con la dolorosa realtà del male arrecato, si è trincerato dietro il timore che la tardiva ricerca di un effettivo contatto con le persone offese potesse essere strumentalizzato».

Anche l'ulteriore considerazione che, se venisse preclusa la possibilità di coinvolgimento di una vittima aspecifica, si produrrebbero degli effetti discriminatori in danno di imputati o condannati per fattori non dipendenti dalla loro volontà alla loro risocializzazione, non appare del tutto convincente.

Vi sono, infatti,programmi riparativi alternativi che permettono di evitare il potenziale effetto discriminatorio derivante dall'indisponibilità della vittima diretta. Autorevole dottrina si domanda, a questo proposito: «può essere riparativo ciò che non è stato per nulla riparato? Una riparazione unilaterale non è un'aperta violazione del principio affermato in sede di definizione della giustizia riparativa? È giustizia riparativa un percorso nel quale l'adesione della vittima non è stata ottenuta o, il che è lo stesso, sia frutto di una coercizione o di un vizio nella manifestazione della sua volontà?»

E) Il problema del consenso

È principio basilare della giustizia riparativa quello che prevede il necessario consenso delle parti per l'avvio di un programma di giustizia riparativa. La disciplina positiva stabilisce, tuttavia, che le parti possono essere avviate anche d'ufficio, dall'autorità giudiziaria competente, ad un Centro per concordare l'eventuale avvio di un programma in tutti i casi in cui valuti che l'effettuazione di un programma di giustizia riparativa «possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l'accertamento dei fatti» (art. 129-bis c.p.p.).

L'ampia discrezionalità in capo al giudice consentita dalla disposizione di nuovo conio appena citata appare vieppiù estesa con riguardo alla fase dell'esecuzione, laddove non vi sono più, verosimilmente, elementi dai quali poter desumere un pericolo per l'accertamento dei fatti. Resta, per contro, immanente il pericolo che l'atteggiamento proattivo del giudice - sia pure esercitato nella forma della “coazione gentile” (nudge), che la norma favorisce nell'intento di diffondere il ricorso ai programmi riparativi - possa nuocere alla genuinità del consenso prestato dall'autore di reato e, in ultima analisi, rivelarsi controproducente per l'esito riparativo (su tali profili si ritornerà più oltre, con riferimento alla novella di alcune disposizioni della legge di ordinamento penitenziario. V. infra par. 8).

Ma c'è di più. Rispetto al processo di cognizione, nella fase esecutiva la consultazione della vittima non è neppure presa in considerazione e resta un passaggio lasciato alla totale discrezionalità del magistrato di sorveglianza.

Qui la Direttiva 2012/29/UE sparisce completamente dall'orizzonte, con buona pace della previsione per cui la vittima ha diritto ad essere assistita anche “per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale” (Art. 8 comma 1 Direttiva 2012/29/UE). La decisione dell'autorità giudiziaria è, dunque, assunta senza la necessaria audizione di tutti i soggetti, dal momento che la vittima è sentita solo se l'autorità giudiziaria lo ritiene necessario. Il sistema appare, in altri termini, connotato da una persistente concezione “reocentrica” che non appare in linea con i principi della giustizia riparativa e che pone una seria ipoteca alle stesse possibilità di successo pratico dell'istituto, dal momento che - in assenza di una previa interlocuzione - ben difficilmente la vittima accetterà di aderire a un percorso riparativo richiesto e attivato da altri soggetti (quali, appunto, l'autore del reato). Anzi, è probabile che il mancato coinvolgimento iniziale della vittima possa accentuare quella sensazione di vittimizzazione secondaria che è proprio uno degli effetti che un percorso riparativo dovrebbe, invece, tendere a scongiurare.

Un ulteriore profilo che rischia di intorbidire la genuinità del consenso – questa volta dalla prospettiva dell'autore di reato – si rinviene nel fatto che, in fase di esecuzione, la giustizia riparativa coinvolge il condannato, sovente allocato in luoghi dove sperimenta spesso, a sua volta, una condizione “vittimaria” di cui è causa la stessa istituzione che vorrebbe promuovere la reciproca comprensione e la riparazione.

Ma la criticità forse più rilevante allo sviluppo della giustizia riparativa in executivis è dovuta al fattore temporale: il trascorrere del tempo consolida, infatti, dal lato della vittima, il risentimento, la rimozione o la positiva elaborazione dell'eventuale trauma e l'attenzione tardiva verso la vittima favorirebbe solo, nella maggior parte dei casi, una inaccettabile riapertura dei sentimenti offesi. Secondo un'autorevole dottrina, dunque, «per rispetto nei confronti delle giuste aspirazioni del condannato di mitigare la pena a fronte di condotte riparative, i relativi programmi dovrebbero prescindere dalla partecipazione delle vittime e recupererebbero, così, quelle forme spurie da cui il legislatore ha voluto prendere le distanze, in nome di una giustizia dialogica» (Bouchard).

F) Il riconoscimento dei fatti e la presunzione di innocenza

Si è sostenuto che la disposizione dell'art. 129-bis c.p.p. violi la presunzione di innocenza. Forse nella fase esecutiva questo contrasto, pur astrattamente possibile soprattutto in determinate situazioni (si pensi alla problematica degli ergastolani ostativi che si proclamano innocenti e che per accedere ai benefici accedano a percorsi di giustizia riparativa), appare meno stridente in ragione del fatto che è ormai intervenuto l'accertamento ope iudicis, così che il diritto del soggetto – anche del soggetto condannato – a dirsi innocente necessariamente non assume carattere assoluto, dovendo necessariamente scontare la ponderazione con altri fattori, quali a es., la valutazione degli operatori (équipe dell'istituto penitenziario e UEPE) sulla rivisitazione critica operata dall'interessato, ovvero il libero convincimento del giudice di sorveglianza in ordine alla meritevolezza del condannato ai fini della concessione dei benefici penitenziari.

Senza alcun dubbio, comunque, il più forte presidio posto dalla disciplina positiva a salvaguardia della presunzione di innocenza è certamente l'omissione, operata dalla riforma Cartabia, di ogni accenno al profilo del riconoscimento dei fatti da parte dell'autore di reato, così che, nell'ordinamento italiano, i percorsi di giustizia riparativa possono essere attuati a prescindere da tale importante passaggio.

Tale opzione legislativa appare, tuttavia, in netto contrasto con la cornice sovranazionale e, in particolare, con la Direttiva 29/2012 che impone il riconoscimento dei fatti essenziali del caso a garanzia del rischio di vittimizzazione secondaria. La scelta della riforma Cartabia di non prevedere il riconoscimento degli elementi essenziali del fatto come presupposto per l'avvio di programmi di giustizia riparativa è comprensibile se si considera che la giustizia riparativa opera anche nella fase delle indagini preliminari e nel corso del procedimento penale, quando vale il principio della presunzione di innocenza. Ma, nella fase esecutiva, salvo casi eccezionali e particolari situazioni che vedono il consenso della vittima, il riconoscimento dei fatti deve inquadrarsi, necessariamente, quale condizione di fattibilità in concreto per evitare anche effetti di vittimizzazione secondaria e strumentalizzazioni del condannato che chiede di partecipare al programma a prescindere da una reale volontà di avviare un percorso riparativo, mosso solo dal desiderio di avere accesso ai benefici.

G) Diritti e garanzie per mediatori e partecipanti ai programmi di giustizia riparativa (artt. 47-52, d.lgs. n. 150/2022)

Anche nella fase dell'esecuzione penale sono garantiti alcuni diritti fondamentali previsti dal d.lgs. n. 150/2022:

  • il diritto di informazione: si prevede, infatti, che la persona indicata come autore dell'offesa e la vittima del reato devono essere informate senza ritardo, da parte dell'autorità giudiziaria, nonché da altri operatori che a qualsiasi titolo sono in contatto con i medesimi soggetti, in ogni stato e grado del procedimento penale o all'inizio dell'esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza, sulla facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e relativamente ai servizi disponibili. Le informazioni devono essere fornite ai destinatari in una lingua ad essi comprensibile e in modo adeguato all'età e alle capacità degli stessi;
  • l'assistenza linguistica: tra i diritti assicurati all'autore, alla vittima e agli altri partecipanti, particolare rilievo assume, nell'odierna realtà multietnica, quello relativo all'assistenza linguistica gratuita per le persone alloglotte (art. 49 d.lgs. n. 150/2022);
  • la riservatezza: la garanzia della riservatezza deve essere osservata, anzitutto, dai mediatori e dal personale dei Centri per la giustizia riparativa ma vincola, altresì, i partecipanti ai programmi, estendendosi a tutte le attività e gli atti compiuti, alle dichiarazioni rese dai partecipanti e alle informazioni acquisite per ragione o nel corso dei programmi di giustizia riparativa, che non possono in alcun modo essere divulgate;
  • l'inutilizzabilità: con gli stessi limiti della fase di cognizione, vige, altresì nella fase di esecuzione della pena la garanzia della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso del programma (il divieto di utilizzabilità non opera, tuttavia, per i contenuti della relazione conclusiva di cui all'art. 57, d.lgs. n.150/2022). In tal modo, si vuole tutelare, per un verso, l'attendibilità dell'accertamento dei fatti e, per l'altro, la posizione dell'imputato o condannato, escludendo in radice possibili conseguenze sfavorevoli legate alla partecipazione di questi al programma di giustizia riparativa;
  • il limite degli effetti sfavorevoli: non potranno in nessun caso aversi effetti sfavorevoli per l'autore dell'offesa in relazione alla mancata effettuazione del programma, all'interruzione dello stesso o al mancato raggiungimento di un esito riparativo. L'esito positivo avrà, invece effetti favorevoli per l'imputato o condannato qualora si raggiunga effettivamente un esito riparativo;
  • la rilevanza dell'esito riparativo: l'esito riparativo sarà, dunque, rilevante in fase esecutiva nelle seguenti ipotesi:

a) concessione dei benefici penitenziari;

b) declaratoria di estinzione della pena all'esito dell'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, l. n. 354/75),

c) modifica in melius o revoca della misura di sicurezza eventualmente applicata.

Le modifiche all'ordinamento penitenziario minorile e degli adulti

L'art. 78 del d.lgs. n.150/2022 introduce alcune modifiche alla legge n. 354/1975.

Secondo la Relazione illustrativa, l'introduzione di un'autonoma disciplina “riparativa” nella fase esecutiva – anziché il mero rinvio alle disposizioni generali – sarebbe giustificata dall'esigenza di condurre dei programmi riparativi “anche nell'interesse delle vittime”.

Una previsione analoga è stata introdotta con le modifiche apportate nell'ordinamento giudiziario minorile (artt. 1 e 1-bis, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121). L'art. 1 di tale decreto è stato integrato con il riferimento alla necessità che l'esecuzione della pena e delle misure di comunità a carico dei minorenni favoriscano l'accesso di questi ultimi ai programmi di giustizia riparativa.

Il medesimo d.lgs. n.121/2018 è, altresì, arricchito di un nuovo art.1-bis, a cui mente – analogamente alla disciplina dettata per i condannati e internati adulti - in qualsiasi fase dell'esecuzione, i minorenni possono accedere - previa adeguata informazione e su base volontaria - anche su iniziativa dell'autorità giudiziaria, ai programmi di giustizia riparativa. Il giudice, ai fini dell'adozione delle misure penali di comunità, delle altre misure alternative e della liberazione condizionale, valuta la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l'esito riparativo. In ogni caso, non tiene conto della mancata effettuazione del programma, dell'interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo.

L'ordinamento penitenziario per gli adulti è stato, invece, interessato da un triplice intervento.

Anzitutto, nell'art. 13 ord. penit. è stato introdotto un nuovo comma ove si prevede che nei piani di trattamento vengano favoriti i programmi di giustizia riparativa tanto per i condannati quanto per gli internati (art. 13, comma 4, ord. penit.). La disposizione è rivolta, innanzitutto, agli operatori del trattamento inframurario, ma la Relazione illustrativa circonda di molte cautele tale pur auspicata attivazione, prevedendo che l'accesso deve essere assolutamente volontario e che non vi sono ricadute negative sul piano dei benefici penitenziari, soprattutto quando il mancato svolgimento degli incontri dialogici sia dipeso dall'indisponibilità di una delle parti. La giustizia riparativa – si precisa – non deve «essere confusa con gli strumenti del trattamento penitenziario ma nello stesso tempo obbliga le autorità pubbliche a favorire, proprio nella cornice tracciata dal trattamento, il ricorso libero e spontaneo a percorsi di giustizia riparativa…».

La disposizione di nuovo conio, inserendosi subito dopo il comma 3 della evocata norma penitenziaria (che considera l'esigenza di promuovere con il condannato una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione), sviluppa – per così dire – tale percorso trattamentale, aprendo alla possibilità di accesso alla giustizia riparativa, anche nel corso dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza.

Agli operatori del carcere e – soprattutto – dell'area educativa la nuova disposizione richiede, dunque, uno sforzo proattivo verso la messa a disposizione di possibilità concrete di accesso dei detenuti e degli internati ai percorsi di giustizia riparativa.

È opportuno, comunque, ricordare sempre che l'eventuale percorso riparativo, pur dovendo trovare nell'ambito del trattamento penitenziario un ambiente favorevole al suo sviluppo, non ne fa necessariamente parte integrante e non si identifica in esso dovendosi, piuttosto, costruire quale percorso parallelo e tendenzialmente indipendente dalle vicende dell'esecuzione penale.

Inoltre, si imporrà un'attenta valutazione da parte del giudice sulla spontaneità e libertà del consenso prestato alla giustizia riparativa, per l'ovvia possibilità che tale adesione possa nascondere intenti strumentali al conseguimento di benefici penitenziari (vittimizzazione secondaria) o, per converso, possa essere utilizzata dalla vittima per influire sull'accesso del condannato ai benefici esterni (vittimizzazione terziaria).

Al netto di tali considerazioni, il favor espresso dalla riforma si dovrebbe tradurre nell'inserimento dei percorsi di giustizia riparativa – ove in concreto praticabili - nel programma di trattamento da sottoporre all'approvazione del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art.69, comma 5, ord. penit.

Si pone, al proposito, la questione se il magistrato di sorveglianza sia investito dell'approvazione specifica del medesimo e su quali basi tale potere di controllo dovrebbe esercitarsi e la natura del medesimo, tenuto conto del fatto che l'ipotesi trattamentale è, molto spesso, formulata in termini necessariamente generici e proiettati nel futuro, costituendo una (mera) proposta trattamentale suscettibile, o meno, di concretizzarsi.

Il secondo intervento operato dalla riforma Cartabia riguarda l'inserimento nella legge n. 354/75 di una disposizione di nuovo conio, l'art. 15-bis espressamente dedicato alla giustizia riparativa, in forza del quale il giudice di sorveglianza può disporre l'invio di condannati e internati a programmi di giustizia riparativa, la cui partecipazione e il cui eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell'assegnazione al lavoro all'esterno, della concessione di permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale nonché dell'eventuale esito positivo dell'affidamento in prova (artt. 15-bis e 47 ord. penit.).

La norma introdotta dalla riforma inserisce a pieno titolo la disciplina della giustizia riparativa nell'ambito dell'esecuzione penitenziaria. La disciplina in esame, specificamente calibrata sulla fase esecutiva, riproduce nella sostanza, le disposizioni contenute nel nuovo art. 129-bis c.p.p. e riferite in generale alla fase delle indagini e del procedimento penale.

Sono valutati (ovviamente, in positivo) tanto la partecipazione al programma di giustizia riparativa che l'eventuale esito riparativo. Non si tiene conto, in ogni caso, della mancata effettuazione del programma, dell'interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo.

La evocata formulazione, così come costruita, pare non del tutto conforme allo spirito della giustizia riparativa. Infatti, adombrando un possibile riflesso positivo della partecipazione ad un percorso riparativo sulla valutazione del giudice di sorveglianza in ordine all'accesso del condannato o dell'internato ai benefici penitenziari (e, segnatamente, della liberazione condizionale), la norma in esame introduce un elemento di confusione tra il percorso riparativo e quello rieducativo, che invece dovrebbero marciare in parallelo senza rischiosi incroci, per le ragioni di opportunità sopra evidenziate.

Tale impressione appare ulteriormente rafforzata alla luce del rilievo che, nell'elenco dei benefici per i quali, invece, l'adesione al percorso riparativo non è presa in considerazione, non compaiono l'affidamento in prova in casi particolari ex art. 94, d.p.r. n.309/1990 e l'esecuzione della pena presso il domicilio di cui alla l. 199/2010, in ragione – così si legge nella Relazione illustrativa – delle peculiari finalità terapeutiche del primo e dell'esclusiva finalizzazione deflativa del sovraffollamento della seconda. Si tratta, per vero, di spiegazioni che rafforzano l'impressione di una almeno parziale sovrapposizione tra i percorsi di giustizia riparativa e il giudizio di meritevolezza del condannato ai fini del percorso esecutivo. Tale sovrapposizione, inserendo la giustizia riparativa nel sinallagma penitenziario, pone in serio predicato la genuinità del consenso prestato dal condannato o internato in relazione ai percorsi riparativi, che dovrà essere attentamente valutato dall'équipe e dal giudice.

Particolarmente delicato è il profilo della valutazione dell'esito riparativo. Quanto all'esito simbolico l'art. 56, d.lgs. n. 150/2022 stabilisce che l'esito simbolico è caratterizzato da “dichiarazioni”, da “scuse formali”, “impegni comportamentali pubblici o rivolti alla comunità”, “accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. La disposizione non pare di problematica applicazione nella fase esecutiva.

Quanto all'esito materiale di cui parla l'art. 56 comma 3 del richiamato decreto, esso è costituito da una prestazione, da un “dare”, da un “fare” o da un “non fare”, anziché da un “dire”. Qui sussiste, evidentemente, il rischio di confondere l'esito tangibile, valutabile del programma “dialogico” con le attività riparative in senso lato (o quasi-riparative) da cui il legislatore sembra aver voluto prendere le distanze in nome di una concezione restrittiva della giustizia riparativa. Da un lato, è evidente la differenza tra il mero risarcimento del danno e un risarcimento come conseguenza di un avvicinamento e di una reciproca comprensione tra vittima e persona indicata come autore del danno; dall'altro, sarà la concreta applicazione della nuova disciplina a fornire elementi utili per valutare l'utilità di questa tipologia di esito riparativo.

Il terzo intervento sulla legge di ordinamento penitenziario operato dalla riforma Cartabia coinvolge l'art. 47 ord. penit., e si materializza nell'integrazione del comma 12 della evocata disposizione, in materia di estinzione della pena in esito alla positiva esecuzione dell'affidamento in prova, con la previsione che, ai fini del giudizio conclusivo del tribunale di sorveglianza «è valutato anche lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l'eventuale esito riparativo.»

Tale valutazione non è, invece, richiesta ai fini della positiva esecuzione della liberazione condizionale per il motivo – come spiega la Relazione illustrativa – che nel caso della misura di cui all'art. 176 c.p. il condannato è già “ravveduto” (essendo appunto l'accertato ravvedimento una condizione di accesso al beneficio), mentre nell'affidamento al servizio sociale la risocializzazione è, invece, l'obiettivo stesso della probation. Tale assunto pare, tuttavia, legare alla giustizia riparativa una finalità di emenda in colui che partecipa ai percorsi riparativi che pare estranea alla natura, alle finalità e agli esiti del percorso riparativo. Inoltre, la disposizione appare antinomica rispetto al 15-bis ord. penit. che invece, prevede la valutazione dell'attività riparativa ai fini della concessione (anche) della liberazione condizionale.

Sul versante applicativo, la valutazione in esame risulterà problematica: i giudici non sanno nulla dell'attività preparatoria che viene svolta dai mediatori, né conoscono modalità e contenuto dell'incontro tra le parti: alla luce dei protocolli attivati in base alle norme internazionali, il report che viene trasmesso è molto scarno (è avvenuto l'incontro, ha avuto esito positivo, oppure solamente le parti si sono incontrate), rendendo, pertanto, assai difficile la valutazione del percorso riparativo ai fini indicati nell'art. 47 ord. penit., con il pericolo di un giudizio negativo implicitonel caso di mancata adesione al programma o di mancato esito (anche perché - si ribadisce - il giudice di sorveglianza non conosce nel dettaglio le ragioni).

Le possibili criticità

L'avvio della riforma Cartabia porta inevitabilmente in rilievo alcune criticità operative con cui gli operatori sono ora chiamati a confrontarsi:

A) Criticità connesse alla tipologia dei reati commessi

L'art. 48 della Convenzione di Istanbul vieta il ricorso alla mediazione obbligatoria a fronte di condotte violente rientranti nel campo di applicazione della Convenzione (es. violenza sessuale), con la necessità quindi di una mediazione consensualmente accettata, con tutti i rischi che l'eventuale assenso della vittima non sia in realtà genuino ma frutto delle pressioni dell'aggressore. Tale profilo critico si presenta altresì, per i reati di mafia e, più in generale per quelli a base violenta.

B) Il complesso dialogo tra gli attori

La magistratura di sorveglianza è abituata a dialogare con gli UEPE e non con il CGR: come avverrà il raccordo? Nella fase di esecuzione, non vi sono strumenti normativi per consentire una interlocuzione diretta del giudice di sorveglianza con i servizi di assistenza alle vittime e i centri di giustizia riparativa e il flusso informativo passa tramite l'UEPE. Il sistema fa sì che il giudice di sorveglianza acquisisca il patrimonio informativo quasi esclusivamente dalla relazione sociale il cui modello redazionale dovrà necessariamente essere adattato: attualmente, infatti, un paragrafo del modello attualmente in uso è rubricato “disponibilità alla riparazione” ma vi si rinviene la eventuale disponibilità del soggetto a “svolgere attività di volontariato a titolo riparativo” laddove con tale espressione si intende “a titolo di riparazione per il danno sociale arrecato”.

Vi sono, inoltre, difficoltà di osmosi dal punto di vista del passaggio dei dati acquisiti nel processo alle successive fasi di esecuzione e sorveglianza. Il trasferimento di informazioni è ostacolato dalla struttura del processo che separa nettamente la fase di cognizione dai successivi autonomi procedimenti di esecuzione e sorveglianza e le norme regolamentari prevedono che il fascicolo dell'esecuzione sia formato, sostanzialmente, con il solo estratto esecutivo della sentenza di condanna.

Un'analoga assenza di circolazione di dati si verifica tra i procedimenti di esecuzione e di sorveglianza. La ricerca e comunicazione dei dati rimane, quindi, rimessa agli organi della esecuzione, con la conseguente inevitabile incidenza sulla fluidità della procedura.

C) Le difficoltà correlate alla fase del procedimento

Deve riflettersi se la sorveglianza sia la sede appropriata (non per il condannato ma) per la vittima per essere accolta e ascoltata.

Nell'esperienza comune di tutti gli operatori della giustizia, magistrati, avvocati, polizia giudiziaria, è noto quanto sia doloroso per la vittima partecipare alle attività di indagine e al processo. Gli studi di vittimologia hanno ben evidenziato gli effetti della c.d. “vittimizzazione secondaria” nell'ambito e come conseguenza delle dinamiche del processo penale.

A questo proposito, si ricorda la condanna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, il 27 maggio 2021 (Affaire J.L. c. Italie), nei confronti dell'Italia per la violazione dell'art. 8 della Convenzione EDU, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e che esclude che una autorità pubblica possa ingerirsi nell'esercizio di questo diritto, se non nei ristretti limiti previsti dalla legge, per l'attuazione di misure che in una società democratica siano necessarie alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. I giudici di Strasburgo hanno stigmatizzato, nella richiamata pronuncia, le modalità giudicate fortemente inappropriate con cui la persona offesa è stata sottoposta ad esame dibattimentale (si trattava di un processo per violenza sessuale), tali da integrare, appunto, una vittimizzazione secondaria.

Ciò porta a riflettere se la fase di esecuzione sia la più idonea ad accogliere le sollecitazioni nei confronti dei programmi di giustizia riparativa, sia per il tempo trascorso dai fatti, sia per la sempre possibile torsione in chiave pedagogico-terapeutica della sollecitazione degli educatori, sia infine per la possibile strumentalizzazione dei programmi riparativi ai fini dell'ottenimento dei benefici penitenziari.

Appare molto difficile, infatti, in sede esecutiva, effettuare una valutazione sui rischi di vittimizzazione secondaria in rapporto ai benefici penitenziari che possono essere concessi all'autore del reato e agli eventuali percorsi di giustizia riparativa. Sia la polizia giudiziaria che i servizi di assistenza alle vittime sono infatti “lontani” rispetto al giudice di sorveglianza e manca appunto il necessario raccordo normativo che consenta alla magistratura di sorveglianza l'accesso alle valutazioni operate da tali organi circa i rischi di vittimizzazione secondaria (la prima perché ha svolto le indagini e i secondi perché in possesso di una formazione psicologica in grado di accertare la vulnerabilità delle persone).

D) La mancanza di servizi per la vittima del reato

Ciò che ancora manca nella nostra legislazione è quella premessa fondamentale della giustizia riparativa insita nella istituzionalizzazione di uno spazio di vero ascolto del dolore della persona offesa che è il portato introdotto dalla giustizia riparativa anche sulla scorta degli studi di vittimologia, che hanno analizzato i bisogni, le istanze delle vittime di reato, che non sono solo quelle di ottenere la punizione del colpevole o un risarcimento economico (istante ovviamente pienamente legittime), ma l'esigenza maggiore è quella di essere ascoltata, di essere capita, di essere “curata”, dopo il trauma derivante dal reato che ha avuto conseguenze in tutti gli ambiti della sua vita e personalità e non solo in quello patrimoniale, aspetto che spesso è davvero secondario.

Tale carenza è riconducibile, in parte, alla confusione concettuale tra i servizi di giustizia riparativa e i servizi di assistenza alle vittime.

Questi ultimi sono previsti come obbligatori dalla Direttiva 2012/29/UE e come “servizi essenziali” per gli Stati membri in base al Piano strategico della Commissione europea sui diritti delle vittime (2020-2025). In Italia, l'unica rete di servizi di assistenza alle vittime sostenuta dallo Stato italiano è quella dei Centri antiviolenza che sono altro dai servizi di giustizia riparativa, previsti invece dalla Raccomandazione del 2018.

Anche a livello normativo deve essere chiarita la distinzione tra i due tipi di servizio, l'uno – quello riparativo – connotato dal pari rispetto delle parti, l'altro – quello di assistenza alle vittime – connotato dalle funzioni attribuite dalla Direttiva 2012/29 agli artt. 8 e 9. La differenza è chiara: secondo la Raccomandazione 2018, gli operatori dei Centri di giustizia riparativa offrono «uno spazio neutro dove tutte le parti sono incoraggiate e supportate nell'esprimere i propri bisogni e nel vederli quanto più possibile soddisfatti»; la Direttiva 2012/29 impone, invece, agli Stati membri di garantire che le vittime abbiano «accesso a specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell'interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale». E ancora, per la Direttiva 2012/29 «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell'interesse della vittima» (art. 12 lett. a).

Detto ciò, i due servizi dovrebbero operare in sinergia, anche attraverso l'implementazione di Tavoli interistituzionali per la costruzione di una rete integrata di servizi per l'assistenza alle vittime di reato (Bouchard).

Giustizia riparativa e riforma dell'ergastolo ostativo

La riforma della giustizia riparativa si interseca, sotto alcuni importanti profili, con quella sul c.d. “ergastolo ostativo” introdotta dal d.l. n. 162/2022. Il rapporto tra le due fonti non è privo di importanti tensioni:

A) L'assenza di preclusioni rispetto alla gravità dei reati commessi

Già nell'ambito degli Stati generali dell'esecuzione penale, istituiti dal Ministro della Giustizia nel 2015, il Tavolo 13 “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l'ordinamento penale italiano alle previsioni della Direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere l'accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento. Quest'ultima indicazione è presente ora anche nella Raccomandazione CM/Rec(2018)8 (paragrafi 6 e 19). La ratio è ravvisabile nel fatto che la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa dovrebbe essere offerta a tutte le vittime, senza distinzione in relazione al reato commesso. ll principio dell'accesso alla giustizia riparativa “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” è stato quindi codificato dalla legge- delega (art. 1 comma 18 lett. c), l. 27 settembre 2021, n. 134).

Si tratta, naturalmente, di un principio ineccepibile sul piano astratto ma di complessa traduzione sul terreno applicativo, soprattutto con riguardo a particolari reati – in primo luogo, i delitti di mafia e criminalità organizzata – ove occorre predisporre modelli e protocolli operativi che assicurino la genuinità del consenso prestato da tutte le parti al progetto riparativo e minimizzino il rischio di vittimizzazione reiterata e secondaria.

B) Il riconoscimento dei fatti da parte dell'autore del reato

Per gli autori di reati connessi al fenomeno mafioso si pone, con maggiore rilevanza, l'esigenza di contemperare la praticabilità di percorsi riparativi con il contenuto della già evocata Direttiva 2012/29 che – tra le altre condizioni – prevede all'art. 12, lett. c) che l'autore del reato abbia “riconosciuto i fatti essenziali del caso”, senza contare che esiste ed è stato affermato nell'ambito delle Nazioni Unite il “diritto alla verità” spettante alle vittime, ai loro familiari e all'intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”.

Su tale delicato profilo, le fonti sovranazionali europee sono piuttosto chiare: il § 30 della Raccomandazione 2018 prevede che la partecipazione ai percorsi di giustizia riparativa dovrebbe avere come «punto di partenza … generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda». L'art. 12 comma 1 lett. c) della Direttiva 2012/29/UE stabilisce che la vittima possa avere accesso ai servizi di giustizia riparativa a condizione che «l'autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso». La legge delega e il d.lgs. n. 150/2022 tacciono sul punto, con una scelta consapevole, operataal fine di garantire la persona indicata come autore del fatto da qualsiasi violazione della presunzione di non colpevolezza nel procedimento penale (art. 27 comma 2 Cost.).

Il nostro legislatore non ha inteso, dunque, accontentarsi di una clausola protettiva come quella sulla inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni emerse nel corso del programma (art. 51 d.lgs. n. 150/2022) o quella sull'improduttività di effetti sfavorevoli del programma nei confronti della persona indicata come autore dell'offesa (art. 58 d.lgs. n. 150/2022), ma havoluto escludere in radice qualunque riconoscimento dei fatti (essenziali o principali) da parte dell'autore quale condizione per l'accesso alla giustizia riparativa.

Su tale delicato profilo va, peraltro, rilevata una rilevante differenza tra il § 30 della Raccomandazione del 2018 e l'art. 12 lett. c) della Direttiva 2012/29/UE che forse può offrire una chiave di lettura nell'affrontare il nodo della questione. La Raccomandazione del 2018 fornisce un'indicazione generale che riguarda le parti, affinché il riconoscimento dei fatti principali della vicenda costituisca il “punto di partenza” – non il punto d'arrivo – del percorso riparativo. L'avverbio “generalmente”, l'aggettivo “principali” riferito ai fatti e il sostantivo “vicenda”, in luogo di “reato” o di “offesa”, illustrano perfettamente la preoccupazione di rendere efficace e non meramente formale l'incontro tra i protagonisti dei fatti, stemperando ogni ricorso alle definizioni giuridiche che possano richiamare il contesto penalistico.

In altri termini: la Raccomandazione vuole assicurare la più ampia libertà e volontarietà nella partecipazione delle parti all'incontro tra loro e con i mediatori e, al tempo stesso, un approccio convergente cognitivo ed emotivo in ordine a quanto accaduto, senza il quale il lavoro dei mediatori sarebbe votato all'insuccesso. In tale prospettiva interpretativa, si comprende bene come il riconoscimento dei fatti principali non si pone come presupposto di ammissibilità bensì di fattibilità del programma riparativo.

Per contro, la Direttiva 2012/29/UE concentra la propria attenzione sull'onere che ricade sulla persona indicata come autore dell'offesa) qualora la vittima scelga di partecipare ad un procedimento di giustizia riparativa: deve riconoscere i fatti essenziali del caso. A parte alcune non decisive differenze lessicali "(“essenziali” in luogo di “principali”, “caso” in luogo di “vicenda”), nella Direttiva muta completamente la prospettiva rispetto alla Raccomandazione. Mentre per quest'ultima, come si è detto, l'obiettivo è costituito dal risultato auspicabile (il successo dell'incontro e della riparazione), per la Direttiva l'obiettivo è costituito dalla tutela dei diritti della vittima affinché non sia esposta al rischio di “vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall'intimidazione e dalla ritorsioni”.

Poiché l'incontro con chi nega persino la stessa sussistenza di un “caso” o di una “vicenda” comune alle parti o nega la sua partecipazione a “fatti” che riguardino la vittima costituisce un evidente rischio di seconda vittimizzazione, appare convincente la scelta normativa della Direttiva di pretendere questa e altre garanzie a tutela della partecipazione della persona offesa al procedimento riparativo. E non vi è dubbio che l'art. 12 della Direttiva (rubricato “Garanzie”), nella parte in cui pone come condizione per la partecipazione della vittima al procedimento riparativo il riconoscimento dei fatti essenziali del caso da parte dell'autore, sia disposizione self executing non risultando inserito – come stabilito in altre norme della stessa Direttiva – il rinvio al diritto nazionale.

Ne deriva che, tutte le volte che venga coinvolta una vittima diretta, dovrà scattare anche la garanzia di matrice europea, fatta salva – ovviamente – un'espressa rinuncia da parte dell'offeso a volersene avvalere.

Il portato applicativo di queste considerazioni può essere condensato nelle seguenti affermazioni: 1) il riconoscimento dei fatti costituisce un punto di partenza e non di arrivo per il procedimento riparativo; 2) è largamente preferibile che il procedimento riparativo si fondi su questo riconoscimento ma esso non costituisce un presupposto indispensabile e vincolante data la molteplicità dei possibili programmi riparativi; 3) tuttavia, qualora venga coinvolta la vittima diretta sarà necessario verificare se l'atteggiamento della persona indicata come autore del fatto neghi la sussistenza stessa dei fatti, in senso lato, o la sua partecipazione, esponendo così la vittima ad un rischio di vittimizzazione.

Sulla base di tali assunti è possibile prevedere che, per i reati più gravi, si farà largo ricorso a programmi riparativi con vittima aspecifica o programmi che non comprendono l'incontro autore-vittima, cioè paradossalmente sui programmi meno pregnanti.

C) Le iniziative in favore della vittima

I nuovi commi 1-bis e 1-bis.1. dell'art. 4-bis ord. penit., come novellato dal d.l. n. 162/2022 stabiliscono che, ai fini della concessione dei benefici penitenziari ai condannati per particolari delitti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'articolo 58-ter, il giudice tra le altre cose, «accerta altresì la sussistenza di iniziative dell'interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa».

Il dubbio che si pone riguarda essenzialmente la natura di tale presupposto, se assuma, cioè, il ruolo di requisito di ammissibilità ovvero di meritevolezza. Occorre, infatti, chiedersi se la giustizia riparativa può essere davvero un percorso configurabile come onere per il condannato nel senso che se non se ne avvale tale sua decisione gli precluda l'accesso ai benefici penitenziari.

Vi è, in altri termini, un disallineamento sul piano sistematico tra la riforma Cartabia e le fonti internazionali che escludono effetti negativi derivanti dal mancato avvio ovvero dal mancato esito di un programma di giustizia riparativa e la previsione contenuta nell'art. 4-bis, ord. penit., in esame, il cui tenore letterale induce a configurare l'attivazione riparativa alla stregua di un onere, non soddisfatto il quale viene valutata negativamente la richiesta di beneficio.

In conclusione

Da ordinamento in grave ritardo sul piano della sperimentazione della giustizia riparativa, con la riforma Cartabia siamo passati ad una legislazione di gran lunga più complessa e articolata. Quali saranno gli effetti per un modello di giustizia riparativa che aveva nella sua spinta dal basso, nella sua spontaneità, nella valorizzazione dell'autonomia e della responsabilità delle parti nonché nella sua adattabilità alle situazioni concrete i propri elementi fondanti e identificativi?

Vengono alla mente le parole del fondatore della giustizia riparativa, Howard Zehr: «il sistema di giustizia penale sembra essere così impregnato di interesse proprio, così adattativo, che accoglie ogni nuova idea, la modella e la modifica finché non si adatta agli scopi del sistema».

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario