L'amministratore formale e il dolo della bancarotta fraudolenta documentale

31 Maggio 2023

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, si è occupata dei rapporti tra l'amministratore di fatto e l'amministratore formale (c.d. testa di legno) e del dolo specifico del reato di bancarotta fraudolenta documentale.
Massima

Al fine di determinare il contenuto del dolo di bancarotta fraudolenta documentale nell'ipotesi in cui il dolo sia imputato all'amministratore formale, che si rivela essere mero prestanome della società fallita, occorre dimostrare che l'amministratore formale si sia rappresentato la finalità fraudolenta in danno dei creditori posta in essere dall'amministratore di fatto.

Il caso

In data 16/07/2012 A.M., privo di competenza imprenditoriale e di disponibilità economiche, nominato amministratore di una società inattiva, riferibile ad altro soggetto, precedente amministratore, che di fatto l'aveva gestita, era ritenuto responsabile della sottrazione delle scritture relative al periodo antecedente alla sua nomina e della omessa fraudolenta tenuta delle stesse durante il periodo della sua amministrazione.

La questione

La sentenza in commento investe un duplice profilo: quello dei rapporti tra l'amministratore di fatto e l'amministratore formale e quello del dolo specifico del reato di bancarotta fraudolenta documentale.

Le soluzioni giuridiche

L'amministratore di fatto

Il tema dei soggetti di fatto, in particolare dell'amministratore di fatto, è stato tradizionalmente affrontato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, che hanno fatto ricorso a questa figura in tutti quei casi in cui l'esercizio effettivo delle funzioni di amministratore è svolto da un soggetto privo di investitura formale: sia in assenza assoluta dell'investitura formale, sia nei casi di nullità, decadenza o annullamento dell'atto di nomina (C. Pedrazzi, Gestione d'impresa e responsabilità penale, in Riv. soc., 1962, 229 ss.; R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell'economia e reati in materia di mercati finanziari, Milano, 2008, 22; A. Fiorella-G. Masucci, Gestione dell'impresa e reati fallimentari, Torino, 2014, 29).

Viene privilegiato l'aspetto funzionale dell'attività effettivamente svolta, rispetto a quello formale, in quanto l'offesa al bene protetto prescinde dalla posizione rivestita dall'agente, ma «è strettamente connessa al corretto esercizio della sua specifica funzione» (Ambrosetti-Mezzetti-Ronco, Diritto penale dell'impresa, Bologna, 2016, 29).

Lo stesso legislatore, a seguito di una serie di interventi che si sono succeduti nel tempo, sembra privilegiare la teoria funzionale: sia in tema di reati contro la pubblica Amministrazione (artt. 358 – 359 c.p.), sia in tema di diritto penale del lavoro (d.lgs. n. 81/2008), sia in tema di responsabilità degli enti (d.lgs. n. 231/2001), che all'art. 5 del d.lgs. n. 231/2001 identifica anche i vertici apicali nei soggetti che esercitano di fatto la gestione o il controllo dell'ente.

L'amministratore di fatto viene ad assumere la posizione di garanzia del bene giuridico tutelato dagli illeciti fallimentari, venendo, quindi, a rispondere del reato proprio “quale intraneus”, non già “quale extraneus”, in concorso con gli organi legali della società” (Mazzacuva-Amati, Diritto penale dell'economia, Padova, 2010, 12).

L'esercizio effettivo della funzione di amministratore di fatto, secondo la giurisprudenza prima della riforma introdotta dal d.lgs. n. 61/2002, richiedeva, quanto meno l'esercizio in concreto, con una costante continuità, delle funzioni proprie dell'amministratore della società, quali il controllo della gestione della società, sia sotto il profilo contabile ed amministrativo, sia sotto il profilo dell'organizzazione societaria e delle scelte strategiche (Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2002, in Riv. pen., 2002, 768).

L'attribuzione all'amministratore di fatto del ruolo di “intraneus” e della conseguente posizione di garanzia, che viene ad assumere all'interno della società, ne può determinare una responsabilità ex art. 40 cpv. c.p. «a titolo di concorso mediante omissione per il reato commesso da altro amministratore o da altro esponente societario per non aver impedito un evento pregiudizievole per la società» (Mazzacuva-Amati, Diritto penale, cit., 14).

Nell'ipotesi inversa in cui il mancato impedimento dell'evento sia dipeso dalla condotta omissiva dell'amministratore di diritto quest'ultimo potrà rispondere del reato commesso dall'amministratore di fatto, quanto meno a titolo di omissione, poiché la semplice accettazione della carica attribuisce dei doveri di vigilanza e di controllo, la cui violazione comporta responsabilità. La sola consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, ovvero l'accettazione del rischio che questi si verifichino, sono sufficienti per l'affermazione di responsabilità (Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2000, n. 5619; Cass. pen., sez. V, 26 giugno 2013, n. 45671).

E proprio in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, nel ribadire il principio dell'accettazione del rischio, la giurisprudenza (Cass. pen., sez. V, 26 novembre 1999, n. 14745) non ha esitato ad assegnare rilevanza penale sotto il profilo dell'elemento soggettivo alla generica consapevolezza da parte dell'amministratore di diritto, della commissione di fatti illeciti da parte dell'amministratore di fatto, «senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi nei quali l'azione dell'amministratore di fatto si è estrinsecata».

La figura dell'amministratore di fatto, costantemente riconosciuta in giurisprudenza, ha trovato poi nell'art. 2639 c.c., a seguito della riforma sui reati societari, un suo preciso riconoscimento legislativo.

L'art. 2639 c.c.: l'estensione delle qualifiche soggettive.

L'art. 2639 c.c., introdotto con la riforma penale societaria (d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61) rappresenta una delle novità più significative della riforma, in quanto riconosce ufficialmente la figura dell'amministratore di fatto, «sancendo l'equiparazione normativa fra il soggetto formalmente investito della qualifica soggettiva e colui che esercita di fatto le funzioni ad essa connesse» (Mazzacuva-Amati, Diritto penale, cit., 19; Veneziani, Art. 2639 Estensione delle qualifiche soggettive, in Lanzi-Cadoppi (a cura di), I reati societari. Commentario aggiornato alla Legge 28 dicembre 2005 n. 262 sulla tutela del risparmio, Padova, 2007, 303; Marini, La bancarotta fraudolenta impropria (art. 223 l.f.). Reati in materia economica in Alessandri (a cura di), Trattato teorico pratico di diritto penale, diretto da Palazzo-Paliero, Torino, 2017, 517).

È stato da subito sollevato il problema se l'art. 2639 c.c., che definisce per la prima volta la figura dell'amministratore di fatto all'interno dei reati societari, possa trovare applicazione anche per i reati fallimentari.

Non sembra potersi condividere la soluzione negativa, perché la figura dell'amministratore di fatto ha trovato applicazione da parte della giurisprudenza soprattutto in tema di reati fallimentari e quindi non si riuscirebbe a comprendere per quale ragione l'art. 2639 c.c. dovrebbe rimanere fuori dai reati fallimentari. Del resto la stessa giurisprudenza ha affermato che la nuova formulazione dell'art. 2639 c.c., nel confermare l'indirizzo giurisprudenziale sulla responsabilità penale degli amministratori di fatto in campo societario, non esclude, anche perché la cosa sarebbe del tutto irragionevole, un'analoga responsabilità in materia fallimentare (Cass. pen., sez. V, 5 giugno 2003, in Foro it., 2004, II, 239; Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2014, n. 26542; Cass. pen., sez. V, 11 gennaio 2008, in CED 2008, n. 239040).

L'equiparazione dell'amministratore di fatto all'amministratore formalmente investito è possibile ove vengano osservati i requisiti previsti dalla norma. In primo luogo l'art. 2639 c.c. prevede che il soggetto, formalmente investito della qualifica e titolare della funzione prevista dalla legge, venga equiparato a chi è tenuto a svolgere la stessa funzione diversamente qualificata.

La ragione principale di tale previsione è stata quella di introdurre un criterio che consenta l'applicazione della disciplina penale societaria anche a modelli di organizzazione e controllo diversi da quello ordinario.

La seconda parte dell'art. 2639 c.c. fornisce i criteri per l'individuazione dell'esercizio di fatto delle funzioni, consistenti nell'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica e alla funzione dell'amministratore di diritto (Sandrelli, Il soggetto di fatto nei reati societari e fallimentari e l'introduzione del nuovo art. 2639 c.c., in Fall., 2007, 1171; Bricchetti-Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Milano, 2017, 18).

La “continuità” dell'esercizio dei poteri da parte dell'amministratore di fatto sta a significare che l'esercizio dei poteri gestionali non può tradursi in atti occasionali, ma dev'essere continuativo e quindi protrarsi nel tempo. Mentre la “significatività” esprime la necessità che l'esercizio del potere gestionale da parte dell'amministratore di fatto si traduca in atti che riflettono i poteri tipici inerenti alla funzione di amministratore di diritto, nel senso che debbano ritenersi al di fuori di questo parametro atti di natura settoriale, cioè atti che non esprimono l'esercizio di un potere decisionale o non rappresentano all'esterno la volontà sociale.

La soluzione fornita dalla giurisprudenza (Cass. pen., sez. V, 11 gennaio 2008, n. 7203) in tema di amministratore di fatto ex art. 2639 c.c. appare coerente con i parametri previsti dalla norma, in quanto viene precisato che il ruolo dell'amministratore di fatto è da ritenersi gravato delle medesime garanzie e dei medesimi obblighi o doveri, cui è tenuto il soggetto di diritto.

È chiaro che l'amministratore di fatto sarà responsabile solo degli atti da lui posti in essere, non potendosi imputare a quest'ultimo gli atti posti in essere dall'amministratore di diritto o comunque di non aver adempiuto ad atti che spettavano a quest'ultimo.

Il dolo della bancarotta fraudolenta documentale

La bancarotta fraudolenta documentale è caratterizzata da due condotte alternative sotto il profilo soggettivo: la prima specifica che consiste nella sottrazione, distruzione o falsificazione dei libri e delle altre scritture contabili con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, la seconda generica, ricollega la bancarotta fraudolenta documentale alla tenuta dei libri e delle altre scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari.

La Corte di cassazione ha più volte precisato (Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 2014, n. 17084; Cass. pen., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 33114) che il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, si riferisce solo alle ipotesi di sottrazione, distrazione o falsificazione dei libri e delle scritture contabili, mentre per l'autonoma fattispecie fraudolenta di tenuta dei libri e delle scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari è richiesto il dolo generico.

Va segnalato che in alcune decisioni risalenti (Cass. pen., sez. V, 22 gennaio 1992) si era ritenuto che anche per la bancarotta documentale generica fosse richiesto il dolo specifico, ravvisato nell'intenzione di impedire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari da parte del soggetto agente.

Il contrasto tra i due orientamenti si rivela più teorico che pratico perché la norma è finalizzata a tutelare la trasparenza documentale della società e sia nel caso di bancarotta documentale a dolo specifico che in quella a dolo generico l'ostacolo alla ricostruzione del patrimonio o del volume di affari dell'impresa caratterizza le diverse condotte risolvendosi «in una oggettiva compromissione della utile ed immediata fruizione dei dati contabili da parte degli organi fallimentari»(R. Bricchetti-L. Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Milano, 2017, 61).

Sia il dolo specifico che accanto allo scopo di recare pregiudizio ai creditori si accompagna lo scopo di recare a sé o ad altri un ingiusto profitto, sia il dolo generico che in alcuni casi è stato ipotizzato come intenzionale (Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 2008, n. 1137) per la specifica volontà di impedire la ricostruzione del volume degli affari e del patrimonio del fallito richiedono da parte del soggetto agente la rappresentazione del risultato della condotta che deve essere presente anche nel caso in cui l'amministratore formale si sostituisce all'amministratore di fatto.

La sentenza si rivela particolarmente interessante perché segnala la necessità che l'amministratore formale o testa di legno sia consapevole e quindi si rappresenti la condotta che è stata posta in essere dall'amministratore di fatto perché possa ipotizzarsi a suo carico il dolo che caratterizza la bancarotta fraudolenta documentale.

Per i giudici di merito la prova del dolo della bancarotta fraudolenta documentale dell'amministratore formale era fornita dalla generica consapevolezza dell'attività illecita compiuta dalla società per il tramite dell'amministratore di fatto.

La Corte di cassazione con la sentenza in commento, nel rispetto del principio di colpevolezza di cui all'art. 27 della Costituzione, sottolinea che la carica di amministratore formale non significa automaticamente un giudizio di colpevolezza e che la sua responsabilità vada esclusa, quando emerge che la gestione da parte dell'amministratore di fatto sia stata così effettiva ed assorbente da annullare il ruolo dell'amministratore formale.

Non si può fondare la responsabilità penale su una responsabilità da posizione, derivata solo dall'assunzione della carica formale, perché non basta l'accettazione della carica di amministratore che conferisce dovere di vigilanza e di controllo, ma occorre che la condotta omissiva sia stata accompagnata dalla consapevolezza della condotta antidoverosa.

Nel rapporto tra amministratore di fatto e amministratore formale la responsabilità per il fatto commesso dal primo non può essere traslata automaticamente all'amministratore formale, ma occorre provare la reale conoscenza in capo al prestanome delle violazioni commesse sui libri e le altre scritture contabili dall'amministratore di fatto per evitare che venga leso il principio di personalità della responsabilità penale.

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