La colpa cardiologica

Vittorio Nizza
07 Giugno 2023

La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, viene chiamata a pronunciarsi in merito ad una contestazione per omicidio colposo mossa nei confronti di due medici per aver ritardato la diagnosi di un aneurisma, cagionando così la morte di un paziente.
Massima

In tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. Pertanto, risponde a titolo di colpa per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, il medico che, in presenza della sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di attuare la terapia più profittevole per la salute del paziente.

Il caso

Agli imputati si addebita di aver agito con imprudenza, negligenza e imperizia, in quanto omettevano di effettuare una corretta diagnosi e una corretta valutazione del quadro clinico manifestatosi in relazione alla sintomatologia accusata dal paziente sul lato sinistro dell'addome (“dolore addominale in ipocondrio lato sinistro”).

La Corte d'appello, in riforma della sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, appellata dalla sola parte civile e passata in giudicato agli effetti penali, affermava la responsabilità civile degli imputati, condannandoli in solido tra loro al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa per il doppio grado di giudizio, confermando nel resto la sentenza impugnata.

Avverso la sentenza emessa dalla Corte territoriale ricorrevano gli imputati, con distinti atti e per il tramite dei rispettivi difensori.

La questione

La questione rimessa alla Corte di cassazione riguarda la possibilità di istituire un nesso causale con un livello prossimo alla certezza tra l'omessa corretta diagnosi dell'aneurisma dell'aorta addominale al momento del primo accesso nel pronto soccorso del paziente, e l'evento morte, avvenuta per insufficienza cardiocircolatoria al momento dell'esecuzione di un intervento di riparazione aortica originata dalla rottura del già menzionato aneurisma.

Le soluzioni giuridiche

Il giudice di primo grado aveva condiviso le conclusioni cui erano pervenuti i periti, i quali confermavano che, i medici, nello svolgimento della propria attività, non si erano attenuti alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, in quanto omettevano l'esecuzione di un esame obiettivo completo e di approfondimenti diagnostici indispensabili al raggiungimento di una corretta diagnosi.

Cionondimeno, gli stessi dichiaravano altresì che non sarebbe stato possibile affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che una diagnosi correttamente impostata al momento del primo ricovero, e un eventuale trattamento chirurgico in elezione, avrebbe evitato il decesso.

La Corte d'Appello, alla luce di tali considerazioni, richiamava il principio di diritto enunciato dalla nota sentenza Franzese in tema di nesso causale nei reati omissivi impropri, secondo cui il nesso di causalità deve ritenersi accertato e sussistente, ogni oltre ragionevole dubbio, tutte quelle volte in cui con alto grado di credibilità razionale e probabilità logica, dalla diagnosi omessa o dall'intervento terapeutico non effettuato o male effettuato, sarebbe potuta derivare non solo la salvezza della vita del paziente, ma anche una attenuazione del danno prodotto dalla patologia con conseguente ritardo dell'evento morte.

Affermava di conseguenza che, nella fattispecie a giudizio, proprio sulla base delle conclusioni dei periti del Gip, adeguatamente supportate anche dal perito della parte civile, era ragionevole supporre che l'evento morte avrebbe avuto diverse modalità di verifica e differenti e più estesi tempi di sopravvivenza, qualora al momento del primo accesso i due odierni imputati avessero praticato una corretta diagnosi come pacificamente emerso dall'istruzione dibattimentale svolta.

Secondo la Corte di merito, dunque, la correttezza della diagnosi avrebbe avuto un elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica di salvare la vita della paziente, ovvero anche solo di ritardare l'evento morte e limitare le conseguenze dannose della patologia.

Veniva pertanto riconosciuto che tra l'errore diagnostico commesso e l'evento morte sussisteva un chiaro nesso di causalità sotto il profilo giuridico, ancora prima che fattuale.

Ugualmente la Corte di cassazione conferma l'attribuzione, a ciascun medico, della condotta gravemente colposa relativa all'omesso approfondimento della situazione clinica del paziente, poichè non aveva permesso la formulazione della corretta diagnosi, ritenendo altresì sufficiente, ai fini della sussistenza della cooperazione, che ciascun medico fosse consapevole della condotta dell'altro.

Le restanti doglianze formulate dai ricorrenti non trovano spazio nella motivazione in esame, in quanto, come sottolinea la Corte di legittimità stessa, esse si risolvono in deduzioni di mero fatto, non proponibili in sede di legittimità, a fronte peraltro di una esposizione, da parte della Corte di merito, assai dettagliata dell'intera vicenda.

L'errore diagnostico più volte ricordato, con le conseguenti errati condotte omissive, costituisce l'unico elemento sul quale entrambe sentenze di merito sono assolutamente conformi.

In base a quanto affermato dagli Ermellini, la Corte territoriale era tuttavia pervenuta a una decisione discordante in quanto aveva correttamente applicato i principi della sentenza Franzese, cui nel tempo si è uniformata la giurisprudenza di legittimità: «in tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (Cass. pen., sez. IV, n. 23252/2019, Leuzzi Raffaelangelo, Rv 276365 – 01). Pertanto, risponde a titolo di colpa per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, il medico che, in presenza della sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di attuare la terapia più profittevole per la salute del paziente (Cass. pen., sez IV, n. 26906/2019 Rv 273641 – 01)».

Per tali motivazioni i ricorsi vengono dichiarati inammissibili e ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 30.000 ciascuno in favore della cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria oltre che alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in complessivi euro 3000, oltre accessori di legge.

Osservazioni

La Corte, nel caso di specie, è stata chiamata a pronunciarsi su una vicenda peculiare che vede due medici imputati per omicidio colposo di un paziente deceduto a seguito della ritardata diagnosi di un aneurisma dell'aorta addominale.

La condotta contestata agli imputati era relativa alla mancanta osservanza, nello svolgimento della propria attività, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ovvero omettevano di effettuare una corretta diagnosi e una corretta valutazione del quadro clinico manifestatosi in relazione alla sintomatologia accusata dal paziente sul lato sinistro dell'addome (“dolore addominale in ipocondrio lato sinistro”), in occasione del primo accesso presso l'ospedale.

Il paziente veniva infatti dimesso con diagnosi di “ipertensione arteriosa”, senza effettuare un ulteriore approfondimento diagnostico idoneo a rilevare la presenza di un aneurisma letale, situazione poi correttamente accertata in occasione del secondo accesso, avvenuto pochi giorni seguenti presso il medesimo nosocomio.

A causa della rottura del suddetto aneurisma, veniva eseguito d'urgenza un intervento chirurgico a cielo aperto, durante l'esecuzione del quale si verificava, a causa di un'insufficienza cardiocircolatoria, l'evento morte.

Entrambe le sentenze di merito concordavano sull'indiscutibile errore diagnostico, tuttavia, secondo i consulenti tecnici del giudice non era possibile assumere, con ragionevole certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, che una diagnosi correttamente impostata al momento del primo ricovero, e un'eventuale trattamento chirurgico in elezione, avrebbe evitato, oltre ogni ragionevole dubbio, il decesso : si poteva offrire, tuttavia, il tasso percentuale di mortalità post operatoria per il tipo di intervento in elezione (3-7%), richiesto nel caso de quo, percentuale considerevolmente più bassa rispetto a quella con aneurisma rotto, molto più elevato e crescente con l'aumentare dell'età e della presenza di comorbità (circa il 48-72% nei pazienti con età superiore ai 75 anni).

La percentuale di riuscita dell'intervento di riparazione dell'aneurisma in elezione avrebbe dunque sfiorato il 60%; per tale motivo la Corte territoriale riteneva le conclusioni del giudice di primo grado del tutto contraddittorie e comunque riguardanti una questione strettamente giuridica, ovvero il principio dell'oltre ragionevole dubbio, sulla quale periti non avrebbero dovuto pronunciarsi (non avendone le specifiche competenze).

Secondo la Corte d'appello, aveva dunque errato il primo giudice, laddove aveva pedissequamente riproposto in sentenza le conclusioni dei periti senza criticamente vagliarle.

Al fine di poter argomentare la propria difforme decisione, ricordava il principio di diritto enunciato dalla nota sentenza Franzese in tema di nesso causale nei reati omissivi impropri, secondo cui il nesso di causalità deve ritenersi accertato e sussistente, oltre ogni ragionevole dubbio, tutte quelle volte in cui con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica della diagnosi omessa o dell'intervento terapeutico non effettuato o mal effettuato, sarebbe potuta derivare non solo la salvezza della vita del paziente ma anche una attenuazione del danno prodotto dalla patologia con conseguente ritardo dell'evento morte.

Nel caso di specie la correttezza della diagnosi avrebbe infatti avuto un elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica di salvare la vita del paziente, il che equivale a dire che tra l'errore diagnostico commesso e l'evento morte sussiste un chiaro nesso di causalità sotto il profilo giuridico, oltre che fattuale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.