La Consulta definisce i nuovi orizzonti applicativi del diritto al silenzio

14 Giugno 2023

La doppia questione rimessa al vaglio della Consulta involge la latitudine applicativa del diritto al silenzio, con riferimento alle dichiarazioni rese dall'indagato o dall'imputato in relazione alle proprie qualità personali, a norma dell'art. 21 disp. att. c.p.p.
Massima

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 64 comma 3 c.p.p. nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 disp. att. c.p.p. Per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative dichiarazioni rese dall'interessato che non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64comma 3c.p.p. resteranno, ai sensi del comma 3-bis, non utilizzabili nei suoi confronti.

E' dichiarata altresì l'illegittimità costituzionale dell'art. 495 comma 1 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità dell'indagato o dell'imputato i quali, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64 comma 3 c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni.

Il caso

La declaratoria di incostituzionalità trae abbrivio dal giudizio sulla responsabilità di un imputato che, in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore nell'ambito di un procedimento penale, aveva rilasciato informazioni mendaci al personale di polizia quanto ai suoi precedenti penali.

Pur ritenendo integrato il reato di cui all'art. 495 c.p., il giudice del Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, sollevava - con ordinanza n. 98/2022 - alcuni dubbi di costituzionalità sulla norma, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., considerata la consolidata applicabilità di tale disposizione anche alle false dichiarazioni rese nell'ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato rispetto ai propri precedenti penali e alla generalità delle circostanze richiamate dall'art. 21 disp. att. c.p.p. (cfr. p. 1.3, Considerato in fatto).

In particolare, tale impostazione muoveva dalla costante interpretazione elaborata dalla Corte di legittimità, a partire dal combinato disposto degli artt. 495 c.p., 64 comma 3, 66 comma 1 c.p.p. e 21 disp. att. c.p.p., a mente della quale, pur non sussistendo l'obbligo per la persona sottoposta alle indagini o imputata di rispondere alle domande relative ai precedenti penali e alle altre circostanze enumerate nell'art. 21 disp. att. c.p.p., sarebbe comunque ravvisabile un corrispondente dovere di astensione dal rendere dichiarazioni mendaci. Di guisa che, qualora il soggetto si fosse determinato a fornire un riscontro in merito, questi si sarebbe reso responsabile del delitto di “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”, di cui all'art. 495 c.p.

Sicché, secondo la ricostruzione della suprema Corte, le garanzie previste dall'art. 64 c.p.p. comma 3 c.p.p. non avrebbero operato in sede di identificazione ed elezione di domicilio nei confronti della persona sottoposta a indagini o dell'imputato, dal momento che le domande formulate ex art. 21 disp. att. c.p.p. non attengono al fatto contestato bensì all'identità e allo stato civile e giuridico dell'agente (cfr. p. 1.2, Considerato in fatto).

Così, il giudice rimettente richiamava l'attenzione della Consulta sul presentato impianto interpretativo, polarizzando principalmente la questione di costituzionalità sull'attuale portata del diritto al silenzio, con riguardo ai quesiti sopra menzionati.

Inoltre, laddove - all'opposto - non fosse ritenuto irragionevole negare alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato la facoltà di mentire, si prospettava in via gradata un'ulteriore questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto, da un lato, l'art. 64 comma 3 c.p.p., in relazione all'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi elencati debbano essere formulati all'indagato o all'imputato prima di qualunque tipo di audizione nell'ambito di un procedimento penale, ivi inclusi i quesiti avanzati ex art. 21 disp. att. c.p.p.; dall'altro, l'art. 495 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità nell'ipotesi di rilascio di dichiarazioni non veritiere in relazione alle circostanze di cui all'art. 21 disp. att. del codice di rito penale da parte di chi avrebbe dovuto essere destinatario dell'avvertimento sulla facoltà di rimanere in silenzio.

Con riguardo alle rappresentate posizioni, interveniva l'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, sostenendone l'assoluta infondatezza, in ragione della asserita irrilevanza delle dichiarazioni rese in merito ai precedenti penali sul piano dell'esercizio di difesa.

Queste ultime, unitamente ai riscontri riguardanti le circostanze di cui all'art. 21 disp. att. c.p.p., verrebbero, infatti, soventemente acquisite dall'autorità procedente nella fase delle indagini preliminari, con la conseguenza di non condurre ad alcun effettivo vantaggio difensivo per il soggetto coinvolto.

La questione

Nello specifico, l'intervento invocato concerne, sul piano sostanziale, il giudizio di conformità alla Carta costituzionale del disposto dell'art. 495 comma 1 c.p., nella misura in cui non esclude la punibilità dell'indagato o dell'imputato nell'ipotesi in cui abbiano reso false dichiarazioni in merito ai quesiti posti loro ex art. 21 disp. att. c.p.p., pur non essendo stati questi ultimi preceduti dagli avvisi di cui all'art. 64 comma 3, c.p.p.; sul piano processuale, riguarda la legittimità costituzionale dell'art. 64 comma 3 del codice di rito penale nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati debbano essere rivolti anche alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato in sede di identificazione.

In particolare, il riferimento è alle domande che l'autorità procedente è tenuta a formulare, in forza dell'art. 21 disp. att. c.p.p., quando procede ai sensi dell'art. 66, comma 1, c.p.p.: esse attengono al soprannome o allo pseudonimo, alla eventuale disponibilità di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché dell'invito, rivolto all'identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano condanne a suo carico (nel territorio dello Stato o all'estero) e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessità o cariche pubbliche (cfr. p. 3.4, Considerando in diritto).

Ulteriore questione collegata a quelle principali:

Rispetto alle suddette affermazioni, la garanzia del diritto al silenzio è suscettibile di essere declinata in modo estensivo, nel senso di ricomprendere un correlato diritto dell'indagato o dell'imputato a mentire, ovvero in modo restrittivo, implicando – al contrario – un dovere di astensione dal rendere dichiarazioni mendaci?

Le soluzioni giuridiche

La prospettiva avanzata dal giudice rimettente muove dalla rilevata esigenza di una più effettiva tutela del diritto al silenzio, definito dall'art. 14 par. 3, lett. g) del Patto internazionale dei diritti civili e politici e dall'elaborazione della Corte di Strasburgo (art. 6 CEDU) quale garanzia individuale dell'accusato a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole nonché quale corollario dell'inviolabilità del diritto di difesa, di cui all'art. 24 Cost.

In questo senso, infatti, la doppia questione di legittimità impone un intervento complessivo e unitario da parte della Consulta sulle disposizioni implicate, nell'ottica dell'auspicata estensibilità del principio nemo tenetur se detegere anche alle summenzionate circostanze, di cui all'art. 21 norme att. c.p.p., riguardanti le qualità personali dell'indagato e del detenuto, con la sola esclusione delle sue generalità in senso stretto (nome, cognome, data, luogo di nascita).

Sicché, l'accoglimento delle questioni fin qui prospettate condurrebbe a definire una disciplina certamente coerente sia sul piano sostanziale sia su quello processuale, con la conseguente assoluzione dell'imputato dal reato di cui all'art. 495 c.p. allorché non sia stato previamente informato, ai sensi dell'art. 64comma 3 c.p.p., della facoltà di tacere dei propri precedenti penali.

Di contro, secondo un diverso indirizzo, invalso nella giurisprudenza di legittimità, sarebbe preferibile avallare un'interpretazione letterale dell'art. 21 disp. att. al codice di rito penale il quale, nel prevedere che il giudice o il pubblico ministero procedenti rivolgano un mero invito all'imputato o alla persona sottoposta alle indagini a rendere dichiarazioni, non configura in capo a questi ultimi alcun obbligo di rispondere. In proposito è possibile rimarcare una netta differenza rispetto al trattamento giuridico riservato al rilascio delle proprie generalità, sempre caratterizzato dall'obbligo di fornirne un veridico riscontro.

Propugnando un'ermeneusi restrittiva del diritto al silenzio, tale orientamento sostiene che, sul presupposto per cui i quesiti di cui all'art. 21 norme att. c.p.p. non abbiano attinenza con il diritto di difesa, le affermazioni rese in risposta a quelle domande non debbano essere precedute dall'avvertimento della facoltà di non rispondere, non essendo suscettibili di trovare tutela nel diritto al silenzio, neppure declinato quale diritto a mentire.

Ne discende, da un lato, che le dichiarazioni che riscontrino l'invito ex art. 21 disp. att. c.p.p. siano valorizzabili contra reum in sede cautelare o di merito e che, dall'altro, ove l'indagato o l'imputato – pur non essendo obbligato – fornisca una risposta, affermando il falso, questi si renda responsabile del delitto di cui all'art. 495 c.p.

Nell'aderire alla posizione perorata in sede di ordinanza di rimessione, il Giudice delle Leggi riconosce l'insufficienza della situazione di tutela del diritto al silenzio, determinata dall'attuale assetto normativo e giurisprudenziale (cfr. C.cost., n. 117/2019; C. cost., n. 84/2021, Pres. Coraggio, red. Viganò). In particolare, il lamentato vulnus al diritto di difesa si riscontra nella mancata previsione nel nostro ordinamento di idonei strumenti procedurali volti ad assicurare il rispetto da parte delle autorità procedenti “del diritto a rimanere silenti”, come interpretato dalla giurisprudenza convenzionale e internazionale.

Cionondimeno, la Corte costituzionale evidenzia come la nozione di “right to remain silent” internazionalmente riconosciutanon compendi necessariamente un corrispondente diritto a mentire, difettando - in effetti - «una perfetta sovrapponibilità» tra le false dichiarazioni relative al fatto di reato, normalmente ritenute non penalmente rilevanti, e quelle relative alle circostanze personali del sospetto reo, le quali potenzialmente sono idonee a integrare il delitto di cui all'art. 495 c.p. Pertanto, l'auspicata declaratoria di incostituzionalità in relazione alla predetta disposizione costituirebbe in sé un rimedio eccedente – oltreché inadeguato – rispetto allo scopo, operando unicamente sul versante della punibilità delle false dichiarazioni e non già su quello dell'obbligo per le autorità procedenti di fornire gli avvertimenti di cui all'art. 64,comma 3 c.p.p.

Alla luce di quanto sinteticamente esposto, consegue:

1) «l'illegittimità costituzionale dell'art. 64,comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 disp. att. c.p.p.»;

2) «l'illegittimità costituzionale dell'art. 495,comma 1 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3 c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni»;

2.1) l'inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese dall'interessato in assenza dei succitati avvisi;

3) l'infondatezza delle «ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 c.p., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.».

Osservazioni

Sono di particolare rilevanza alcuni aspetti sottesi al ragionamento della Corte costituzionale nella pronuncia in esame:

  • la disciplina di risulta sul diritto al silenzio;
  • la rilevanza delle dichiarazioni rilasciate a seguito dell'invito formulato ex art. 21 disp. att. c.p.p. rispetto al diritto di difesa;

In relazione a tali argomenti, possono svolgersi alcune precisazioni a margine.

Alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte, l'esercizio del diritto al silenzio deve declinarsi quale precipitato concettuale del diritto di difesa (artt. 24 Cost.).

Ne consegue il necessario adattamento della disciplina che attualmente regola l'esercizio del “privilege against self-incrimination”, sotto il profilo sostanziale (art. 495 c.p.) e processuale (art. 64 c.p.p.).

Pertanto, a seguito dell'intervento pretorio, da un lato, la condotta di chi, richiesto di fornire le proprie qualità personali, scelga di tacere dinanzi all'autorità, deve considerarsi lecita (ad eccezione della reticenza serbata sulle proprie generalità); dall'altro, sarà obbligo delle autorità far precedere le dichiarazioni rese in sede di identificazione dai c.d. “Miranda warnings”, la cui inosservanza sarà sanzionata attraverso l'inutilizzabilità processuale (cfr. p. 3.5.2, Considerando in diritto; C.S. U.S.A., Miranda v. Arizona, 384 U.S. 436, 1996, 467).

L'approdo in discorso, pur escludendo il riconoscimento del “diritto al mendacio” quale riflesso del diritto di difesa, esprime l'essenziale obiettivo di assicurare un'effettiva tutela al diritto al silenzio tutte le volte in cui l'indagato o l'imputato risulti destinatario di domande su circostanze che, ancorché non direttamente attinenti al fatto di reato, siano comunque suscettibili di sortire un impatto sulla condanna o sulla sanzione che potrebbe essere inflitta.

Un tale pregiudizio si verificherebbe, infatti, qualora il soggetto coinvolto sia chiamato a rendere dichiarazioni ai sensi dell'art. 21 disp. att. c.p.p. La conoscenza di tali elementi da parte dell'autorità procedente, invero, difettando il divieto ad utilizzare contra reum le risposte a tali quesiti, lo esporrebbe ad un simile rischio (cfr. p. 3.5.1., Considerando in diritto).

Riferimenti
  • E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974;
  • M. Aranci, Diritto al silenzio e illecito amministrativo punitivo: la risposta della Corte di Giustizia, in Sist. pen., 2021, 93;
  • F. Basile, La Corte di giustizia riconosce il diritto al silenzio nell'ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi”, in Sist. pen., 3 febbraio 2021;
  • J.H. Langbein, The historical origins of the priviledge against self-incrimination at common law, in Michigan Law Review, XCII, 1048;
  • L. Marafioti, Scelte autodifensive dell'indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000;
  • O. Mazza, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo procedimento, Milano, 2004;
  • G. Milizia, “Il silenzio è d'oro, avvalitene” anche nei processi per insider trading innanzi alla Consob, in D&G, 3 febbraio 2021;
  • V. Grevi, “Nemo tenetur se detegere”. Interrogatorio dell'imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972;
  • E. Infante, Nemo tenetur se detegere in ambito sostanziale: fondamento e natura giuridica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, 835;
  • V. Patané, Il diritto al silenzio dell'imputato, Torino, 2006, 3;
  • D. Pulitanò, Nemo tenetur se detegere: quali profili di diritto sostanziale?, in Riv. it. dir. e proc. pen., IV, 1999, 1271;
  • S. Schiavone, Il diritto al silenzio nello spazio giuridico europeo: osmosi delle garanzie se la sanzione amministrativa è “punitiva”, in Dir. Pen. e Proc., n. 3, 1 marzo 2023, 412;
  • M. Zanotti, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989,189.

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