Sì al cumulo fra indennizzo ricevuto dal danneggiato in forza di assicurazione contro gli infortuni invalidanti e risarcimento del danno

15 Giugno 2023

Posto che l'indennizzo percepito dal contraente di una polizza infortuni, che ne contempli la prestazione al prodursi di una invalidità permanente e/o di una inabilità temporanea riguardante la persona e preveda la rinuncia convenzionale dell'assicuratore alla rivalsa nei confronti dell'eventuale responsabile civile dell'infortunio, identifica un beneficio discendente da un contratto assicurativo avente causa previdenziale, esso non è soggetto alla compensatio lucri cum damno e non va defalcato dal risarcimento del danno non patrimoniale discendente dalla compromissione dell'integrità fisica della persona che il responsabile civile dell'infortunio debba corrispondere all'assicurato danneggiato.
Una sentenza fuori dal coro

Sono passati cinque anni dalla quaterna di sentenze con la quale le S.U. hanno preso posizione (nei limiti delle questioni rimesse loro dalle ordinanze selezionate dalla terza sezione) sul modus operandi e l'ambito di applicabilità della compensatio lucri cum damno (d'ora in poi: clcd) nella responsabilità civile italica (Cass., sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566, 12567, in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 1407, con nota di U. Izzo, Quando è «giusto» il beneficio non si scomputa dal risarcimento del danno). Finalmente, una sentenza di merito accetta di farsi carico di analizzare a fondo un interrogativo di grande rilevanza pratica nel settore assicurativo al quale le pronunce del maggio 2018 non avevano potuto dare risposta. La terza sezione della Cassazione, che pure aveva avuto tutto il tempo di comporre selettivamente il bouquet delle ordinanze di rinvio da sottoporre a nomofilachia in tema di clcd, per rispondere a un contrasto già vanamente sollevato nel 2015 (Cass, sez. un., 30 giugno 2016, n. 13372, in Foro it., 2016, I, 2716, con nota di U. Izzo, Sulla problematica coesistenza di compensatio lucri cum damno e surrogazione: il silenzio delle sezioni unite), aveva in quell'occasione strategicamente scelto di non inserire nel gruppo delle ordinanze la fattispecie affrontata dalla sentenza in rassegna.

Il quesito è questo: il beneficiario di un'assicurazione infortuni che contempli, a favore dell'assicurato o degli aventi diritto, la rinuncia convenzionale dell'assicuratore ad esercitare ogni azione di regresso, per surrogazione o rivalsa, verso i terzi civilmente responsabili dell'infortunio, deve rassegnarsi a vedere defalcato per clcd il risarcimento che il beneficiario chiede al responsabile civile dell'infortunio subito dell'importo dell'indennizzo assicurativo o, in tal caso, occorre riconoscere che le somme dovute per il risarcimento hanno una ragione giustificatrice diversa da quella esibita dal beneficio di cui l'assicurato, aderendo a un contratto proposto dal mercato assicurativo, si è previdenzialmente dotato, per fronteggiare al meglio le esigenze di una vita segnata dalla compromissione permanente della sua salute conseguente all'infortunio?

Di recente (U. Izzo, Compensatio lucri cum damno: l'indennizzo dell'assicurazione infortuni va detratto dal danno risarcibile?, in Ridare/IUS responsbailità civile, Focus dell'8 novembre 2022, e in modo più approfondito, Id., Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno: in attesa delle S.U. l'Italia resta comparatisticamente sola nel sancire l'inderogabilità pattizia dello scomputo dell'indennizzo dal danno risarcibile, in Riv. dir. bancario, 2022, I, 825-881, in open access:rivista.dirittobancario.it/sites/default/files/pdf_c/izzo_2022.pdf) erano stati evidenziati i motivi per i quali va decisamente respinto il tentativo della III sezione della Cassazione di accreditare l'idea che – dopo le sentenze «Giusti» (e in particolare dopo Cass. S.U. n. 12565 del maggio 2018, che si era limitata a sancire che, in tema di assicurazione per i danni a cose, l'indennizzo ricevuto da una compagnia aerea per la perdita di un aeromobile impedisce alla medesima compagnia di ottenere il risarcimento del valore dell'aereo perduto dal responsabile civile della distruzione dell'areo) – il dubbio sia stato ormai risolto abbracciando la seconda opzione (sì al defalco, sempre e in ogni caso).

Una conclusione che si fonda sul travisamento di questo precedente di nomofilachia (si leggano le ripetute e vacue affermazioni di Cass., sez. III, 27 maggio 2019, n. 14358, in Foro it., 2019, I, 3186, con nota di A. Palmieri, R. Pardolesi, Sulla incumulabilità di indennizzo e risarcimento: nitore e furore di una costruzione giurisprudenziale, Cass., sez. III, 27 maggio 2019, n. 14361 e Cass., sez. III, ord., 28 febbraio 2019, n. 5809); anche la dottrina, se poco attenta, può cadere nell'errore di ritenere che la logica indennitaria, sviluppata dalle S.U. fino alle sue naturali conseguenze nell'ipotesi di un'assicurazione contro i danni attinenti a una cosa, debba ritenersi automaticamente applicabile all'assicurazione contro gli infortuni invalidanti riguardanti la persona; così, amplificando l'errore per il fatto di riverberarlo sulle pagine di una voce enciclopedica, A. Polotti di Zumaglia, voce Compensatio lucri cum damno: l'intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte, in Dig. disc. priv., Agg. 2019, in One legale), nella misura in cui tenta di dare per scontato che un aeroplano, per il diritto privato, sia indistinguibile da una persona e che, sotto il profilo assicurativo, per quanto riguarda l'ascrizione del contratto al genus delle assicurazioni contro i danni retto dalle logiche del principio indennitario, il valore puramente stipulativo che la responsabilità civile attribuisce alla integrità fisica della persona, quando si tratta di liquidare il danno non patrimoniale derivante dalla compromissione di quest'ultima, funga, proprio come accade quando si considera il valore di mercato di una cosa assicurata, da barème invalicabile, oltre la quale il libero esplicarsi dell'autonomia negoziale che assicuratore e contraente esercitano quando concludono un contratto che cautela quest'ultimo al verificarsi di una invalidità temporanea e permanente della persona dell'assicurato non può concettualmente andare, avendo l'attribuzione contrattuale di tale valore causa indennitaria e non previdenziale, con l'effetto di rendere applicabile a quel valore la clcd e le sue logiche, le quali sono inscindibili dalla dimensione costitutivamente patrimoniale attraverso la quale fin dalle sue remote origini (per tutti, M. Barcellona, Inattuazione dello scambio e sviluppo capitalistico. Formazione storica e funzione della disciplina del danno contrattuale, Milano, 1980, 218-33 e passim) – si tende troppo spesso a dimenticarlo, quando si riflette sull'essenza del nostro problema – è stata concepita la regola che in Italia conosciamo e applichiamo attraverso il fraseggio dell'art. 1223 c.c.

Discostandosi dal coro di decine di sentenze di merito che fra il 2018 e il 2023 hanno frettolosamente dato credito a questa semplicistica equazione (App. Venezia, 3 aprile 2023; App. Firenze 2 febbraio 2023; Trib. Cosenza, 11 novembre 2022, n. 1940; App. Ancona, 21 ottobre 2021; Trib. Rieti, 18 ottobre 2022, n. 454; App. Firenze, 22 settembre 2022, n. 2071; App. Venezia, 25 luglio 2022, n. 1754; App. Firenze, 11 maggio 2022, n. 887; App. Milano, 21 aprile 2022, n. 1320; Trib. Pistoia, 9 marzo 2022, n. 236; App. Milano, 23 dicembre 2021, n. 3730; Trib. Milano, sez. X, 15 dicembre 2021, n. 10405; Trib. Aosta, 22 novembre 2021, n. 343; App. Ancona, 22 ottobre 2021, n. 1168; Trib. Torino, sez. IV, 17 maggio 2021, n. 2438; App. Torino, 3 maggio 2021, n. 475; App. Venezia, 25 maggio 2021, n. 1559; Trib. Civitavecchia, 18 maggio 2021, n. 538; Trib. Milano, 9 aprile 2021, n. 2905; Trib. Grosseto, 28 novembre 2020; App. Campobasso, 15 ottobre 2020, n. 307; App. Milano, 11 settembre 2020, n. 2234; App. Firenze, 4 agosto 2020, n. 1508; Trib. Busto Arsizio, 17 gennaio 2020, n. 62; Trib. Ascoli Piceno, 18 ottobre 2019, n. 778 (ma respinge l'eccezione per difetto di prova del versamento dell'indennizzo assicurativo); App. Venezia, 11 ottobre 2019, n. 4346 (ma non dà luogo a clcd fra un indennizzo infortuni dovuto per il rischio di compromissione della capacità lavorativa dell'assicurato e il danno biologico risarcito a quest'ultimo dal responsabile civile); App. Venezia, 11 luglio 2019, n. 2886; Trib. Taranto, 9 luglio 2019, n. 1804; Trib. Rimini, 24 aprile 2019, n. 358; App. Milano, 29 marzo 2019, n. 1426; Trib. Firenze, 18 dicembre 2018; Trib. Bolzano, 8 novembre 2018, n. 1183, tutte reperibili in Archivio della giurisprudenza d merito nazionale, Ministero di Grazia e Giustizia, in rete: https://pst.giustizia.it/PST/it/services.page; per inciso, consultando i testi di questo gruppo di sentenze, è dato spesso riscontrare come la questione relativa alla eccezione di clcd sia accolta in motivazione con l'impiego di una breve motivazione standard, collegata ad un liturgico richiamo congiunto di Cass., S.U., 22 maggio 2018, n. 12565 e di Cass., sez. III, 14 giugno 2014, n. 13233), la sentenza in rassegna si fa opportunamente carico di andare finalmente al fondo della questione. Essa delinea, con una motivazione molto ben ponderata, il decisum di cui alla massima in epigrafe, con il quale confuta partitamente ciascuno degli argomenti impiegati nell'unica sentenza di legittimità nella quale a tutt'oggi è possibile leggere le ragioni per le quali, giungendo ad evocare addirittura un contrasto con l'ordine pubblico che vulnererebbe di nullità la predisposizione di clausole di rinuncia alla rivalsa da parte dell'assicuratore, si sarebbe tenuti a defalcare l'indennizzo assicurativo pattuito in una polizza infortuni dal danno alla persona anche quando l'assicurazione abbia contrattualmente convenuto con l'assicurato la propria rinuncia a esercitare la rivalsa, per surrogazione o regresso, contro l'eventuale responsabile civile del danno (Cass., sez. III, 14 giugno 2014, n. 13233, in Foro it., 2014, I, 2064, con nota di R. Pardolesi, Sovrapposizione di indennizzo e risarcimento: chi premiare, la vittima o l'autore dell'illecito?). La trama argomentativa della sentenza in commento viene poi completata da una convincente interpretazione adeguatrice delle conclusioni raggiunte dall'unica sentenza di nomofilachia fin qui interrogatasi sulla natura giuridica del tipo assicurativo che nel 1942 si definì impiegando la formula «assicurazioni contro le disgrazie accidentali» (Cass., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5119, in Corr. giur., 2002, 893, con nota di A. Segreto, Assicurazione privata contro gli infortuni invalidanti e mortali: contratto misto?).

Il beneficio protagonista del problema di clcd nella sentenza in rassegna: l'opportuna indagine sul testo del contratto assicurativo

In coerenza con una postura metodologica necessaria quando si avvia l'analisi di una qualsiasi fattispecie che prospetta un problema di clcld, perché, in luogo dell'astratto «motivar per massime», è dalla preliminare verifica in concreto del modo in cui il problema si atteggia nel caso specifico che possono riscontrarsi dettagli cruciali per orientare l'esito dell'indagine in modo coerente ai poliedrici scenari applicativi di questo istituto (si v. U. Izzo, Sub art. 1223 c.c.Compensatio lucri cum damno, in E. Navarretta (a cura di), Codice della responsabilità civile, Milano, 2021, 277, spec. 281-82), il Tribunale di Milano avvia la sua disamina scrutinando con la massima attenzione il regolamento contrattuale accettato dal danneggiato/beneficiato all'atto della scelta previdenziale di corrispondere un premio periodico per cautelare la propria persona dal rischio di morte e di invalidità permanente. Si tratta di un formulario contrattuale standard, predisposto dalla compagnia assicuratrice muovendo da una quantificazione forfettaria del capitale di rischio offerto al contraente (nel caso di specie, pari a 300.000 euro), pacificamente rientrante in quel tipo contrattuale descritto dalla giurisprudenza di legittimità come quel «contratto nel quale l'assicuratore, previa corresponsione di un premio, si obbliga al pagamento di una certa somma all'assicurato, nel caso di lesione dovuta a causa fortuita, violenta ed esterna che ne determini l'inabilità temporanea o l'invalidità permanente, ovvero ad un terzo beneficiario, nel caso di morte dell'assicurato medesimo conseguente ad infortunio» (così definito da Cass., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5119, cit.).

Fra le condizioni generali di contratto predisposte mediante formulario dall'assicuratore viene così riscontrata la clausola – nemmeno offerta alla eventuale specifica accettazione dell'assicurato, ma precostituita nel formulario quale asserzione strutturale del predisponente – rubricata «rinuncia alla rivalsa», ove la dichiarazione espressa che «la Compagnia rinuncia a favore dell'assicurato, o degli aventi diritto, ad ogni azione di regresso verso i terzi responsabili per le prestazioni da essa effettuate in virtù del presente contratto». Non solo, ma, nell'analizzare il testo contrattuale, il Tribunale di Milano riscontra perspicacemente come la descrizione letterale dell'evento legato al rischio ivi operata rifugga dall'adoperare definizioni mutuate dal fraseggio della responsabilità civile e funzionali alla messa in opera di quest'ultima, quali «danno biologico» o «danno non patrimoniale alla persona» conseguenti all'infortunio, limitandosi a prevedere che il diritto alla corresponsione dell'indennizzo, come concretamente quantificato in funzione del capitale di rischio assicurato e dei parametri di gravità medico legale descritti nel regolamento contrattuale e applicabili ai postumi dell'infortunio, debba conseguire al verificarsi del «mero “fatto”, consistente nell'invalidità permanente derivante da infortunio».

Gli argomenti impiegati per confutare Cass. n. 13233/2014 e superare Cass., sez. un., n. 5119/2002

Entrando nel merito del problema, la pronuncia in rassegna muove da una fedele ricognizione del perimetro applicativo attribuibile all'esercizio di nomofilachia portato a termine dalle S.U nel maggio 2018. Dopo aver ricordato che per queste ultime «l'operatività del principio della compensatio dipende dalla “ragione giustificatrice”, cioè dalla funzione del beneficio collaterale che, in conseguenza dell'illecito, è entrato nel patrimonio del danneggiato», riscontra come le S.U. si siano, in effetti, limitate a ribadire che, mentre le assicurazioni contro i danni hanno causa indennitaria e sono quindi soggette a clcd, quelle sulle vita, avendo causa previdenziale, si sottraggono a questa regola, senza però sciogliere il dubbio relativo alla riconducibilità all'uno o all'altro genere del contratto assicurativo contro gli infortuni invalidanti non mortali. Di conseguenza, il giudice meneghino ripercorre l'inquadramento di questo contratto operato da Cass., sez. un., n. 5119/2002 (approdante a collocarlo nel quadro delle assicurazioni danni, aventi causa indennitaria), poi portato alle estreme conseguenze da Cass. n. 13233/2014, laddove, enucleando cinque controvertibili argomenti a supporto della conclusione (per la loro confutazione sia consentito rinviare a Izzo, Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno, cit., 857-63), si è pervenuti a ritenere che «l'inserimento della clausola di rinuncia al diritto di surroga non vale a far mutare la natura indennitaria del contratto assicurativo, “perché il principio indennitario in materia assicurativa è principio di ordine pubblico e quindi inderogabile. Deve dunque concludersi nel senso che indennizzo dovuto dall'assicuratore e risarcimento dovuto dal responsabile assolvano ad una identica funzione risarcitoria, e non possano essere cumulati”» (così la sentenza in commento).

La confutazione delle argomentazioni impiegate da quest'ultima sentenza per giungere a tale conclusione comincia osservando che «la disciplina delle assicurazioni contro i danni di cui agli artt. 1904 e ss. c.c. è stata pensata dal Codice civile con riguardo alle polizze contro danni alle cose, non per coperture contro pregiudizi alla persona. Molte di tali disposizioni fanno infatti riferimento alla specifica nozione di “cosa assicurata” (v. artt. 1906, 1907, 1908, 1909 e 1911 c.c.), non già al più neutro concetto di “bene assicurato”». L'osservazione merita la più ampia condivisione, anche se non si dilunga a mettere a nudo l'elemento che determina il senso più profondo (e le ragioni di ogni regola che da questo riscontro discende) della semantica «cosalità» che caratterizza testualmente la disciplina codicistica dell'assicurazione contro i danni. Che risiede nella parola mercato e nelle straordinarie virtù di questo dispositivo, che sono quelle di riuscire ad attribuire un valore obiettivo, sottratto alle soggettive valutazioni altrimenti esprimibili delle due parti del contratto di assicurazione, all'oggetto della – appunto – «cosa assicurata». La confutazione prosegue ricordando l'osservazione, svolta in punto di topica ermeneutica (e – se vogliamo – non del tutto estranea al più prosaico adagio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), relativa alla circostanza che l'intera disciplina dell'art. 1916 c.c. ricade nella sezione che contiene la norma, rubricata assicurazione contro i danni. «Se si ritenesse che le polizze infortuni (astrattamente ricomprese tra le coperture contro le “disgrazie accidentali”) rientrino tout court nel genus dell'assicurazione contro i danni, la suddetta estensione contenuta nell'art. 1916 c. 4 c.c. apparirebbe del tutto priva di giustificazione», si osserva. Anche in questo caso l'argomento va pienamente condiviso, a patto che lo si completi effettuando un viaggio nel tempo per approdare al 1942 e ricordare come a quel tempo il danno sofferto dalla persona esauriva il suo perimetro di risarcibilità in un alveo rigorosamente patrimoniale scandito dalla capacità reddituale della vittima, che era poi il medesimo cui all'epoca sovveniva l'assicurazione contro gli infortuni del lavoro. Ecco quindi spiegata la ragione di questa menzione congiunta inserita in una norma che, altrimenti, avrebbe potuto dare per scontato che l'assicurazione contro le disgrazie invalidanti e gli infortuni sul lavoro appartenessero al genus delle assicurazioni contro i danni, escogitata da un gruppo di codificatori così attenti alla sistematica come quello che seppe in pochi mesi realizzare magistralmente l'ordine politico (ricevuto con decisione formalizzata dal Consiglio dei ministri del 4 gennaio 1941) di trasferire la disciplina dell'assicurazione da un progetto di nuovo Codice del commercio che non avrebbe mai visto luce al nuovo Codice civile.

Assai opportuno, perché corrobora con riflessioni pregnanti il decisivo argomento della «cosalità dell'assicurazione contro i danni», è poi il ragionamento che la sentenza in rassegna svolge, non prima di aver ricordato la prosa attualissima di una sentenza di legittimità di pochi anni anteriore all'inizio dell'avventura del danno biologico nel nostro ordinamento (a suo tempo magistralmente ripercorsa da A. Di Majo, L'avventura del danno biologico: considerazioni in punta di penna, in Riv. crit. dir. priv., 1996, 299), che andrebbe ancora oggi letta e riletta nella sua integralità (si tratta di Cass. 9 settembre 1968, n. 2915, in Foro it., 1968, I, 2707, di cui un'ampia riproposizione in Izzo, Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno, cit., 858 s.), perché, in nuce, essa appare già consapevole dei motivi, a un tempo nobili e all'epoca non ulteriormente contenibili, che di lì a poco avrebbero fatto germogliare e, infine, trionfare sul quadrante della responsabilità civile la capacità del danno alla persona di sottrarsi alla gabbia patrimoniale nella quale era stato rinchiuso (anche se si dovette attendere il 2003 per avere il sigillo della Consulta su questo esito), dopo la crociata ideologica avviata da Gabba sul finire dell'‘800 della quale già al tempo di quella sentenza la Costituzione del 1948 poteva lasciar prefigurare la definitiva sconfitta. Si tratta di un ragionamento che, per la centralità che assume nell'economia della decisione in commento, merita di essere valorizzato testualmente anche qui:

«a differenza delle cose, beni suscettibili di stima ad opera delle parti, la persona non ha un valore che possa essere oggettivamente stabilito da tutti i contraenti, sì da potervi commisurare l'indennizzo assicurativo. È vero che, in materia di danno non patrimoniale, nelle sedi giudiziarie si suole far ricorso alle c.d. Tabelle di liquidazione del danno alla persona, ma occorre non dimenticarsi come queste ultime – secondo quanto chiarito da ormai consolidata giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cass., sent. n. 10579/2021 e Cass., sent. n. 11719/2021) – non abbiano la pretesa di enucleare un “prezzo” del danno alla persona subito dal danneggiato, ma configurano solo un criterio convenzionale cui ancorare la valutazione equitativa del giudice ex art. 1226 e 2056 c.c. E, dunque, non può ragionevolmente sostenersi che la disciplina delle assicurazioni contro i danni si riferisca indifferentemente alle res e alle persone, stante l'ontologica diversità di questi beni assicurati. Tale conclusione trova del resto una conferma nella prassi assicurativa, posto che normalmente le parti non ancorano l'importo dell'indennizzo ai valori monetari espressi dalle Tabelle di liquidazione del danno, ma quantificano l'indennità in rapporto percentuale rispetto ad una (pre)determinata somma assicurata. Anzi, talvolta, l'indennizzo liquidato sulla base del capitale assicurato è di gran lunga superiore rispetto al valore del danno biologico quantificato sulla base delle Tabelle e, tuttavia, in tali casi, nessuno ha mai ravvisato la violazione del principio indennitario. In ogni caso, nelle ipotesi in cui il capitale assicurato sia fissato convenzionalmente dalle parti, appare comunque arduo sostenere che, con detta stima, i contraenti abbiano inteso pattiziamente attribuire un “valore” alla persona dell'assicurato. Piuttosto – come meglio s'illustrerà nel prosieguo – l'assicurato ha convenzionalmente individuato una somma su cui aver la certezza di poter contare nel malaugurato caso in cui si troverà a dover sopportare eventi traumatici invalidanti. L'individuazione del capitale assicurato, in altri termini, non è certo paragonabile alla c.d. stima concordata di cui all'art. 1908 c.c., norma che consente alle parti di stabilire pattiziamente il valore che una res ha al tempo della conclusione del contratto: con l'istituto di cui all'art. 1908 c.c. si attribuisce certezza all'indennizzo, il quale, però, nelle polizze danni relative ad una res, resta pur sempre ancorato al valore oggettivo del bene e non – come invece avviene nella polizza infortuni – all'entità del premio concordato».

Vengono così regolati i conti con il tentativo di Cass. n. 13233/2014 di imprimere al principio indennitario una curvatura assolutizzante, nel segno di un apriori suscettibile di imporre i suoi corollari anche a una entità che non gli è e non gli sarà mai riducibile come la persona. Basti considerare che questa entità ha una caratteristica del tutto diversa dalle cose di cui essa si serve: dopo aver subito una lesione alla sfera psicofisica della propria integrità, essa è suscettibile di essere risarcita solo attivando un dispositivo giuridico che obbliga la stima equitativa del giudice a fare strutturalmente i conti con l'art. 3 Cost., ma prima di subire (o di procurarsi) un evento suscettibile di generare quella stessa lesione (l'etimologia della «disgrazia accidentale» condensa questa duplicità eziologica come meglio non potrebbe), essa è in grado di pre-vedere i bisogni che a quest'ultima conseguiranno e, se ne ha la possibilità, può investire risorse per pre-costituirsi una provvista economica necessaria a soddisfarli, incontrando come unico limite la misura delle proprie possibilità di investimento e la necessità di oltrepassare, prima della conclusione del contratto, il vaglio, condotto alla luce di un esperto esercizio della razionalità mercantile di chi allestisce e propone questo diverso dispositivo, che – per la sua genesi, il suo modo di essere congegnato, il suo esito – assume una funzionalità indiscutibilmente pre-videnziale. Non si può ingabbiare nella logica stipulativa del «dopo» questo «prima», perché costitutivamente differenti sono le rationes che presidiano gli strumenti giuridici che hanno la funzione di attribuire valore alla perduta integrità della persona nel prima (attraverso il contratto) e nel dopo (attraverso la responsabilità civile). Comportandosi come olio versato nell'acqua, la non patrimonialità del bene salute respinge a piè fermo, sotto questo decisivo profilo, la logica patrimoniale che nel corso dei secoli è servita a mettere a punto il dispositivo dell'art. 1223 c.c. e, con essa, il senso compiuto che nel 2018 si è finalmente giunti ad attribuire al latinismo di ritorno clcd. È riflettendo sulla impossibilità di far coincidere le ragioni dello spostamento di ricchezza promosso nella visuale ex post dalla RC quando quest'ultima ristora un danno non patrimoniale senza potersi valere di indicazioni di mercato (calabresianamente, un merit good, per farsi intendere col lessico dell'autore di Costo degli incidenti e responsabilità civile) e le ragioni dello spostamento di ricchezza istituito nella visuale ex ante dalla persona previdente, ove il quid dello spostamento di ricchezza dipende dalle possibilità economiche e dalla propensione individuale all'investimento di quest'ultima, che si enuclea l'argomento chiave che sconfessa – si direbbe: ontologicamente – le velleità di coltiva ad oltranza il dogma pan-indennitario e l'assolutismo della clcd nel chiuso di una visione nel quale la diuturna confidenza con la contabilità tabellare del danno alla persona sembra aver fatto smarrire il punto di partenza della riflessione giuridica sul problema che ci impegna. Che riguarda la persona (per una migliore evidenziazione di questa impossibilità, sia ancora consentito il rinvio a Izzo, Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno, cit., 847-51).

Il passo successivo e certamente più innovativo della sentenza in rassegna è quello con il quale essa supera, senza metterle apertamente in discussione, le conclusioni di Cass., sez. un., n. 5119/2002, sulle quali la sentenza di legittimità del 2014 si era tenacemente issata per porre in essere il suo tentativo. Le conclusioni raggiunte nel 2002 – si osserva – restano valide nella misura in cui si consideri che a quell'epoca la giurisprudenza di legittimità orientava le proprie valutazioni in ordine alla causa del contratto impiegando la specola della causa in astratto, una nozione notoriamente superata dalla giurisprudenza di legittimità nel 2006 (si tratta della celebre sentenza la cui motivazione fu redatta dall'attuale presidente della terza sezione Travaglino, Cass., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490, in Corriere giur. 2006, 1718, con nota di F. Rolfi, La causa come "funzione economico sociale": tramonto di un idolum tribus?), che da allora in poi ha preso a coltivare la nozione della causa in concreto, come attesta la tribolata vicenda delle clausole claims made culminata nella pronuncia di nomofilachia del 2018 (si tratta della altrettanto famosa, anche perché sconfessante una pronuncia di segno contrario recata dallo stesso consesso due anni prima, Cass., sez. un., 24 settembre 2018, n. 22437, in Banca borsa e titoli di credito, 2019, II, 219, con nota di P. E. Corrias, La sentenza a sezioni unite del 24 settembre 2018 n. 22437. Più luci che ombre).

Ed è nell'ottica dello «scopo pratico» coltivato dai contraenti, quale emergente dall'attenta riflessione sugli elementi emergenti dall'analisi del regolamento contrattuale che la sentenza in discorso ha già svolto, che viene valorizzato il senso causale desumibile dalla previsione della rinuncia alla surroga che nel contratto viene documentalmente ospitata. Ancora una volta, la pregnanza del ragionamento sul tema merita di essere riproposta anche qui.

Le parti, dunque, non hanno ancorato l'indennizzo assicurativo ad un supposto valore obiettivo della persona, ma lo hanno legato ad un capitale convenzionalmente stabilito, secondo un modello più simile a quello dell'assicurazione sulla vita (dove l'indennità è correlata al capitale investito), rispetto allo schema dell'assicurazione contro i danni alle cose (ove l'indennizzo è rapportato al valore del bene assicurato). Soprattutto però, ad illuminare il reale intento perseguito dalle parti, è l'esclusione convenzionale del diritto di rivalsa dell'assicuratore (per la cui previsione normalmente l'assicurato corrisponde premi maggiorati), clausola che, lungi dal porsi quale elemento accidentale del contratto (come invece sembrerebbero affermare Cass., sent. n. 13233/14 e Cass.,ord.n.14358/2019), assume un ruolo dirimente nell'interpretazione della concreta volontà delle parti. Tale pattuizione, infatti, dimostra chiaramente come i contraenti abbiano inteso scindere il profilo risarcitorio (derivante dall'applicazione degli artt. 2043 e ss. c.c.) da quello indennitario conseguente all'operatività della polizza. In altri termini, le parti, prevedendo la preventiva rinuncia dell'assicuratore alla surroga, hanno inteso pattuire che, in caso di infortunio imputabile a responsabilità del terzo, l'assicurato potesse cumulare il risarcimento del danno con l'indennizzo assicurativo. In altre parole, se la previsione di una rivalsa – come precisato dalle S. U. con sent. n. 12564/18 – trasforma il duplice, ma separato, rapporto bilaterale (danneggiante-danneggiato e assicuratore-assicurato) in una relazione trilaterale, l'esclusione convenzionale del diritto di surroga recide detta trilateralità, riportando la vicenda all'originaria doppia bilateralità.

Così ricostruita l'indicazione causale espressa dal contratto, il concetto della causa in concreto viene adoperato nella dimensione ermeneutica che gli è propria per illuminare anche la meritevolezza di un contratto atipico qual è quello delle assicurazioni infortuni invalidanti non mortali contemplante la rinuncia alla rivalsa dell'assicuratore.

Un contratto cui l'autonomia negoziale delle parti conferisce una inequivocabile causa previdenziale, suscettibile non solo di superare a pieni voti il vaglio della meritevolezza ordinamentale, ma di identificare uno strumento contrattuale volto a realizzare una finalità pienamente allineata alle indicazioni costituzionali che militano per una sua sicura desiderabilità economico-sociale, essendo funzionale alla realizzazione di una provvista previdenziale suscettibile di venire incontro alle esigenze di vita di una persona colpita da invalidità permanente, per offrire a questa persona la possibilità di convivere con la sua menomazione fino al tempo in cui avrà cessato di vivere, avendo a propria disposizione un surplus di risorse per alimentare un ben-essere (un vivere meglio) suscettibile di migliorare in modo tangibile ed effettivo ogni aspetto della propria condizione esistenziale di persona permanentemente menomata. Si tratta dell'orizzonte dischiuso anche sul piano costituzionale dall'art. 38 Cost., e in particolare nella lettura di questa norma che, muovendo dal riferimento, espresso dal quarto comma, che proclama la libertà dell'assistenza privata, perviene a valorizzare sul piano di una interpretazione costituzionale sistematica e funzionalmente orientata il connubio fra l'articolo in questione e l'art. 117 Cost., ove alla previdenza complementare e integrativa si fa riferimento esplicito, indicandola fra le materie a legislazione concorrente Stato-regioni (in tema, le condivisibili indicazioni di P. E. Corrias, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi?, in Riv. dir. civ., 2013, 41, spec. 62).

Il «diritto vivente» e quanti ne scontano le conseguenze vivendo

Se le ragioni nitidamente evidenziate dalla pronuncia in rassegna avranno modo di farsi largo fino a bussare alla giustizia di legittimità (in questo o in altro procedimento di merito) e se, a quel punto, la terza sezione della Cassazione avrà l'umiltà di articolare le sue ragioni in un'ordinanza di rinvio alle sezioni unite, per consentire finalmente alla nomofilachia della S.C. di dare la propria definitiva lettura di un contrasto sorto solo nel 2014, quando una sentenza decise di rompere con una ininterrotta sequenza di precedenti che fin dal 1942 dava esito opposto al problema dell'applicabilità della clcd alla indennità delle assicurazioni invalidanti non mortali, il nostro apparato giurisdizionale potrà, se non altro, ritagliarsi un merito, quale possa essere l'esito di quell'auspicabile pronunciamento. E cioè quello di mettere la parola fine a una stagione di opportunistica intrasparenza che quell'apparato ha contribuito a creare e che è tutt'ora in pieno svolgimento mentre si scrive. Una strana stagione nella quale chi predispone i regolamenti contrattuali proposti nel mercato assicurativo del ramo infortuni prospera, realizzando, su scala aggregata, un ingiusto profitto ai danni dei contraenti consumatori che sottoscrivono i «prodotti» del ramo.

Nel corso di questa stagione inaugurata nel 2014, le società assicurative attive nel ramo, predisponendo i formulari, hanno seguitato ad assecondare le richieste dei consumatori, ben sapendo di intercettare una legittima domanda che proviene da quanti, legittimamente dubbiosi, si avvicinano all'idea di rinunciare ad una porzione del proprio reddito per effettuare un investimento previdenziale volto a cautelare la propria persona dalla disgrazia accidentale. Costoro, prima di diventare contraenti, si può ipotizzare che continuino a chiedere al proprio interlocutore contrattuale professionista domande di questo tenore: «ma l'indennizzo mi spetterebbe anche se dovessi venire travolto sulle strisce?», per ricevere subito dopo la rassicurante risposta, ammantata dal complice sorriso del professionista-venditore di turno: «ma certo, se vuole le spiego tecnicamente il significato della clausola di rinuncia alla rivalsa che trova predisposta a pag. 7 del contratto (…) ecco, vede, in quel malaugurato caso lei avrà diritto all'indennizzo di cui alla polizza che sta per firmare per sua cautela e potrà anche chiedere il risarcimento del danno al responsabile; vede, sta scritto qui, anche se in legalese». Concluso il contratto, l'inverarsi di una disgrazia attribuibile all'illecito di un terzo s'incaricherà, però, di smentire quel dialogo rassicurante, nella misura in cui l'assicuratore del terzo responsabile non esiterà ad eccepire la clcd alla pretesa dell'indennizzato di farsi risarcire il danno subito dal terzo, specie in presenza di sinistri che abbiano conseguenze economicamente importanti per l'assicuratore chiamato a tenere indenne il responsabile (questa situazione era stata già descritta in Izzo, Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno, cit., 829-30).

Sta di fatto che il disallineamento fra l'autonomia negoziale esercitata dalle assicurazioni predisponendo i modelli contrattuali e la tetragonia della terza sezione della Cassazione si misura in una perdurante e tangibile perdita secca per le decine, se non per le centinaia di sottoscrittori di «polizze infortuni» indotti alla conclusione di un contratto contemplante la rinuncia unilaterale alla rivalsa da parte del predisponente, che anno dopo anno si trovino a sperimentare, per propria malasorte, la sorpresa appena descritta. Fermo restando che un contratto concluso senza clausola di rinuncia dovrebbe necessariamente costare meno al consumatore (per un delta non trascurabile, che potrebbe essere oggetto di un'azione di classe risarcitoria esibente molti elementi comuni al contenzioso sviluppatosi a ridosso del riconoscimento dell'ingiustizia del «danno da condotta antitrust»), ci si deve porre una domanda.

Ma davvero in Italia si è arrivati al punto di dover invocare l'armamentario della tutela consumeristica (sia nella tradizionale curvatura amministrativa che in quella esplicitamente giurisdizionale di recente corroborata dall'art. 1, comma 7, lett. d), d.lgs. 7 marzo 2023, n. 26, che ha aggiunto il comma 15-bis all'art. 27 cod. cons. – anche in questo caso per il tramite di un'azione di classe) per denunciare la pratica commerciale ingannevole in tal modo posta in essere dalle assicurazioni ex art. 21, comma 1, lett. b. cod. cons. (che la pratica negoziale di cui si discorre riguardi una delle caratteristiche principali del prodotto assicurativo oggetto del contratto, e nella specie un vantaggio di quest'ultimo o un risultato che il consumatore si può attendere dal suo uso, e che tale pratica, nella misura in cui la predisposizione della rinuncia – di fatto notoriamente inefficace di fronte all'orientamento della III sezione – possa essere considerata ingannevole «seppur di fatto corretta» e sia pertanto veicolo di informazioni al consumatore non rispondenti al vero, al punto da doversi considerare ingannevole per il consumatore che l'accetti nel programma negoziale che definisce con il professionista-assicuratore, mi pare essere una conclusione a rime quasi obbligate per chi svolga un'elementare esercizio di grammatica interpretativa fondato sull'applicazione dell'art. 21 cod. cons. alla fattispecie in esame), nonché l'eventuale annullabilità del contratto concluso dal malcapitato assicurato di turno, sol perché una sezione della nostra Corte di legittimità, si ostina a rinunciare di deferire al consesso di nomofilachia l'appianamento definitivo di una questione che rende opaco e intransparente il mercato che quella questione impatta, determinando evidenti distorsioni nel modo in cui gli attori di quel mercato si orientano per esercitare la loro autonomia negoziale? Il «diritto vivente» – si ama ripetere come un mantra, con il plauso di molta dottrina. Ma per chi? Di certo non per quanti questo diritto dotato di vita autonoma (e in larga misura autoreferenziale) sono poi costretti a scontarlo vivendo.

Come sono lontani – ahinoi – i tempi nei quali gli operatori del mercato assicurativo e la giurisprudenza ascoltavano la dottrina, e, a sua volta, la dottrina si metteva in ascolto sia degli operatori che della giurisprudenza, in un dialogo virtuoso che faceva sì che il mercato dei prodotti assicurativi del «ramo infortuni» potesse felicemente svilupparsi con grande impeto. Nell'ottobre del 1961 le imprese assicurative italiane promossero un importante convegno svoltosi nella ridente cornice di Napoli-Ischia, cui parteciparono in gran numero insigni esponenti della dottrina e della magistratura dell'epoca. Lo scopo del convegno fu quello di convocare quella che oggi si definirebbe una «consensus conference» sul già allora tormentato tema della natura dell'assicurazione contro gli infortuni invalidanti non mortali (in smaccata conferma dell'aforisma: «tutto è stato già detto: cambia solo il modo di dirlo»). Il prezioso resoconto di quel convegno, all'epoca pubblicato nella principale rivista di settore, è stato qualche anno fa riproposto in A. La Torre, Un convegno di studi sull'assicurazione infortuni, in Id., Cinquant'anni col diritto, II, Milano, 2008, 557, spec. 568, in una sintesi che può apprezzarsi ancora oggi, perché chiarisce come la tesi che in quel consesso prevalse, quella del c.d. tertium genus – in base alla quale questo tipo negoziale dell'assicurazione non poteva sposare in toto né la disciplina dell'assicurazione danni, né quella dell'assicurazione vita – fosse strettamente legata all'idea, condivisa anche da Emilio Betti in quel consesso, di lasciare che l'autonomia negoziale dispiegasse le sue virtù nel modo più libero possibile per regolare il non-tipo codicistico dell'assicurazione infortuni invalidanti. Va da sé che, dopo quel convegno, il mercato assicurativo del settore poté svilupparsi con rinnovato vigore, senza che per decenni nessuno mettesse in discussione l'esito di quel convegno, in dottrina come in giurisprudenza (per una migliore contestualizzazione dei presupposti e degli esiti di quell'importante momento di confronto convegnistico sia consentito il rinvio a U. Izzo, La «giustizia» del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Napoli, 2018, 233-37).

E invece no. Si preferisce alimentare inutili contenziosi, che – fra l'altro – un giro d'orizzonte comparativo sul tema qui discusso rende consapevoli essere una prerogativa coltivata solo al di qua delle Alpi e più precisamente a Roma (per una verifica comparatistica sul tema, ancora Izzo, Assicurazione infortuni e compensatio lucri cum damno, cit., 868-80).

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