Utilizzabilità delle dichiarazioni della persona offesa e contraddittorio “impossibile”

Megi Trashaj
21 Giugno 2023

La sentenza in commento si pone nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata che mira a contemperare le esigenze di garanzia del giusto processo con l'utilizzabilità di dichiarazioni acquisite in fase di indagine.
Massima

Le dichiarazioni della persona offesa, rese in sede di indagini, possono essere utilizzate anche da sole ai fini dell'affermazione della penale responsabilità dell'imputato quando l'impossibilità di escutere il testimone nel contraddittorio non fosse prevedibile e purchè vi siano altri elementi sufficienti ed idonei a garantire la complessiva equità del processo.

Il caso

La Corte d'appello di Milano confermava la sentenza a carico dell'imputato per il reato di lesioni personali aggravate dall'uso di armi e dalla presenza di più persone riunite (artt. 110, 582 comma 2 in relazione all'art. 585 commi1 e 2 c.p.) per aver colpito – unitamente ad altri due soggetti – la persona offesa anche con bastoni e coltelli cagionandogli lesioni personali giudicate guaribili in sei giorni.

In particolare, nel corso del processo, la persona offesa risultava irreperibile, sicché il Tribunale acquisiva le dichiarazioni rese dalla stessa in sede di indagini ai sensi dell'art. 512 c.p.p., giungendo, anche sulla scorta di tali atti, contenuti nel fascicolo del PM, ad affermare la responsabilità dell'imputato.

La difesa proponeva ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado ritenendo che la motivazione fosse viziata in quanto – in primo luogo – la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti i presupposti per l'operatività dell'art. 512 c.p.p. e – in secondo luogo – per aver fondato la condanna dell'imputato esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, testimone mai interrogato perché sottrattosi all'attività dibattimentale. Da ultimo, la difesa lamentava la mancanza di elementi di riscontro alle dichiarazioni della vittima, in quanto gli ulteriori elementi probatori avrebbero avuto una valenza del tutto neutra rispetto alla responsabilità dell'imputato.

La questione

Due sono i profili rilevanti nella sentenza in commento e, benché fortemente interconnessi, meritano di essere adeguatamente ricostruiti e distinti. Da un lato, infatti, si pone l'interessante quesito sull'utilizzabilità delle dichiarazioni rese in sede di indagini da persona che, nel corso del dibattimento, non sia stata escussa in quanto irreperibile. Sul punto, peraltro, si deve necessariamente rilevare quanto, già da tempo, la Corte europea per i diritti dell'uomo abbia affermato rispetto alla possibilità di condannare un soggetto (unicamente) sulla scorta di simili dichiarazioni rese “fuori contraddittorio”.

Il secondo profilo, invece, attiene alla possibilità di fondare una condanna sulla base delle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa e, dunque, si riferisce alla necessità o meno di rinvenire riscontri individualizzanti ai sensi dell'art. 192 c.p.p. Tale seconda questione, peraltro, viene in rilievo ogni volta in cui le dichiarazioni della vittima rappresentino gli unici elementi posti alla base della sentenza di condanna, anche quando la persona offesa sia stata regolarmente escussa come testimone nel pieno rispetto del contraddittorio.

Le soluzioni giuridiche

Il principio fondamentale da cui occorre partire per una riflessione sulla sentenza in commento è quello richiamato dall'art. 111 Cost. e compendiato nella formula – tanto onnicomprensiva da risultare talvolta quasi vuota – del “giusto processo regolato dalla legge”.

Più nel dettaglio, l'art. 111 comma 2 Cost. espressamente impone il rispetto del principio del contraddittorio tra le parti, soprattutto con riferimento al rapporto incolpato – giudice. L'art. 111 comma 3 Cost. introduce poi una dettagliata serie di garanzie che spetterebbero già alla persona accusata, tra le quali, in particolare, il diritto di «interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». Ma è soprattutto l'art. 111 comma 4 Cost. a guidare il nostro breve percorso ermeneutico: «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore». La norma è, già ex se, piuttosto esplicativa: il principio del contraddittorio trova la sua massima espressione solo nel corso del processo e non, invece, in tutto l'arco del procedimento. Cioè, se nella fase delle indagini possiamo tollerare l'esistenza di un segreto istruttorio e una più o meno intensa compressione del diritto di difesa, nel processo, nel dibattimento, la formazione della prova può avvenire solo nel contraddittorio tra le parti. Ne discendono due importanti corollari: in primis, gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero non devono in alcun modo inquinare la cognizione del giudice. Tutto ciò che si colloca in fase di indagini è tamquam non esset. D'altro lato, anche la più accusatoria tra le dichiarazioni, anche il teste “chiave” del PM dovrà confrontarsi con le scomode “intromissioni” della difesa in sede di controesame dibattimentale e non potrà esimersi dal verbalizzare ciò che ha visto e sentito anche a distanza di tempo dai fatti e in presenza di un giudice (terzo e imparziale), di un pubblico ministero, di un imputato e del suo difensore (tendenzialmente agguerrito). Tutto ciò vale in linea teorica…

Lo stesso legislatore costituzionale, infatti, non è mai stato tanto sprovveduto da non ipotizzare almeno alcune eccezionali ipotesi nelle quali la rigidità della nostra ricostruzione patisse deroghe. L'art. 111 comma 5 Cost., infatti, già introduce la possibilità di venir meno alla regola del contraddittorio nella formazione della prova in tre casi, che attenta dottrina ha compendiato in un felice trittico di assonanze (G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, Principi generali, Torino, 2007):

  1. Deroga per contraddittorio impossibile;
  2. Deroga per contraddittorio implicito;
  3. Deroga per contraddittorio inquinato.

La sentenza che qui ci occupa riguarda solo l'ipotesi di contraddittorio impossibile, ma per completezza si tenga presente che il contraddittorio si definisce implicito quando vi sia il consenso delle parti alla formazione “unilaterale” della prova (ad es. nel caso di consenso all'acquisizione degli atti o, fuori dal rito ordinario, nel caso di giudizio abbreviato), mentre l'inquinamento fa riferimento alle ipotesi di “provata condotta illecita” nelle quali si consente di utilizzare le dichiarazioni predibattimentali anziché quelle rese in sede di contraddittorio.

Nel caso in esame, la Cassazione è chiamata a confrontarsi con una tipica ipotesi di contraddittorio reso impossibile dalla irreperibilità della persona offesa che aveva reso dichiarazioni nell'immediatezza del fatto, in sede di indagini, ma non è stata più reperita nel corso del dibattimento. Lo strumento processuale, adottato dal Tribunale e necessario per poter utilizzare le dichiarazioni della vittima, è offerto dall'art. 512 c.p.p., rubricato “Lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione”, il quale consente al giudice di dare ingresso nel processo a dichiarazioni formatesi fuori dal contraddittorio dibattimentale mediante lettura degli atti (nel nostro caso) di indagine.

Non si tratta, dunque, di una supina acquisizione di parte del fascicolo del PM, ma vi è un apposito strumento processuale cui è necessario ricorrere. L'esito, tuttavia, non è differente: il giudice amplia la propria cognizione ricomprendendovi elementi che esulano dall'attività dibattimentale in contraddittorio. A una duplice condizione però: che sia impossibile (dunque, non basta una mera maggior difficoltà) rintracciare e condurre in udienza il testimone e che tale impossibilità non fosse in alcun modo prevedibile al momento in cui l'atto è stato compiuto.

Più nel dettaglio, la Corte definisce entrambi i requisiti: in merito all'impossibilità, questa deve essere oggettiva e assoluta. Tra le ipotesi che integrano simile evenienza, rientra senz'altro l'irreperibilità sopravvenuta del (mancato) testimone, come già precisato dalle sezioni unite della stessa Corte (cfr. Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2003 n. 36747). Ma quando può dirsi che un testimone sia oggettivamente ed assolutamente irreperibile? A tal fine è necessario che il giudice di merito svolga ogni possibile accertamento sulla causa dell'irreperibilità, non essendo sufficiente «l'infruttuoso espletamento delle ricerche previste dall'art. 159 c.p.p., ma è altresì necessario che il giudice compia tutti gli accertamenti congrui alla peculiare situazione personale dello stesso, quale risultante dagli atti, dalle deduzioni specifiche eventualmente effettuate dalle parti, nonché dall'esito dell'istruttoria svolta […] ovvero dia conto […] dell'apprezzamento compiuto sulla ragionevole impossibilità di svolgere ulteriori ed efficaci ricerche del dichiarante» (cfr. Cass., sez. VI, 6 febbraio 2014 n. 16445). In altri termini, il giudice non potrà limitarsi a svolgere «una verifica burocratica o di routine» e dovrà altresì verificare, sulla scorta di elementi concreti che emergano dalla condotta del testimone che egli non si sia volontariamente sottratto all'esame dibattimentale. Elementi di conforto, ad esempio, potranno trarsi dal fatto che il teste fosse presente all'attività predibattimentale, che avesse una stabile residenza, che avesse dichiarato di voler partecipare al processo, che avesse già preso parte ad una o più udienze (cfr. Cass. pen., sez. V, 18 gennaio 2017 n. 13522).

Il secondo requisito necessario per poter procedere alla lettura ex art. 512 c.p.p. è l'imprevedibilità della futura mancanza del teste. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che tale circostanza va valutata ex ante, avuto riguardo «non a mere possibilità o evenienze astratte ed ipotetiche, ma sulla base di conoscenze concrete, di cui la parte interessata poteva disporre fino alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto chiedere l'incidente probatorio» (cfr. Cass. pen., sez. II, 16 settembre 2014, n. 49007). Infatti, se la parte (tipicamente il P.M.) avesse avuto elementi concreti per ritenere almeno plausibile la futura irreperibilità (o la scomparsa) del dichiarante, non avrebbe dovuto svolgere attività di indagine, ma “eccitare” il contraddittorio mediante la richiesta di incidente probatorio. Ad esempio, ove l'organo di accusa acquisisse le sommarie informazioni testimoniali di un soggetto in evidente fin di vita, vi sarebbero buone ragioni per sostenere che l'impossibilità sopravvenuta non fosse così imprevedibile da giustificare la lettura degli atti di indagine. Dunque, in tal caso, simili dichiarazioni non potrebbero essere utilizzate, né portate alla cognizione del giudice.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene adeguata e sufficiente la disamina svolta dal giudice di seconde cure, rilevando che le forze dell'ordine avevano controllato nel luogo di abituale residenza della persona offesa, indicato anche in sede di querela ed individuazione fotografica e non risultava alcuna cancellazione nei registri comunali. Sicché ne derivava l'assoluta impossibilità di rintracciare il testimone, né d'altro canto tale futura irreperibilità era prevedibile ex ante in fase di indagini.

Ulteriore profilo esaminato dalla Cassazione, come anticipato, attiene invece alla possibilità di fondare la condanna in modo esclusivo o significativo sulle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio, secondo quanto già da tempo affermato dalla giurisprudenza CEDU e recepito dalla Corte di legittimità (cfr. Cass. pen., sez. un., 25 novembre 2010 n. 27918). In altri termini, le prove formatesi in fase predibattimentale, «ancorché legittimamente acquisite, non possono […] fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale». Ne deriva dunque un secondo limite all'utilizzo – sia pure legittimo – delle dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p.: sono necessari ulteriori elementi di conforto «individuati dal giudice nelle [ulteriori, n.d.r.] risultanze processuali» e che, chiaramente, «non possono essere costituiti da altre dichiarazioni acquisite con le medesime modalità» (cfr. Cass. pen., sez. III, 20 giugno 2012 n. 28988). La stessa sentenza, tuttavia, precisa che la suddetta regola debba essere intesa non in senso rigoroso, ma valutando tutti quegli ulteriori elementi, definiti “contrappesi” dalla giurisprudenza sovranazionale, che assicurino l'equità del processo nel suo insieme. Così, la Corte di Cassazione finisce per ammettere che anche le sole dichiarazioni accusatorie rese fuori dal contraddittorio dibattimentale ed acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p. possano fondare una pronuncia di condanna, purchè il giudice offra adeguata motivazione sul rispetto del giusto processo nel suo complesso.

Invero, nel caso di specie, i giudici ritengono che la Corte distrettuale avesse effettivamente riscontrato ed adeguatamente valorizzato elementi di conforto ulteriori rispetto alle dichiarazioni della persona offesa.

Diverso è invece il discorso relativo alla necessità che alcune prove dichiarative siano affiancate da altri elementi che ne confermino l'attendibilità ai sensi dell'art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. Vi sono infatti alcune dichiarazioni che hanno una rilevanza probatoria a carattere meramente secondario e che non possono, da sole, fondare una sentenza di condanna. Ebbene, posto che la necessità di rinvenire cc.dd. “riscontri individualizzanti” si verifica anche nel caso in cui le dichiarazioni siano rese nel corso del dibattimento, la giurisprudenza di legittimità è granitica nell'escludere che tale regola si applichi anche alle dichiarazioni della persona offesa, «le quali possono essere legittimamente poste a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica […] della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto» (cfr., fra le altre, anche Cass. pen., sez. VI, 28 giugno 2018 n. 43899).

Dunque, nel caso in esame, ammessa la lettura delle dichiarazioni predibattimentali della persona offesa ai sensi dell'art. 512 c.p.p. per l'irreperibilità della stessa e l'imprevedibilità di tale circostanza, sussistendo elementi di conforto ed escluso che fossero necessari riscontri individualizzanti ai sensi dell'art. 192 c.p.p., la Cassazione conclude per la bontà delle motivazioni offerte dalla Corte d'appello, dichiarando inammissibile il ricorso.

Osservazioni

Se da un lato la Corte pare ossequiosa della tutela imposta dalla Corte di Strasburgo al canone del giusto processo, d'altro canto tende a stemperare il rigore imposto dalle regole sovranazionali.

Una volta ritenuti sussistenti i requisiti per la lettura delle dichiarazioni ex art. 512 c.p.p. (cioè l'assoluta impossibilità di formare la prova nel contraddittorio per fatti o circostanze imprevedibili), la Corte è chiamata altresì a garantire che tali elementi probatori non siano gli unici, o comunque determinanti, nel fondare la sentenza di condanna. Nessuno spazio spetta invece al più rigoroso regime di cui all'art. 192 c.p.p. che esige la presenza di riscontri individualizzanti solo per le dichiarazioni rese dal coimputato o dall'imputato nel procedimento connesso o collegato e che, comunque, trova applicazione anche alle dichiarazioni rese nel dibattimento.

Con un progressivo processo di erosione, tuttavia, la giurisprudenza nazionale ha molto stemperato il rigore imposto dalla CEDU per la verifica di ulteriori elementi di conforto alle dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. Infatti, pur continuando a rimarcare l'inopportunità di una condanna che si fondi in modo esclusivo o determinante sulle dichiarazioni rese senza contraddittorio, la Cassazione consente (forse in parte snaturando il senso della pronuncia resa dalla Grande Camera della Corte EDU nel 2011, nota come sentenza Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito) che il giudice di merito condanni l'imputato sulla scorta delle sole dichiarazioni rese da una persona fuori dal dibattimento, purché sussistano “contrappesi” di varia natura che, in definitiva, garantiscano l'equità del processo nel suo insieme.

Se quanto affermato dalla Corte appare per certi versi condivisibile, sembra opportuno svolgere una breve riflessione. Se il contraddittorio è parso agli ordinamenti moderni lo strumento più efficace per la ricerca di una verità processuale che giustifichi l'irrogazione di una sanzione penale, l'elasticità delle regole che sono volte a garantire tale “metodo epistemologico” deve necessariamente essere ridotta al minimo, onde evitare che un eccessivo “stretching” delle garanzie procedurali, contribuisca ad uno svuotamento progressivo della formula del giusto processo. Detto altrimenti: il contraddittorio è – per quanto non sempre efficiente – il metodo più efficace per accertare la penale responsabilità dell'imputato. L'acquisizione di dichiarazioni formatesi fuori dal contraddittorio deve dunque essere un'evenienza del tutto eccezionale e controbilanciata da ulteriori elementi di garanzia che reintegrino il più possibile il diritto di difesa e, in ultima analisi, il giusto processo.

In conclusione, una nota positiva sulla par condicio processuale: sebbene l'art. 512 c.p.p. trovi applicazione in via assolutamente maggioritaria quando la richiesta di lettura provenga dal PM in relazione ad attività svolta dalla polizia giudiziaria o dall'organo di accusa, la norma prevede altresì che la richiesta possa provenire dai difensori anche rispetto all'attività di indagine difensiva ai sensi del libro V, titolo VI-bis c.p.p.

Ciò significa che anche l'imputato, per il tramite del proprio difensore, potrà ottenere che il giudice estenda la propria cognizione ad elementi di prova (presumibilmente a discarico) di cui è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili al momento in cui si sono svolte le indagini difensive e che, diversamente, non troverebbero alcun ingresso nel processo.

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