Bottino di 10 euro: il rapinatore recidivo merita clemenza?

13 Luglio 2023

La particolare tenuità del danno patrimoniale causato determina una sensibile riduzione del contenuto di disvalore dei reati che offendono il patrimonio: di tale ridotto disvalore il giudice deve poter tenere conto nella commisurazione del trattamento sanzionatorio, senza essere vincolato a ignorarlo in ragione della recidiva reiterata dell'imputato.

Rapina: l'attenuante per il “magro” bottino è soccombente di fronte alla recidiva?

La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante relativa alla speciale tenuità del danno patrimoniale (art. 62, n. 4, c.p.) sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata e infraquinquennale (art. 99, comma 4, c.p.).

Il rimettente deve giudicare della responsabilità penale di un imputato rinviato a giudizio per rapina, per avere costretto due dipendenti di un supermercato a consegnargli dieci euro con la minaccia consistita nelle frasi “se non mi date 10 euro torno con la pistola” e “ti spacco la testa”. Ritenuto che il fatto addebitato all'imputato sia provato dalle risultanze delle indagini, il giudice a quo valuta che sussistano gli estremi della circostanza attenuante consistente nell'avere l'agente, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità. All'imputato, però, è stata contestata la circostanza aggravante della recidiva reiterata e infraquinquennale che, ad avviso del rimettente, deve anche essere concretamente applicata.

Ad avviso del giudice a quo, l'esigenza di adeguare la pena all'effettivo disvalore del fatto giustificherebbe la dichiarazione di prevalenza dell'attenuante sulla recidiva, tenuto conto dell'entità del minimo edittale di cinque anni di reclusione previsto per il delitto di rapina: una tale pena, infatti, sarebbe del tutto sproporzionata rispetto alla condotta commessa, consistita nel conseguimento di un profitto di appena dieci euro, con pari danno per la parte offesa.

L'aggravante della recidiva non deve prevalere sulle componenti oggettive del reato

La pronuncia in commento richiama i diversi precedenti con cui la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, comma 1 e 3, Cost., il meccanismo del divieto di prevalenza di singole circostanze attenuanti rispetto all'aggravante della recidiva reiterata, riconducibile alla regola generale dettata dalla disposizione impugnata (cfr., ex plurimis, C.cost., n. 94/2023).

In particolare, il giudice delle leggi ha evidenziato l'esigenza di mantenere un conveniente rapporto di equilibrio tra la gravità (oggettiva e soggettiva) del singolo fatto di reato e la severità della risposta sanzionatoria, evitando l'abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato, creata dall'art. 69, comma 4, c.p.

Le medesime ragioni conducono, anche nel caso in esame, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale auspicata dal rimettente.

Delitti contro il patrimonio: non si può prescindere dalla tenuità del danno

L'attenuante del danno di particolare tenuità si applica, per espresso dettato normativo, ai delitti contro il patrimonio o che, comunque, offendono il patrimonio. Tra tali delitti assumono particolare rilievo prasseologico i delitti di rapina ed estorsione, caratterizzati da una pena minima edittale particolarmente elevata, pari a cinque anni di reclusione nelle ipotesi non aggravate. La latitudine dello schema legale di tali delitti, d'altra parte, fa sì che essi si prestino ad abbracciare anche condotte di modesto disvalore: non solo con riferimento all'entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso oggetto del giudizio a quo) a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minimali di violenza (come una lieve spinta) ovvero, come ancora nel caso oggetto del giudizio principale, nella mera prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi o di altro mezzo di coazione, che tuttavia già integra la modalità alternativa di condotta costituita dalla minaccia.

Anche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona – se l'ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi (cfr., C.cost., n. 120/2023).

Pena eccessiva per fatti di modesta entità: la prevalenza della recidiva non può essere automatica

L'effetto “calmierante” di tutte le circostanze attenuanti – compresa quella relativa al danno patrimoniale di particolare tenuità – rispetto all'elevato minimo edittale previsto dal legislatore per i delitti di rapina ed estorsione è però destinato a essere sistematicamente eliso, allorché all'imputato venga contestata la recidiva reiterata e allorché il giudice ritenga di dover applicare tale circostanza aggravante, in ragione delle accentuate colpevolezza e pericolosità dell'imputato. In tal caso, infatti, l'art. 69, comma 4, c.p. non consente al giudice, salve le possibili diminuenti connesse alla scelta del rito, di commisurare una pena inferiore al minimo edittale, e dunque a cinque anni di reclusione.

La particolare tenuità del danno patrimoniale causato determina, di regola, una sensibile riduzione del contenuto di disvalore dei reati che offendono il solo patrimonio, o che offendono – accanto ad altri beni giuridici – anche il patrimonio; e di tale ridotto disvalore il giudice deve poter tenere conto nella commisurazione del trattamento sanzionatorio, senza essere vincolato a ignorarlo in ragione soltanto della recidiva reiterata dell'imputato. Circostanza, quest'ultima, che nulla ha a che vedere con la gravità oggettiva e soggettiva del singolo fatto di reato, cui la pena – in un sistema orientato alla “colpevolezza per il fatto”, e non già alla “colpa d'autore”, o alla mera neutralizzazione della pericolosità individuale – è chiamata a fornire risposta.

La disposizione impugnata è, quindi, costituzionalmente illegittima nella parte in cui impone al giudice di irrogare necessariamente una pena manifestamente sproporzionata al disvalore del singolo fatto di reato, in contrasto con il principio di proporzionalità della pena.

*Fonte: DirittoeGiustizia

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