Prestazioni professionali rese durante il matrimonio con pagamenti successivi alla separazione: opera la comunione de residuo

Alberto Figone
01 Agosto 2023

Rientrano nella comunione de residuo i compensi professionali, per attività svolte da uno dei coniugi durante la convivenza matrimoniale, anche se non esigibili, al momento dello scioglimento della comunione legale?
Massima

Ai sensi dell'art. 177 lett. c) c.c., i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi cadono nella comunione de residuo, ove non consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione e, quindi, anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione e ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purchè costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale; tra essi sono compresi i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate.

Il caso

Una moglie separata chiede la condanna del marito alla metà di quanto da lui percepito quale compenso per attività professionali, svolte durante la convivenza matrimoniale, pagato dopo la separazione ed il conseguente scioglimento del regime di comunione legale in essere tra i coniugi, invocando i principi sulla comunione de residuo. I giudici di merito respingono la domanda, che la Corte di cassazione ritiene invece meritevole di accoglimento.

La questione

Rientrano nella comunione de residuo i compensi professionali, per attività svolte da uno dei coniugi durante la convivenza matrimoniale, anche se non esistenti, ovvero non esigibili, al momento dello scioglimento della comunione legale (nella specie, per intervenuta separazione personale)?

Le soluzioni giuridiche

Come noto, accanto alla comunione legale c.d. immediata (art. 177 lett. a) e d) c.c.), si configura la comunione c.d. de residuo: ai sensi dell'art. 177, lett. b) e c), c.c., entrano a far parte della comunione, ma soltanto al momento del suo scioglimento, i frutti dei beni propri e i proventi dell'attività separata di ciascun coniuge, ove non consumati. Il legislatore ha fatto una scelta compromissoria tra opposte posizioni. Da un lato, i frutti, ma soprattutto i proventi dell'attività separata di ciascun coniuge costituiscono frequentemente l'unica (o comunque la maggiore) ricchezza dell'individuo e della famiglia: un'esclusione assoluta dalla comunione avrebbe troppo depauperato il suo oggetto. D'altra parte, l'esigenza della circolazione dei beni e la salvaguardia dell'autonomia negoziale di ciascun coniuge suggerivano di limitarne la caduta in comunione. Si è scelta così una via intermedia: l'entrata in comunione opera solo al momento dello scioglimento, sempre che i denari non siano stati consumati. Il regime di comunione legale raggiunge la pienezza e la maggiore estensione, proprio quando si verifica una causa di scioglimento, e, dunque, quando viene meno, in genere, il vincolo di solidarietà tra i coniugi.

La norma precisa che tanto i frutti quanto i proventi dell'attività separata, per entrare nella comunione, non devono essere consumati al momento dello scioglimento. Ci si chiedeva se il coniuge avesse l'obbligo di ben amministrare o comunque di non consumare tali cespiti, e se l'altro potesse esercitare qualche forma di controllopostuma”. Tuttavia la dottrina nettamente prevalente e la giurisprudenza pressoché unanime sono di avviso contrario: il coniuge, infatti, una volta che abbia adempiuto all'obbligo di contribuzione in famiglia, è totalmente libero di destinare i cespiti residui, come meglio ritenga Si ritiene così che non esista alcun obbligo di rendiconto per il coniuge titolare, mentre l'altro ha solo un'aspettativa di fatto e non un diritto soggettivo. Non manca tuttavia qualche isolata pronuncia, che, per di più a livello di obiter dictum, pur escludendo che i proventi dell'attività separata già consumati rientrino in comunione, sostiene l'obbligo del coniuge di fornire il rendiconto di entrate e spese, ovvero che rientrerebbero in comunione pure i redditi personali, rispetto ai quali il coniuge non riesca a dimostrare la loro consumazione per i bisogni della famiglia ovvero per investimenti già caduti in comunione.

Le previsioni di cui alle lett. b) e c) dell'art. 177 c.c. solo apparentemente sono sovrapponibili. Si distingue infatti tra i frutti che, secondo la lettera della norma, devono essere “percepiti” e i proventi, per cui tale condizione non è imposta. In relazione ai primi già si era precisato in giurisprudenza doversi escludersi che rientrino nella comunione "de residuo" i frutti dei beni personali di uno dei coniugi in corso di maturazione, ma non ancora percepiti, al tempo dello scioglimento della comunione legale; per l'affetto si era affermata l'estraneità al regime patrimoniale legale degli interessi su buoni postali di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, in corso di maturazione al tempo della separazione personale (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1429). Regole diverse valgono invece per i proventi dell'attività professionale. Essi infatti, rientrano nella comunione de residuo anche se inesistenti o inesigibili al momento dello scioglimento della comunione. È peraltro indispensabile che siano riferiti a prestazioni rese in un momento in cui era ancora operativo il regime patrimoniale tra i coniugi.

Il problema principale che ha tuttavia diviso gli intrepreti attiene non tanto all'oggetto della comunione de residuo, quanto alla natura del diritto del coniuge sulla comunione medesima: contitolarità o diritto di credito. La norma in effetti non distingue tra comunione attuale (nella quale la contitolarità degli acquisti è ormai pacificamente considerata) e comunione de residuo. La questione è stata risolta da un recente intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha optato per la natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell'ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività (Cass. sez. un. 17 maggio 2022, n. 15889).

Osservazioni

La decisione in esame richiama i principi fondamentali in ordine alla comunione de residuo. In un primo tempo, i giudici di legittimità avevano affermato doversi in essa ricomprendere non solo i redditi, per i quali si fosse riuscito a dimostrare la sussistenza ancora al momento dello scioglimento della comunione, ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non fosse riuscito a dimostrare la consumazione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ovvero per investimenti già caduti in comunione (Cass. 17 novembre 2000, n. 14897). L'orientamento è poi mutato, essendo altrimenti penalizzato oltre il ragionevole il coniuge percettore di redditi, obbligato ad una sorta di dettagliata rendicontazione “postuma”, in contrasto con i principi di autonomia ed autoresponsabilità dei coniugi, ai quali si impone l'adempimento degli obblighi patrimoniali discenti dal vincolo familiare, ben potendo gestire in maniera autonoma quanto non destinato a detti scopi, fermo restando l'operatività del regime di comunione legale per acquisti di carattere non personale (Cass. 8 febbraio 2006, n. 2597; Cass. 7 marzo 2017, n. 5652). Da tanto consegue che i redditi individuali dei coniugi (tanto che si tratti di redditi di capitali, quanto di proventi da attività separata) non cadono automaticamente in comunione, ma rimangono di pertinenza del rispettivo titolare, salvo a diventare comuni, nella misura in cui non siano stati già consumati, al verificarsi di una causa di scioglimento della comunione;

I redditi da capitale cadono in comunione de residuo se sono stati percepiti al momento dello scioglimento della comunione e non consumati. Per i redditi da lavoro, l'art. 177 lett. c.) come si è visto, richiede solamente la non consumazione e non anche la percezione. La differenza può giustificarsi alla luce di quello spirito solidaristico sotteso al regime patrimoniale di comunione: il legislatore ha ritenuto di far partecipe dell'incremento il coniuge del lavoratore, anche se il credito non fosse ancora maturato, o fosse inesigibile, allo scioglimento della comunione, purché afferente a prestazioni rese in un momento precedente. La norma presume che lo svolgimento di attività lavorativa (se pur remunerata anche dopo tempo) sia stata resa possibile o agevolata dalla presenza dell'altro coniuge, imponendosi dunque una ridistribuzione del reddito. Si comprende così il diverso trattamento per i redditi da capitale, in relazione ai quali la posizione del coniuge non percipiente è irrilevante.

Risulta che, nel caso di specie, il marito avesse instaurato un contenzioso per il recupero del credito professionale in epoca antecedente lo scioglimento della comunione legale, a fronte della dichiarata separazione personale, maturando così un'aspettativa, la cui esistenza lo stesso marito aveva contestato. Sta di fatto che in ogni caso, il corrispettivo di prestazioni relative al periodo di vigenza della comunione legale, non ancora pagato, in base ai puntuali principi espressi dalla Corte di cassazione, ricade nella comunione de residuo; proprio in difetto di pagamento, il corrispettivo per di più neppure potrebbe ritenersi consumato.

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