Il paradigma del “mafioso povero”

Ferdinando Brizzi
17 Agosto 2023

La sentenza della Corte costituzionale, n. 180/2022, induce a riflettere su una condizione che può riguardare tanto il soggetto raggiunto da una misura di prevenzione, tanto da una interdittiva antimafia, misure tutte previste dal d.lgs. 159/2011, ovvero la mancanza dei mezzi di sostentamento per sé e la famiglia.
Il quadro normativo

Anche se il sistema normativo racchiuso nella cd. normativa antimafia – Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – sembra esclusivamente ruotare intorno alla (presunta) sproporzione delle ricchezze possedute direttamente o indirettamente dal soggetto attinto da una misura di prevenzione, tuttavia il Legislatore, quanto meno in due norme, fa emergere una situazione del tutto inaspettata, quella del presunto “mafioso” in condizione di indigenza. Anche la stessa esperienza giudiziaria rivela come tale condizione non sia poi così infrequente, se addirittura il giudice delle leggi se n'è dovuto occupare nella scorsa estate. Spesso la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, si è dovuta occupare della questione dello sgombero di immobili da parte di persone in condizioni di emergenza abitativa, e, più recentemente, della eventuale mancanza di mezzi di sostentamento quale conseguenza di misura interdittiva antimafia. Viene dunque all'attenzione del penalista la questione dell'ammissibilità, o meno, non solo della cd. confisca generale, ma anche un'applicazione indiscriminata di quelle che possono essere le conseguenze amministrative, e segnatamente in termini di assoggettamento ad interdittiva antimafia, ad una procedura di prevenzione: invero ai sensi dell'art. 84 del codice antimafia le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva sono desunte, tra gli altri, dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione.

“Alimenti” e casa di abitazione

Le norme di diritto positivo che lasciano presagire questa impensata realtà, il “mafioso” indigente, sono l'art. 40 d.lgs. 159/2011, gestione dei beni sequestrati, e l'art. 67 stesso decreto, effetti delle misure di prevenzione.

Il comma 2 dell'art. 40 prevede la possibilità per il giudice delegato di adottare, nei confronti della persona sottoposta alla procedura di prevenzione e della sua famiglia, i provvedimenti indicati nell'articolo 47, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, quando ricorrano le condizioni ivi previste. Significativamente l'art. 47 r.d. 267/42 è rubricato “Alimenti al fallito e alla famiglia”: Se al fallito vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, ((...)) può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.

Il secondo comma si occupa poi della casa di proprietà del fallito, che, nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività.

Con specifico riferimento alla casa di abitazione del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, il comma 2-bis dell'art. 40 precisa che, nel caso previsto dal secondo comma dell'articolo 47 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e, comunque, nei casi previsti dal comma 3-ter, primo periodo, dell'art. 40, il tribunale, con decreto revocabile in ogni momento, dispone il differimento dell'esecuzione dello sgombero non oltre il decreto di confisca definitivo.

La seconda parte del comma 2-bis dispone poi che il beneficiario, pena la revoca del provvedimento, è tenuto a corrispondere l'indennità eventualmente determinata dal tribunale e a provvedere a sue cure alle spese e agli oneri inerenti all'unità immobiliare; è esclusa ogni azione di regresso.

L'ulteriore norma che rileva ai fini di questa trattazione è l'art. 67 comma 5: Per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti di cui al comma 1 le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia.

Il Legislatore ha così riservato una meritoria attenzione alla condizione economica concreta di colui che viene interessato da una misura di prevenzione, da un lato consentendogli di permanere nella propria casa di abitazione, dall'altro impedendo le decadenze e i divieti di licenze ed autorizzazioni in caso di pregiudizio al sostentamento dell'interessato e della sua famiglia.

Eppure, forse per un difetto di coordinamento tra l'art. 67 ed il successivo art. 68 – Divieti e decadenze nei confronti dei conviventi – la norma di cui all'art. 67 non è stata replicata in riferimento ai conviventi.

Nondimeno, la questione delle reali condizioni economiche del soggetto attinto da misure di prevenzione, e dei suoi familiari, merita una particolare attenzione dal momento che l'ormai abnorme ambito di estensione di quest'ultime, a seguito della progressiva estensione della platea dei destinatari di cui all'art. 4 – ad avviso di chi scrive non sempre giustificata – potrebbe determinarne l'applicazione anche a soggetti alquanto distanti dal profilo tipico del “mafioso”.

La posizione della giurisprudenza di legittimità: alloggio, sgombero e indennità

Come già anticipato, la concreta esperienza giudiziaria conferma che non è circostanza poi tanto rara che il soggetto raggiunto da misura di prevenzione possa versare in condizioni di grave criticità economica.

Ciò emerge chiaramente da vicende trattate dalla giurisprudenza di merito poi sfociate in provvedimenti di legittimità.

Ad esempio, il Tribunale di Reggio Calabria con ordinanza del 10 novembre 2014 dichiarava inammissibile il reclamo proposto dalle terze interessate in quanto figlie del proposto, avverso il provvedimento con il quale, il 26 ottobre 2014, il Giudice Delegato del tribunale, misure di prevenzione, aveva rigettato la loro domanda volta a mantenere a titolo gratuito l'uso abitativo dell'immobile sequestrato. A sostegno della decisione il giudice territoriale osservava che analoga domanda risultava già delibata dal Tribunale con provvedimento di rigetto del 26 marzo 2014, con il quale era stato rigettato analogo reclamo avverso la decisione del Giudice Delegato, il quale aveva invitato gli amministratori del bene a richiedere alle ricorrenti il pagamento della indennità di occupazione. Col medesimo provvedimento il tribunale reiterava l'invito, rivolto alle ricorrenti, a corrispondere il canone ovvero a lasciare libero da persone e cose l'alloggio occupato. Le terze interessate, entrambe prive di reddito, ricorrevano per cassazione in quanto il provvedimento impugnato non aveva affatto preso in considerazione le argomentazioni difensive volte ad evidenziare che non ricorreva affatto una ipotesi di preclusione della nuova domanda di godere, gratuitamente, dell'alloggio amministrato giacché, rispetto alla prima istanza, le interessate avevano presentato nuova documentazione con la quale intendevano dimostrare di non avere disponibilità economiche per fronteggiare le minime esigenze di vita ed avevano per questo domandato di applicare in loro favore la analoga disciplina fallimentare di cui all'art. 47 l. fall. e di consentire per questo l'uso gratuito dell'alloggio per cui era causa; su questi nuovi profili della domanda, nella prospettiva difensiva, il tribunale aveva omesso di decidere e di motivare, né aveva tenuto conto che proprio con la prima ordinanza aveva esso opposto alle richiedenti di non aver provato e documentato quanto, viceversa, hanno cercato di provare e documentare con la seconda domanda.

Cass. pen., sez. I, n. 44190/2016 ha ritenuto fondato il ricorso: il d.lgs. n. 159 del 2011, art. 40, comma 2, prevede che il giudice delegato possa adottare, nei confronti del proposto e dei componenti della sua famiglia, i provvedimenti indicati nel r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 47 e succ. modif. l. fall.) quando ricorrano le condizioni ivi previste, quale l'autorizzazione a proseguire l'occupazione dell'immobile sequestrato. La relativa richiesta da parte degli interessati, in quanto priva di contenuti giurisdizionali giacché di natura meramente amministrativa, può essere reiterata in costanza di fatti nuovi o non valutati ovvero di circostanze sopravvenute, senza che il precedente provvedimento negativo, rispetto alle aspettative degli interessati stessi, integri ragione preclusiva al riesame. Nel caso in concreto venuto a giudizio, il tribunale ha rilevato la inammissibilità della domanda dappoiché già delibata una identica istanza, dato processuale questo diverso dalla reale situazione processuale, posto che la prova della situazione di indigenza e comunque di modeste condizioni economiche delle istanti rappresentata con documentazione comportava situazione nuova, in precedenza non esaminata e sulla quale occorreva pertanto decidere nel merito con provvedimento motivato. Peraltro, già nel primo provvedimento di rigetto il tribunale aveva osservato che lo stato di difficoltà economica delle occupanti dell'alloggio non appariva adeguatamente provato, di guisa che la integrazione documentale volta a dare prova di tale stato non può non essere considerata prospettazione nuova e per nulla preclusa. Per questi motivi l'ordinanza è stata annullata con rinvio al giudice territoriale affinché venga sottoposta a nuovo esame la domanda proposta dai terzi interessati alla luce della nuova documentazione esibita e per la puntuale applicazione dell'art. 40, comma 2 d.lgs. n. 159/2011.

Proseguendo nella disamina dei provvedimenti di merito, il Tribunale di Chieti, in sede di procedura di prevenzione, con decreto del 1° marzo 2021, emesso in sede di gestione, aveva assegnato a M.M. e M.E. (ed ai rispettivi nuclei familiari) una unità abitativa ciascuno, determinando una indennità di occupazione pari a 1.000,00 Euro mensili per ciascun nucleo familiare.

Circa la determinazione della indennità il Tribunale osservava che detto valore, parametrato alla perizia estimativa, "si ritiene adeguato rispetto alla complessiva condizione reddituale dei ricorrenti", considerando anche l'elevato valore di mercato degli immobili e le buone condizioni di manutenzione dei medesimi.

Avverso detto decreto è stato interposto ricorso per cassazione da M.M. e M.E., dove veniva dedotta erronea applicazione di legge. Secondo i ricorrenti, le condizioni economiche, posteriori al sequestro, dei due nuclei familiari, avrebbero dovuto determinare (data l'emergenza abitativa) l'assegnazione delle unità abitative non gravata da indennità alcuna. Tutte le disponibilità immobiliari, mobiliari e finanziarie dei M. erano, infatti, sottoposte al vincolo della prevenzione.

Lo stesso procuratore generale concludeva per l'annullamento con rinvio del decreto impugnato, e Cass. pen. sez. I, n. 17488/2022 ha disposto in conformità rilevando che la previsione di legge vigente (art. 40, comma 2-bis d.lgs. n. 159/2011) da un lato rimanda ai contenuti dell'art. 47, comma 2 l. fall., (con mantenimento del possesso dell'immobile adibito ad abitazione, sino alla data della confisca definitiva), dall'altro pone a carico del beneficiario il pagamento di una indennità "eventualmente determinata".

Da un lato l'autorizzazione alla proroga dello sgombero si fonda, dunque, sulla constatazione di un bisogno abitativo, non potendosi ritenere possibile l'emissione del provvedimento in caso di esistenza di proprietà immobiliari fruibili e non sottoposte al vincolo del sequestro (in tal senso Cass. pen., sez. VI n. 20566/2020, rv 279268), dall'altro è lasciata alla discrezionalità del Tribunale la facoltà di imporre, per il mantenimento del possesso, il pagamento di una indennità.

L'esercizio di detta discrezionalità, da parte del Tribunale, non è sindacabile in sede di legittimità, fermo restando che: a) la scelta di imporre, o meno, il pagamento della indennità deve essere congruamente motivata in rapporto alla condizione attuale del soggetto obbligato e del relativo nucleo familiare; b) in ogni caso, l'indennità non può essere parametrata al corrispondente valore di un canone di locazione, dovendosi tener conto della natura non strettamente speculativa dell'impiego del bene, ma essenzialmente solidaristica, in ragione della pendenza del procedimento e della salvaguardia dei diritti dei soggetti coinvolti.

La motivazione espressa dal Tribunale di Chieti non è stata ritenuta tale da soddisfare i descritti parametri, posto che difettava una concreta analisi della attuale sostenibilità della indennità stabilita. La misura della indennità risultava, inoltre, posta in correlazione con il mero valore di mercato, senza correttivi equitativi.

Pare dunque potersi affermare che i giudici di legittimità rifuggano da una versione stereotipata del “mafioso” necessario detentore di ricchezze sproporzionate, propendendo per una valutazione da effettuarsi “caso per caso”, posizione mirabilmente espressa “in diritto” da Cass. pen., sez. V, n. 26603/2018 secondo cui, quando il sequestro di prevenzione ha per oggetto un bene immobile, il potere di sgombero, cioè di allontanarne coattivamente gli occupanti, con l'ausilio della forza pubblica, può essere esercitato nella fase di esecuzione del provvedimento impositivo del vincolo (peraltro non dal giudice delegato, ma dal tribunale che ha adottato la misura), solo in presenza delle condizioni previste dall'art. 21, comma 2 d.lgs. n. 159/2011.

Pertanto, estendere tale potere a soggetti ed a casi diversi da quelli tassativamente previsti, rappresenterebbe un'indebita estensione in malam partem di una disposizione invasiva della sfera di libertà dei singoli.

Infatti, se è vero che rientra tra i compiti del giudice delegato quello di provvedere alla custodia, conservazione ed amministrazione dei beni sequestrati, non è previsto dal vigente sistema normativo che il suo potere si estenda sino al punto di ordinare l'allontanamento coattivo dall'immobile di cui si discute, posto che l'unica procedura ammessa dalla legge per ottenere l'adempimento dell'obbligazione di pagamento di spese ed oneri immobiliari, consiste nella ordinaria azione giudiziaria da instaurarsi dinanzi al competente giudice civile.

Effetti pregiudizievoli delle interdittive antimafia

Mentre lo stato di indigenza dell'interessato sembra trovare adeguato riconoscimento in giurisprudenza per quanto riguarda le misure di prevenzione non altrettanto può dirsi in tema di informazione antimafia: per quanto si dirà a breve, per mancanza di idonei strumenti normativi, che rendono impossibile alla giurisprudenza, financo costituzionale, intervenire in una maniera adeguatrice.

Secondo la Corte di cassazione

Ciò emerge in primo luogo dalla vicenda giudiziaria trattata da Cass. pen., sez. VI, n. 26754/2021.

Con decreto del 05/11/2020 la Corte di appello di Messina confermava i due distinti provvedimenti del 21 maggio 2020 con i quali il Tribunale di Messina aveva rigettato le richieste di controllo giudiziario avanzate ai sensi dell'art. 34-bis, comma 6 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, rispettivamente da M.S. e C.L.G., titolari delle imprese agricole a loro intestate.

Rilevava la Corte territoriale come non vi fossero le condizioni per accogliere i ricorsi in appello proposti dalla M. e dalla C., in quanto le emergenze procedimentali avevano dimostrato che le stesse erano mere "prestanomi", rispettivamente la prima del padre M.V. e la seconda del marito G.C., che erano i reali titolari delle due imprese agricole destinatarie di misure interdittive antimafia adottate in via amministrativa dal prefetto di Messina; e come, pertanto, le loro istanze non potessero trovare accoglimento posto che il rischio di infiltrazioni mafiose non poteva dirsi occasionale.

Avverso tale decreto hanno presentato ricorso tanto la M. quanto la C. le quali, tra l'altro, hanno chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell'art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 159/2011, nella parte in cui non prevede, per i destinatari di interdittive antimafia, la possibilità per il giudice penale di escludere decadenze e divieti nel caso in cui per effetto degli stessi potrebbero venire a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia: ciò a differenza di quanto accade nel caso di applicazione diretta di una misura di prevenzione, situazione con riferimento alla quale l'art. 67, comma 5, d.lgs. 159/2011, riconosce una siffatta possibilità

La Corte di cassazione, però, ha ritenuto irrilevante, rispetto al caso di specie, la questione di legittimità costituzionale prospettata dalle ricorrenti, in quanto avente ad oggetto una asserita ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti destinatari dell'applicazione di misure di prevenzione rispetto a quelli nei cui confronti sia stata emessa una informazione antimafia interdittiva: afferendo, dunque, ad una possibile eventuale diversa modulazione degli effetti di tale seconda misura di natura ammnistrativa, la questione andrebbe posta dinanzi all'autorità giudiziaria amministrativa, competente a sindacare la legittimità di un siffatto provvedimento prefettizio.

Secondo la giurisprudenza amministrativa

E così è effettivamente avvenuto in altra vicenda giudiziaria in cui il T.a.r. Calabria-Reggio Calabria, con ordinanza dell'11 dicembre 2020, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 92 d.lgs. 159/2011, per violazione degli artt. 3, 4 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità per il prefetto di modulare gli effetti interdittivi di cui all'art. 67 d.lgs. 159/2011, analogamente a quanto consentito al giudice ai sensi del co. 5 della medesima disposizione. Ai sensi della norma appena citata, assunta come parametro di comparazione dal giudice rimettente, in ipotesi di applicazione della sorveglianza speciale o di condanna per uno dei reati di cui all'art. 51 comma 3-bis c.p.p., il giudice della prevenzione o il giudice penale possono infatti escludere in tutto o in parte l'operatività dei divieti e delle decadenze di cui al comma 1 del medesimo articolo «nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia».

Anzitutto, il giudice a quo ritiene che «l'impossibilità per il prefetto deputato ad emanare il provvedimento interdittivo di esercitare i poteri previsti nel caso di adozione delle misure di prevenzione dall'art. 67, comma 5 del d.lgs. n. 159/2011, possa concretizzare un'irragionevole violazione del principio di uguaglianza sostanziale» di cui all'art. 3 Cost. Posto, infatti, che l'informazione antimafia condivide con le misure di prevenzione la medesima natura preventiva e le medesime conseguenze decadenziali di cui all'art. 67 d.lgs. 159/2011, «la circostanza che il legislatore non abbia previsto la possibilità che l'autorità amministrativa preposta ad adottare il provvedimento interdittivo valuti l'incidenza di esso sui mezzi di sostentamento per l'interessato e per la sua famiglia, sembrerebbe concretizzare un'irragionevole disparità di trattamento».

A sostegno di tale affermazione il giudice rimettente rammenta come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 57/2020, si sia già pronunciata incidentalmente sulla questione, auspicando «una rimeditazione da parte del legislatore». Né, sempre secondo il T.a.r. di Reggio Calabria, eliderebbero i denunciati profili di incostituzionalità il carattere temporaneo dell'interdittiva – la cui durata, fissata in un massimo di dodici mesi, sarebbe «ampiamente sufficiente a pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa» – o la possibilità di accedere al controllo giudiziario “volontario” di cui all'art. 34-bis comma 6 d.lgs. 159/2011 – la cui operatività è in ogni caso subordinata all'impugnazione dell'informativa antimafia e a una valutazione discrezionale dell'autorità giudiziaria –.

Inoltre, il giudice amministrativo dubita della costituzionalità dell'art. 92 cod. antimafia anche rispetto all'art. 4 Cost. Nel rilevare, infatti, come gli effetti derivanti dall'adozione di un'informazione interdittiva incidano «in maniera pervasiva sull'attività svolta dai soggetti che ne sono colpiti, inibiti non solo ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione ma anche ad attività private, sottoposte a regime autorizzatorio», il giudice a quo sostiene che la mancata previsione della possibilità di modulare gli effetti interdittivi in rapporto alle esigenze di sostentamento del destinatario e della sua famiglia costituisca una compressione del diritto al lavoro incompatibile con il dettato costituzionale

Infine, il giudice rimettente rileva anche una possibile violazione dell'art. 24 Cost., stante la mancanza di un vero e proprio contraddittorio con l'autorità prefettizia in merito alle conseguenze potenzialmente pregiudizievoli al sostentamento del destinatario dell'informativa antimafia e della sua famiglia.

Secondo Corte costituzionale 180/2022

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dal giudice rimettente di Reggio Calabria: la Corte, nel rilevare che il nucleo centrale delle censure formulate dal giudice a quo ruota intorno all'asserita violazione dell'art. 3 Cost., reputa non implausibile «il confronto che il giudice rimettente propone tra la differente disciplina dei poteri attribuiti al giudice delle misure di prevenzione, e quelli conferiti al prefetto nell'ambito dell'informazione antimafia».

La Corte, infatti, pur riconoscendo le evidenti differenze intercorrenti tra misure di prevenzione e documentazione antimafia, sostiene che «[t]ali elementi di differenziazione non possono tuttavia considerarsi a tal punto significativi da richiedere necessariamente un diverso regime giuridico quanto ad una esigenza di primario rilievo, quale è, nell'un caso e nell'altro, la garanzia di sostentamento del soggetto colpito dall'una e dall'altra misura, e dalla sua famiglia».

Secondo il Giudice delle leggi la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e l'informazione antimafia condividono due aspetti essenziali: da un lato, infatti, si è in presenza di misure anticipatorie in funzione di difesa della legalità; dall'altro lato, a entrambi gli istituti conseguono gli effetti interdittivi di cui all'art. 67 d.lgs. 159/2011. A fronte di tali evidenti punti di contatto, tuttavia, «solo nei confronti del soggetto attinto da misura di prevenzione e non in riferimento a quello colpito da interdittiva gli interessi di rilievo pubblicistico in tal modo perseguiti sono destinati a cedere il passo all'insopprimibile esigenza di non mettere a rischio la possibilità del soggetto di sostentare sé stesso e la propria famiglia».

Ecco che, allora, «proprio nell'ambito di un procedimento finalizzato al rilascio dell'informazione interdittiva – fondato sulla rilevazione di elementi di pericolo non necessariamente già passati al vaglio della magistratura, e relativo ad attività economiche operanti spesso in un'area contigua, o addirittura solo potenzialmente contigua, alla criminalità organizzata – il legislatore dovrebbe, a fortiori, consentire la valutazione dell'effetto prodotto dalle interdizioni sul sostentamento dei soggetti interessati».

Per la Corte, «non è dubbio che l'ordinanza di rimessione sottolinei correttamente l'esistenza di una ingiustificata disparità di trattamento, che necessita di un rimedio».

Tuttavia, il Giudice delle leggi ritiene di non poter accogliere la questione sollevata dal giudice rimettente, in quanto l'intervento necessario a sanare la rilevata incostituzionalità si sostanzierebbe in una revisione dell'intera disciplina dell'informazione antimafia e implicherebbe scelte discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore.

In primo luogo, l'accoglimento delle doglianze del giudice a quo «avrebbe l'effetto di attribuire all'autorità prefettizia, nell'ambito del procedimento che conduce al rilascio dell'informazione antimafia, un potere valutativo (…) che attualmente il codice antimafia affida, invece, all'apprezzamento dell'autorità giudiziaria, nel contesto del procedimento e delle garanzie proprie di un giudizio». Si tratterebbe, quindi, non solo «di estendere la disciplina derogatoria in questione dal settore delle misure di prevenzione a quello dell'informazione antimafia, ma, altresì, di attribuirne l'applicazione ad un'autorità diversa, trasferendola dall'autorità giudiziaria a quella amministrativa».

In secondo luogo, i giudici costituzionali evidenziano come gli effetti interdittivi di cui all'art. 67 cod. antimafia risultino particolarmente afflittivi e potenzialmente pregiudizievoli al sostentamento del destinatario e della sua famiglia nei casi in cui, come quello sottoposto all'attenzione del giudice a quo, vi sia una «sostanziale sovrapposizione fra persona e attività economica»; nei casi in cui, cioè, l'informazione antimafia interdittiva colpisca un'impresa individuale. Proprio in ragione della specificità della situazione di fatto sottesa al giudizio costituzionale, «[d]ovrebbe invero essere frutto di scelta discrezionale, come tale anch'essa spettante al legislatore, riservare, nell'ambito dell'informazione interdittiva, alla sola peculiare fattispecie dell'impresa individuale l'applicabilità di una deroga quale quella prevista dall'art. 67, comma 5, cod. antimafia, oppure, eventualmente, ampliarne i destinatari, coinvolgendo ulteriori soggetti economici (ad esempio, le società di persone, o addirittura anche quelle di capitali), risultando altresì necessario precisare, in tali ultime ipotesi, quale o quali soggetti, collegati all'impresa, dovrebbero essere oggetto di considerazione».

In terzo luogo, la Corte rileva che, mentre la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza si compone di un contenuto tipico (le prescrizioni di cui all'art. 8 d.lgs. 159/2011), cui si aggiungono «in via accessoria» le interdizioni di cui all'art. 67 d.lgs. 159/2011, l'informazione antimafia interdittiva esaurisce «i propri effetti pregiudizievoli proprio nei divieti e nelle decadenze di ordine economico previste dal medesimo articolo, sicché l'eventuale inibizione in toto della loro applicazione, sia pur in nome di fondamentali esigenze quali quelle rappresentate dal giudice a quo, significherebbe privarle di oggetto e, perciò, di qualunque utilità, frustrando gli obbiettivi cui esse mirano». Per scongiurare un simile paradosso, osserva la Corte, sarebbe necessario modulare diversamente anche i contenuti dell'art. 67 d.lgs. 159/2011: il che, però, «insieme al richiesto trasferimento del potere valutativo in merito dal giudice al prefetto, accentua ulteriormente il carattere manipolativo della pronuncia prospettata dal rimettente, che, anche da questo punto di vista, chiama in causa scelte spettanti alla discrezionalità legislativa».

In ultimo, il Giudice delle leggi ritiene che appartenga «allo stesso modo alla discrezionalità legislativa decidere se e come utilizzare allo scopo invocato dal giudice a quo, innovandoli ulteriormente, alcuni utili strumenti, quali il controllo giudiziario o le misure amministrative di prevenzione collaborativa (…), al fine di meglio contemperare l'interesse pubblico alla sicurezza e la generale libertà del mercato, da una parte, e il diritto della persona a veder garantiti i propri mezzi di sostentamento, dall'altra: inserendo esplicitamente, tra le valutazioni che tali misure consentono, la possibilità di decidere selettive deroghe agli effetti interdittivi e alle decadenze di cui all'art. 67 d.lgs. 159/2011, proprio in vista di assicurare alle persone coinvolte i necessari mezzi di sostentamento economico».

Per i motivi appena sopra riassunti la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità, evidenziando, al contempo, che «deve trovare soddisfazione in tempi rapidi la necessità di accordare tutela alle esigenze di sostentamento dei soggetti che subiscono, insieme alle loro famiglie, a causa delle inibizioni all'attività economica, gli effetti dell'informazione interdittiva».

E, a scanso di equivoci, il Giudice delle leggi – dopo aver richiamato il proprio precedente del 2020 nel quale, proprio con riferimento alla questione controversa oggetto della sentenza annotata, era stata invocata «una rimeditazione da parte del legislatore» – avverte che, «in considerazione del rilievo dei diritti costituzionali interessati dalle odierne questioni, (…) un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile» e indurrebbe la Corte, «ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

In conclusione

Non è certo la prima volta che il giudice delle leggi viene a sottolineare i profili di possibile attrito rispetto ai diritti costituzionali che discendono da una normativa antimafia introdotta in via emergenziale a fronte di eventi criminali eccezionali.

In questo caso, anche se può apparire una contraddizione in termini immaginare il “mafioso” come indigente, in realtà la disamina giurisprudenziale sopra esposta dimostra la frequente ricorrenza di tale condizione.

Già in altro contributo su questa Rivista, dove era analizzato il tema del congelamento dei beni nei confronti dei cd. oligarchi russi (Brizzi, 2022), si era evidenziato la sussistenza di una dettagliata previsione, all'interno della Decisione 2014/119/PESC e del Reg. (UE) n. 208/2014, di un meccanismo idoneo alla salvaguardia delle esigenze fondamentali di vita attraverso l'autorizzazione delle autorità competenti allo svincolo o alla messa a disposizione di taluni fondi o risorse, previo accertamento e verifica dei presupposti. In quel contributo si evidenziava una impostazione che, a differenza di quella tipica del sistema italiano (che richiede l'attivazione della parte interessata per la giustificazione delle richieste di esclusione di taluni beni o “risorse” dalla espropriazione), riconosce ab origine l'illegittimità della “confisca generale”, stabilendo un sistema orientato alla tutela dei diritti fondamentali della persona (diritto ad un ordinario “potere di spesa”, diritto allo scorporo delle risorse necessarie alla gestione dei fondi congelati, diritto alla difesa legale).

Non possono che ribadirsi in questa sede quelle considerazioni: se addirittura per gli oligarchi russi, le cui ricchezze non possono certo essere descritte in termini di presunzione…, è stato posto un freno alla “confisca generale”, non si comprende perché analogo freno non possa essere posto non solo all'azione ablativa, ma anche alle ulteriori conseguenze pregiudizievoli che possono derivare all'interessato da interventi legislativi che paiono pensati per realtà criminali che ormai paiono alquanto distanti dalla concreta manifestazione fenomenica che può venire all'attenzione dell'Autorità giudiziaria.

Del tutto comprensibile sotto tale profilo il monito effettuato dalla Corte costituzionale al Legislatore perché intervenga a porre rimedio a quello che viene definito intollerabile protrarsi di “inerzia legislativa”.

Tale autorevole monito risulta ancor più giustificato alla luce di quanto può leggersi nell'ultima Relazione sui beni sequestrati o confiscati: Risultano per contro in aumento, sempre in termini percentuali, i beni sottoposti a confisca e, ancor più, quelli per i quali la proposta risulti rigettata o che, in ogni caso, siano stati dissequestrati a seguito di revoca o annullamento del provvedimento ablatori (Relazione giugno 2022). Effettivamente i beni dissequestrati o con proposta rigettata sono passati da 83.347 al 30.06.2021 a 91.638 al 30.06.2022. Già solo questo dato sarebbe di per sé sufficiente per indurre il Legislatore ad un ripensamento nel senso auspicato dalla Corte costituzionale che sappia tener conto degli impatti pregiudizievoli sulle condizioni economiche dell'interessato che possono discendere da una proposta di applicazione di misura di prevenzione, magari successivamente rigettata.

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