Cooperazione nei delitti colposi: l'erronea somministrazione di un farmaco

Vittorio Nizza
22 Agosto 2023

La Corte di cassazione si è occupata della possibilità di fondare un nesso causale tra l'azione imperita e l'evento, sulla base del principio di affidamento e della posizione di garanzia ricoperta dai singoli medici.
Massima

Correttamente è ravvisata la responsabilità del medico primario di un reparto ospedaliero, a titolo di cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.), unitamente ai sanitari che avevano avuto in cura una paziente e ne avevano colposamente provocato il decesso, laddove risulti che questi abbia contribuito, con la propria condotta cooperativa, all'aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento, non avendo ottemperato al proprio dovere di controllare il decorso della propria paziente, ospitata in un reparto non particolarmente attrezzato e di fatto affidata a giovani sanitari del tutto inesperti, la cui insufficiente preparazione specifica avrebbe invece dovuto essere ben conosciuta e vagliata proprio dal loro titolare e docente.

Il caso

La Corte di cassazione, con la sentenza in oggetto, viene chiamata a pronunciarsi in merito ad una contestazione, mossa nei confronti di tre medici e un'infermiera, perché, in cooperazione tra loro, avevano cagionato per colpa la morte di una paziente, affetta da linfoma di Hodgkin.

Nello specifico, nel corso del trattamento chemioterapico, veniva somministrata una dose del farmaco Vinbalstina pari a 90 mg, a fronte di un dosaggio previsto di 9 mg., causando così una condizione di tossicità sistemica, con conseguente decesso per arresto cardiaco.

Anche a seguito di un primo annullamento con rinvio operato dalla Sezione Quarta della Cassazione, la Corte territoriale condannava i quattro sanitari e assolveva l'infermiera.

Venivano così proposti separati ricorsi per cassazione.

La questione

La questione rimessa alla Corte di cassazione riguarda la possibilità di fondare un nesso causale tra l'azione imperita e l'evento, sulla base del principio di affidamento e della posizione di garanzia ricoperta dai singoli medici.

Le soluzioni giuridiche

I ricorsi presentanti dal Procuratore Generale e dalle parti civili muovono da una presunta sussistenza di un profilo di responsabilità colposa dell'infermiera, la quale, preso atto dell'abnorme dosaggio del farmaco, avrebbe avuto l'obbligo di esternare i propri dubbi circa la correttezza della prescrizione, rivolgendosi a un medico strutturato e non alla specializzanda in oncologia, atteso, tra l'altro, che la stessa aveva modificato la prescrizione originaria nella sua modalità di somministrazione (ossia nell'infusione non più tramite siringa, ma tramite sacca).

Per tale motivo, in entrambi i ricorsi, viene operato un espresso richiamo alla Raccomandazione n.7 del Ministero della Salute del marzo 2008, che dava conto della necessità dell'interlocuzione solamente con il medico strutturato, ovvero con il sanitario abilitato a prescrivere farmaci.

In proposito la sentenza di annullamento della Cassazione aveva osservato, in relazione alla prima pronuncia della Corte territoriale, che «la decisione, invero, appare sul punto del tutto carente, risolvendosi nella considerazione secondo la quale l'infermiera “avrebbe potuto e dovuto” chiedere un consulto a un medico strutturato del reparto per chiarire la ragione di un simile quantitativo di quel farmaco che appariva oggettivamente esorbitante da allestire».

Ebbene si tratta di una affermazione che non rimanda ad alcun accertamento sulla sussistenza di un simile obbligo come derivante da linee guida o buone prassi – la cui esistenza deve trovare positiva dimostrazione in giudizio – proprie della professione infermieristica, relative alla preparazione e somministrazione dei farmaci nei casi di necessità di verifica dei dosaggi e delle modalità di allestimento.

L'esistenza del dovere di riferirsi esclusivamente a medici strutturati non viene nemmeno ricavata da normative interne all'azienda sanitaria o al reparto, anche sotto il mero profilo dell'instaurarsi di una prassi conosciuta o conoscibile dal personale ivi operante.

Seppure viene riconosciuto alla specializzanda il fatto di essere considerata “il braccio destro” del primario – sicché visitava e seguiva i pazienti, sottoscrivendo le cartelle cliniche – non veniva operata una misurazione con siffatta descrizione dei compiti e della veste effettivamente riconosciuta all'oncologa non strutturata, fermandosi tuttavia alla semplice considerazione che ella non aveva un incarico formale e che, pertanto, non poteva essere un valido interlocutore nel confronto sulla posologia del farmaco.

Nel quadro organizzativo del reparto, la suddetta specializzanda è, infatti, una figura assai significativa, rispetto alla quale manca dunque il doveroso approfondimento sulla natura dei rapporti in concreto tenuti con il personale medico c.d. strutturato, ma soprattutto con il personale infermieristico, stante l'importanza riconosciuto dal primario stesso. È chiaro che la ricerca della regola cautelare e relativa all'obbligo di identificare l'interlocutore con il quale avviare il confronto fra infermieri e medico deve essere calato in siffatto scenario, individuando ex ante la modalità operativa da seguire, ricercandola in norme procedurali note o conoscibili dall'agente modello quali linee guida, buone prassi, protocolli, raccomandazioni e normative interne o consuetudinarie.

La Corte territoriale, al contrario, giunge a costruire la regola cautelare di condotta da applicare al caso concreto formulando un ragionamento ex post, con cui rintraccia l'obbligo, che assume violato, ricavandolo dal prodursi del fatto dannoso, finendo per confondere la rimproverabilità della condotta, valutabile solo ex ante, con la sua efficacia causale, giudicabile solo ex post.

In sede di rinvio, ove il quesito devoluto riguardava proprio la verifica in concreto della condotta ascritta all'imputata, tale argomentazione veniva espressamente censurata dalla Quarta sezione della Cassazione.

La posizione della professionista, già specializzata in oncologia e specializzanda in patologia medica, era tale che l'avvenuta approfondita e sollecitata consultazione della stessa sanitaria, medico riconosciuto in una posizione inferiore al solo primario, doveva apparire del tutto risolutiva e tranquillizzante per l'infermiera.

Anche all'esito della verifica del contenuto della Raccomandazione ministeriale - dal momento che non contiene un'indicazione univoca della qualifica formale del medico al quale il personale infermieristico deve rivolgersi nei casi indicati - deve essere interpretata anche alla luce del contesto nel quale lavorava l'infermiera, e in particolare della specifica posizione che occupava la specializzanda; posizione che è stata ampiamente documentata tanto dal giudice di merito quanto dalla Cassazione in sede di rinvio. Pertanto la Corte di merito ha dato adeguatamente conto di come la dott.ssa fosse un punto di riferimento all'interno del reparto tanto da essere considerata “il braccio destro” del primario del reparto stesso. Ebbene, l'area del rimprovero penalmente rilevante non può estendersi all'infermiera, con il conseguente rigetto dei ricorsi aventi ad oggetto l'annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta affermazione di responsabilità della donna.

Per quanto riguarda il ricorso presentato dalla specializzanda stessa, riguardante l'applicazione della pena accessoria, deve ritenersi fondato. La norma di cui all'art. 33 c.p. prevede infatti che, in caso di delitto colposo, non si applicano le disposizioni di cui all'art. 29 c.p. e del secondo capoverso dell'art. 32 c.p., mentre le previsioni di cui all'art. 31 c.p. non trovano spazio nel caso di condanna per delitto colposo, se la pena inflitta è inferiore a tre anni di reclusione, o se è inflitta soltanto una pena pecuniaria. Nella fattispecie, l'imputata ha subito una condanna complessiva di anni due mesi tre di reclusione per i reati ascrittile, pertanto la misura interdittiva dell'interdizione dalla professione medica per due anni, non può essere applicata. Di conseguenza la sentenza è stata annullata senza rinvio limitatamente a detta sanzione accessoria, che va pertanto eliminata.

Per quanto riguarda la posizione dell'autore dell'errata trascrizione della dose del farmaco da somministrare alla paziente, nel ricorso da questo presentato viene in rilievo come la disorganizzazione ospedaliera, coincidente con la condizione di mancanza di governo effettivo del reparto – da cui peraltro secondo la sentenza era dipesa anche la prassi invalsa di predisporre le prescrizioni con la sola firma dello specializzando, senza controfirma di un medico strutturato o del tutor – viene presa il considerazione solo nella determinazione della sanzione senza far cenno, e, quindi, senza considerarne il peso nella valutazione della condotta colposa dei medici coinvolti. Ebbene, è chiaro come tutti questi siano elementi incidenti sul grado di rimproverabilità della condotta, e, per tale motivo la Corte d'Appello aveva provveduto a una generale riduzione del trattamento sanzionatorio.

Ciò complessivamente posto non può, in ogni caso, non essere in primo luogo osservato che il medico specializzando è titolare di una posizione di garanzia in relazione alle attività personalmente compiute nell'osservanza delle direttive e sotto il controllo del medico tutore, che deve verificarne i risultati, fermo restando che la sua responsabilità dovrà in concreto essere valutata in rapporto anche allo stadio nel quale al momento del fatto si trovava l'iter formativo - con la precisazione che il medico specializzando deve rifiutare i compiti che non ritiene in grado di compiere, poiché in caso contrario se ne assume la responsabilità a titolo di cosiddetta colpa per assunzione - (Cass. pen., sez. IV, n. 6215/2009 Pappadà e altri, Rv. 246419).

La Corte di legittimità aveva già infatti osservato che la sentenza impugnata, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non confonde imperizia e negligenza ma considera che l'errore di trascrizione da parte dello specializzando costituisca il sintomo evidente della grave imperizia del medesimo, dimostratosi privo di minime cognizioni in materia di cura del tumore liquido, che, laddove possedute, avrebbero impedito un siffatto grossolano sbaglio nella ricopiatura, dovuto non tanto alla distrazione, ma all'incontro delle modalità di cura di quel tipo di patologia, tanto che, a dimostrazione di ciò depone anche la compilazione, sempre da parte dello stesso, del consenso informato sottoposto alla paziente, ove lo specializzando aveva riportato erroneamente persino l'acronimo della terapia (ABVT anziché ABVD).

La misura dell'imperizia come grave viene infatti ponderata dalla Corte sul concetto di” preparazione ed adeguatezza” del medico, la cui scarsa consistenza ha dato l'avvio alla catena di errori che hanno condotto alla morte della persona offesa. Catena di errori che in ogni caso non era stata tale da interrompere il nesso di causalità tra la condotta dello specializzando e l'evento.

Per quanto riguarda invece la posizione ricoperta dal primario, va innanzitutto ricordato che al ricorrente non è stata ascritta alcuna violazione circa la correttezza o meno del trattamento terapeutico prevista per la paziente. Al contrario, la sentenza ha dato sostanzialmente per scontata la circostanza che il trattamento da lui prescritto in qualità di medico curante della paziente, fosse corretto.

La Corte territoriale aveva invece ricordato che all'imputato era stato contestata una cooperazione colposa nel decesso della signora.

A tal proposito la giurisprudenza stabilisce infatti che in base alla quale sussiste la cooperazione nel delitto colposo, ex art. 113 c.p., quando il coinvolgimento integrato da più soggetti sia imposto dalla legge, ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischo, o, quantomeno sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli (Cass. pen., sez. IV n. 22214/2019, Scidone, RV. 276685).

La Corte si secondo grado, stante la difficile organizzazione amministrativa presente nel reparto ospedaliero, non ha illogicamente escluso che la sequela di errori che aveva condotto alla morte della signora fosse dovuta ad eventi imprevedibili ed eccezionali, essendo invece figlia dell'approssimativa gestione interna, nonché, soprattutto e in coerente successione logica, alla ben scarsa conoscenza tecnica dei medici che operavano, al di fuori e al di là dei controlli normativamente previsti e incombenti in larga misura sull'odierno ricorrente.

Il ricorrente ha invero sostenuto la non censurabilità del proprio intervento sanitario e la riconducibilità dell'errore principalmente alle condotte della dottoressa specializzanda (che non aveva colto l'erroneità della prescrizione), del secondo specializzando (che di detta prescrizione era stato in qualche modo l'autore) e dell'infermiera (che non aveva interpellato il primario prima di dare corso alla somministrazione rivelatasi mortale). Al riguardo, peraltro, va osservato che, in tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, non può invocare il principio di affidamento il sanitario che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché, allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (Cass. pen., sez. IV, n. 24895/2021, Sonaglioni, Rv. 281487; cfr. altresì, ad es. Cass. pen., sez. IV, n. 692/2013, Russo e altro, Rv. 258127).

Alla stregua di tali considerazioni, la sentenza impugnata ha, contrariamente ai rilievi del ricorrente, correttamente ascritto al primario il riconosciuto profilo di responsabilità proprio in quanto sarebbe stato tenuto ad un controllo comunque severo del decorso della sua paziente, ospitata in un reparto non particolarmente attrezzato e in fatto affidata a giovani sanitari del tutto inesperti. L'imputato aveva così ignorato la minore preparazione del personale operante nel proprio reparto in relazione al particolare tumore della paziente, decidendo ugualmente di curare la paziente in tale reparto, stante una circolare dal Primariato che imponeva di non prendere in carico pazienti con patologie paragonabili a quella della vittima, ed omettendo peraltro di esperire i dovuti controlli; controlli che, alla luce delle circostanze appena esposte, avrebbero dovuto essere più pregnanti.

Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Osservazioni

La Cassazione nel caso di specie viene chiamata a pronunciarsi su una vicenda peculiare che fonda la responsabilità di quattro sanitari i quali, in cooperazione colposa tra di loro, avevano cagionato la morte di una paziente.

La posizione meritevole di una riflessione è quella del medico primario, il quale, in qualità di medico in posizione apicale all'interno del reparto ospedaliero, aveva il compito di supervisionare l'operato degli specializzandi.

Al suddetto medico era stato contestato, sotto il profilo della cooperazione colposa nel decesso della paziente:

a) di avere contravvenuto ai propri doveri di controllo professionale sull'attività dei due medici specializzandi, dei quali era responsabile e garante giuridicamente in quanto loro tutor;

b) di avere disatteso il contenuto prescrittivo della circolare organizzativa interna, emanata dall'allora Primario del reparto, quanto alla devoluzione al reparto di ematologia della cura dei tumori, come il linfoma di Hodgkin, di cui soffriva la paziente;

c) di avere consapevolmente tollerato che i ricordati medici specializzandi abusassero scientemente e reiteratamente delle proprie prerogative, esorbitando dalle stesse e comportandosi come sanitari già del tutto formati, capaci e responsabili;

d) di avere tollerato ciò, con ulteriore aggravio di responsabilità nella violazione cautelare, soprattutto nel caso della paziente, affetta da una forma tumorale non usuale, e comunque da non trattarsi in quella struttura

e) di avere operato nel reparto di cui aveva la responsabilità di fatto con criteri organizzativi e gestionali, amministrativi e sanitari, del tutto inadeguati, siccome comprovato dall'assoluta carenza di controlli sulla attività dei medici lui affidati, circostanza che avrebbe poi avuto una ricaduta eziologica nella morte della signora;

f) di non essersi curato, infine, della corretta tenuta e del controllo costante e della consultazione dei dati della cartella clinica, in tal modo non avvedendosi del macroscopico errore di trascrizione, e non ponendo in essere quell'attività di controllo e di risoluzione sicuramente salvifica.

La sentenza impugnata ha, con estrema chiarezza espositiva, dato conto della difficile situazione organizzativa presente nel reparto ospedaliero che rendevano da un lato malagevole la vita nel luogo di lavoro e, dall'altro, pressoché impossibile una corretta organizzazione interna nel rispetto dei ruoli professionali dei singoli sanitari, sostanzialmente privi di controllo e di guida da parte del ricorrente, in ogni caso tutor dei due specializzandi.

In questo senso la Corte d'Appello ha non illogicamente escluso che la sequela di errori che aveva condotto alla morte della signora fosse dovuta ad eventi imprevedibili ed eccezionali, essendo invece figlia dell'approssimativa gestione interna nonché, soprattutto e in coerente successione logica, della ben scarsa conoscenza tecnica dei medici che colà operavano, al di fuori e al di là dei controlli normativamente previsti, e incombenti in larga misura sull'odierno ricorrente.

Egli aveva, in primo luogo il compito della divisione del lavoro all'interno del reparto, ovvero doveva affidare ai collaboratori, suoi subordinati, i colpiti e le mansioni che essi avrebbero dovuto svolgere sotto la sua supervisione.

Doveva, innanzitutto selezionare i colpiti che riteneva di poter delegare e, successivamente, avrebbe dovuto scegliere, fra i suoi collaboratori, quelli che ritenga in grado di svolgere tali compiti adeguatamente. Solo in tal modo, se dal comportamento del delegato fosse derivato un evento lesivo della salute della paziente, nel caso specifico il decesso, al superiore sarebbe potuto essere mosso un addebito di colpa per aver errato nella scelta della persona affidataria dell'incarico.

Giova infatti evidenziare che il medico in posizione apicale ha compiti di verifica sulla prestazione dei servizi di diagnosi e cura, di verifica del rispetto da parte dei suoi collaboratori di tutte le direttive da lui impartite.

Poiché il primario non aveva adempiuto a tali doveri, non controllando la sua paziente, l'operato e l'affidabilità dei suoi collaboratori, forniva un contributo causale giuridicamente apprezzabile in ordine alla realizzazione dell'evento morte, consentendo così alla Corte d'Appello di ravvisare correttamente la sua responsabilità a titolo di cooperazione nel delitto colposo unitamente ai sanitari suoi subordinati.

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