Qual è il profitto della condotta di riciclaggio operata da un istituto di credito?

Ciro Santoriello
30 Agosto 2023

Sul tema della determinazione del profitto confiscabile nei confronti di società la Cassazione ha ormai trovato una soluzione definitiva al problema.
Massima

Nella definizione di profitti ricavati a seguito di condotte illecite assunte nell'ambito di un'attività imprenditoriale, occorre distinguere l'ipotesi in cui la legge qualifichi come illecito l'intero rapporto contrattuale (c.d. reato contratto), nel qual caso l'intero profitto andrà considerato indebito e sottoponibile a confisca, mentre se invece, ad assumere rilevanza penale è la semplice fase di formazione della volontà contrattuale o di esecuzione dello stesso (c.d. reato in contratto), allora sarà possibile individuare degli aspetti leciti del rapporto, con la conseguenza che il corrispondente profitto potrà non essere direttamente ricollegabile al reato e quindi non potrà essere confiscato. (Fattispecie in tema di reato di riciclaggio commessi dai vertici di un istituto di credito utilizzando le strutture ed i conti della banca: la Cassazione ha affermato che tale condotta non presenta alcun profilo di liceità, in quanto interamente risolta all'occultamento del denaro nel portafoglio della banca, con conseguente confisca di somme di denaro di valore corrispondente all'entità delle somme riciclate).

Il caso

Nei confronti di un istituto di credito era disposto il sequestro preventivo - in funzione di confisca diretta o per equivalente - di una significativa della somma per oltre €. 22 mln in relazione al reato di riciclaggio, quale profitto di reato di cui all'art. 648-bis c.p. in combinazione con gli artt. 6 e 25-octies, decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

In sede di ricorso per cassazione, si lamentava la non corretta individuazione del profitto del reato suscettibile di confisca, nonché la carenza e radicale illogicità della motivazione sul punto. Secondo il ricorrente, mentre l'ordinanza impugnata aveva ritenuto confiscabile una somma di denaro pari all'intero importo della somma che si assumeva riciclata, il profitto andava circoscritto al valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito, dovendosi tenere distinti la somma o il bene oggetto di riciclaggio e il vantaggio coincidente con il profitto, il prodotto o il prezzo che l'autore del riciclaggio ha conseguito, in conformità con i principi indicati dalla maggioritaria giurisprudenza di legittimità.

In secondo luogo, si lamentava il mancato riconoscimento dell'intervenuta prescrizione delle sanzioni, siccome prevista dall'art. 22 d.lgs. n. 231/2001. Si sosteneva, infatti, che il tribunale avrebbe erroneamente escluso la maturazione della prescrizione delle sanzioni ritenendo che i fatti di riciclaggio fossero da considerarsi in maniera unitaria, mentre in realtà ogni fatto andava considerato in maniera autonoma e la prescrizione verificatasi per ciascuno di essi, singolarmente e separatamente considerati.

La questione

La decisione più rilevante sul tema della determinazione del profitto confiscabile nei confronti di società è rappresentata dalla sentenza delle sezioni unite, 27 marzo 2008, n. 26654 (nello stesso senso, in seguito Cass. pen., sez. VI, 17 giugno 2010, n. 35748; Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., sez. VI, 14 dicembre 2017), secondo cui «l'istituto della confisca previsto dal decreto legislativo n. 231 del 2001 [...] si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare», potendosi enucleare tre distinte figure di confisca: quella di cui all'art. 19, qualificata come sanzione principale; quella dell'art. 6, comma 5, strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato-presupposto; quella dell'art. 15, comma 4, avente natura di sanzione sostitutiva.

Nell'ipotesi di confisca derivante dalla gestione commissariale disciplinata dall'art. 15 citato il profitto s'identifica con l'utile netto «essendo collegat[o] ad un'attività lecita che viene proseguita - sotto il controllo del giudice - da un commissario giudiziale nell'interesse della collettività [...] e non può che avere ad oggetto, proprio per il venire meno di ogni nesso causale con l'illecito, la grandezza contabile residuale». Per le rimanenti ipotesi di confisca e, in particolare, per quella disciplinata dall'art. 19, si è affermato che «il profitto del reato va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l'utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico», in quanto, nell'assolvere una funzione di deterrenza, la confisca risponde ad esigenze di giustizia e nel contempo di prevenzione generale e speciale, non potendosi ammettere che il crimine possa rappresentare un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto sul bene e che il reo possa rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato (in dottrina, Sticchi, Strumenti di contrasto alla criminalità d'impresa e nozione di profitto confiscabile. Le indicazioni delle Sezioni Unite nel caso Impregilo, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 4, 108; Pistorelli, Il profitto oggetto di confisca ex art. 19 d.lgs. 231/2001 nell'interpretazione delle Sezioni unite della Cassazione, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2008, 4, 150. Epidendio, Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti s.a. ed altri, in Dir. Pen. Proc., 2008, 1267; Pelissero, La responsabilità degli enti, in Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano 2007, 898; Fornari, La confisca del profitto nei confronti dell'ente responsabile di corruzione: profili problematici, in Riv. Trim. dir. pen. ec., 2005, 83; Compagna, L'interpretazione della nozione nozione di profitto nella confisca per equivalente, in Dir. Pen. Proc., 2007, 1644; Mucciarelli, Le sanzioni interdittive temporanee nel d.lgs. n. 231/2001, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di Dolcini – Paliero, Milano 2006, III, 2509. In termini più sfumati, discutendosi di quali voci possono concorrere a formare il profitto, con riferimento ai diritti immateriali, il risparmio di spesa ed i diritti di credito, Giavazzi, Commento all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, in AA.VV., Responsabilità “penale” delle persone giuridiche, a cura di Giarda –Mancuso –Spangher –Varraso, Milano 2007, 178; G. Lunghini, Profitto del reato: problematica individuazione delle spese deducibili, in Corr. Mer., 2008, 88; Prete, La confisca – sanzione: un difficile cammino, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2007, 4, 110; Lottini, La nozione di profitto e la confisca per equivalente ex art. 322 ter, in Dir. Pen. Proc., 2008, 1300).

Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione traccia un netto discrimen fra profitto conseguente da un "reato contratto" e profitto derivante da un "reato in contratto". Nel primo caso - in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione - si determina un'immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest'ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità (si immagini la cessione di una dose di stupefacente), con l'effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca; nel secondo caso - in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale - è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c. (come caso in cui l'illecito si inserisca nella fase della negoziazione e stipula di un contratto sinallagmatico, cui l'ente abbia poi dato regolare e lecita esecuzione, come nei casi di truffa in danno dello Stato o di corruzione, fonte di responsabilità per l'ente rispettivamente ex artt. 24 e 25 stesso decreto), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Le Sezioni Unite hanno quindi chiarito come, ferma l'assoggettabilità a confisca dell'intero vantaggio patrimoniale conseguito dai "reati contratto", nelle ipotesi di "reato in contratto" è necessario distinguere il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) dal corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell'ambito di un affare che trova la sua genesi nell'illecito (profitto non confiscabile): in particolare, il profitto deve essere "concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente", evidenziando come lo stesso art. 19 impedisca l'assoggettamento a confisca della parte del profitto che può essere restituita al danneggiato.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato giudicato infondato.

Accertato che sui conti accesi presso l'istituto di credito coinvolto erano confluiti e transitati i flussi di denaro provento dei delitti di frode fiscale e di appropriazione indebita, che grazie ai vari passaggi sui conti estero su estero, ivi compresi i conti correnti aperti presso la banca, era stato trasformato, con conseguente occultamento della sua origine illecita, con condotte realizzate dai vertici della banca ed a vantaggio di quest'ultima, la Cassazione ritiene corretta l'individuazione del profitto del reato nell'importo dell'intera somma confluita a fini di riciclaggio nelle casse della banca.

Questa impostazione è in effetti sostenuta in giurisprudenza, in alcune decisioni (Cass. pen., sez. II, 2 marzo 2022, 7503) in cui si afferma che oggetto della confisca deve essere l'intera somma riciclata, anche se non mancano pronunce di segno opposto, secondo le può essere oggetto di confisca soltanto il vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal riciclatore e non l'intera somma riciclata (Cass. pen., sez. II, 18 maggio 2022, n. 19561). L'adesione al primo indirizzo è giustificata richiamando una lontana dalle sezioni unite (Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654) che aveva invitato, per definire la nozione di profitto confiscabile, a considerare il concreto atteggiarsi delle condotte e valutare l'incidenza dei reati contestati nella vita dell'impresa, distinguendo l'ipotesi in cui la società abbia ricavato un profitto da un'attività economica (solo) parzialmente illecita – come nel caso in cui si discuta del profitto ricavato da un accordo corruttivo a seguito del quale l'ente si sia visto assegnare un appalto pubblico e l'ente stesso abbia eseguito la prestazione concordata con la pubblica amministrazione –, nel qual caso la misura reale non deve interessare quella parte di utilità corrispondente a una prestazione regolarmente eseguita e accettata dalla controparte, dall'ipotesi in cui ci si trovi di fronte all'espletamento di un'attività totalmente illecita, nel qual caso va disposto a confisca (ed a sequestro preventivo) tutto quanto direttamente ricollegabile al reato, senza operare alcuna distinzione fra "profitto lordo" e "profitto netto".

Nel caso in esame, secondo la Cassazione non vi erano margini per individuare una qualche prestazione lecita, visto che l'intera operazione era ammantata dalla illiceità, in quanto interamente risolta all'occultamento del denaro nel portafoglio della banca.

In proposito, la decisione in commento osserva come le banche perseguono il proprio arricchimento con la raccolta del denaro poi necessario all'erogazione dei vari servizi offerti al pubblico e, in definitiva, alla sopravvivenza stessa della banca. Tanto vale a evidenziare come il vantaggio economico tratto dalla banca dall'illecito in esame e a questo strettamente pertinente si identifica proprio nell'avere ricevuto e di avere avuto nel proprio portafoglio la disponibilità di quella somma di denaro provento di delitto, per cui si deve concludere nel senso di trovarsi di fronte all'espletamento di un'attività totalmente illecita, tale da legittimare il sequestro preventivo e la confisca dell'intera somma coinvolta nell'operazione di riciclaggio.

Quanto alla natura “unitaria” delle condotte di riciclaggio – dovendosi, invece, secondo la difesa, configurare tante ipotesi di riciclaggio per ognuna delle operazioni di versamento in favore della banca -, la Cassazione ricorda come il delitto di riciclaggio sia un reato a forma libera attuabile anche con modalità frammentarie e progressive per cui, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere (Cass. pen., sez. II, 18 dicembre 2014, n. 52645).

Osservazioni

La sentenza della Cassazione conferma la tesi giurisprudenziale secondo cui l'area del profitto assoggettabile a confisca ha un'ampiezza diversa a seconda della fattispecie costituente reato presupposto. Nel caso in cui l'attività illegale non comporti lo svolgimento di nessuna controprestazione lecita, il profitto confiscabile non potrà che identificarsi con l'intero valore del negozio, in quanto integralmente frutto di un'attività illegale, facendo difetto qualunque costo scorporabile, perché intrinsecamente illecito o comunque concernente attività strumentali e/o correlative rispetto al reato presupposto. Diversamente, nel caso di truffa o di corruzione finalizzata ad ottenere l'aggiudicazione di una commessa ovvero a conseguire, nell'ambito di un rapporto negoziale a prestazioni corrispettive, un corrispettivo più elevato di quello dovuto (ad esempio in sede di remunerazione delle varianti in corso d'opera o di pagamento delle cd. riserve), trattandosi di contratti validi inter partes e solo annullabili, il profitto dovrà essere commisurato alla differenza fra l'intero valore del contratto e l'utilità effettivamente conseguita dalla controparte (Cass. pen., sez. VI, 26 marzo 2009, n. 117897, secondo cui in caso di appalto acquisito a seguito di corruzione, non può definirsi illecito e dunque confiscabile, il profitto conseguente da un'effettiva e corretta esecuzione delle prestazioni svolte in favore della controparte, pur in virtù di un contratto instaurato illegalmente: il profitto confiscabile non va identificato con l'intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall'illecito penale dal corrispettivo conseguito per l'effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della causa remota).

In sostanza, soltanto rispetto alla differenza fra l'intero valore del contratto ed il valore della prestazione effettivamente svolta a vantaggio della controparte è possibile affermare che l'ente abbia tratto un'utilità economicamente valutabile quale frutto immediato e diretto dell'illecito, là dove la seconda voce - cioè il corrispettivo percepito dall'ente in stretta correlazione alla prestazione eseguita - rappresenta un vantaggio economico conseguenza di un'attività lecita e non trova in effetti la sua causa nel reato. Se il profitto si sostanzia nel "beneficio aggiunto di natura patrimoniale" tratto dalla condotta illecita, esso non può che essere pari all'intero prezzo pattuito della commessa, cioè al valore totale fatturato del contratto, al netto del valore della prestazione effettivamente garantita alla controparte, di tal che, in caso di esecuzione solo parziale o in parte non conforme a quanto convenuto o comunque non utile, si dovrà detrarre soltanto il corrispettivo pro quota o comunque stimato equo per la prestazione eseguita.

In conclusione, secondo la Cassazione, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un'ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà, dunque, essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell'illecito (cd. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l'effettivo incremento del patrimonio conseguito dall'agire illegale; dall'altro lato, non potranno essere aggrediti i "vantaggi" eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte, per cui dal prezzo indicato nel contratto (dunque al "lordo") dovranno essere defalcate le somme riscosse dall'ente pari alla "effettiva utilità conseguita dal danneggiato", id est al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico.

È sulla scorta di queste considerazioni che la decisione in commento può non affrontare il tema del contrasto giurisprudenziale in ordine alla definizione del profitto ottenuto da una condotta di riciclaggio, laddove si confrontano due posizioni, una in base alla quale oggetto della confisca deve essere l'intera somma riciclata (Cass. pen., sez. II, 2 marzo 2022, n. 7503), l'altra secondo cui può essere oggetto di confisca soltanto il vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal riciclatore e non l'intera somma riciclata (Cass. pen., sez. II, 18 maggio 2022, n. 19561). Posto che quando un istituto di credito (meglio i vertici dello stesso) pone in essere un'attività di riciclaggio a mezzo delle proprie strutture ed uffici non vi è nessuno spazio per una valutazione di (almeno parziale) liceità di tali attività di ripulitura, nascondimento e reinvestimento di somme provenienti di illecito, sì che deve procedersi a confisca dell'intera somma coinvolta nell'operazione di riciclaggio.

Forse proprio quest'ultimo profilo è quello di maggior interesse nella pronuncia in esame. La Cassazione in maniera netta afferma l'obbligo per gli istituti di credito di sottrarsi a qualsiasi forma di coinvolgimento in vicende di riciclaggio; diversamente, considerato che a mezzo del money laudering la banca ottiene il significativo vantaggio di ricevere e mantenere nel proprio portafoglio la disponibilità di somme di denaro provento di delitto, la stessa va privata della totalità di questa somma.

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