Richiesta di permesso di colloquio con detenuto (art. 18, l. n. 354/1975)InquadramentoCon questo atto i familiari dell'indagato/imputato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere richiedono all'autorità giudiziaria l'autorizzazione a poter avere con il detenuto un colloquio secondo le modalità previste dall'ordinamento penitenziario. Con l'emissione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere l'indagato/imputato vene infatti privato della libertà personale e tradotto in una casa circondariale ove non ha possibilità di uscire né di avere contatti con soggetti non detenuti. Tuttavia, al fine di conciliare le esigenze di tutela della collettività che hanno portato all'emanazione della misura restrittiva con il diritto del detenuto a mantenere rapporti familiari ed affettivi, è prevista dalla l. n. 354/1975 la possibilità di avere colloqui periodici con “i congiunti ed altre persone”, in appositi locali sotto il controllo della polizia penitenziaria. Tale diritto non è indiscriminato ma spetta solo a coloro che lo richiedono all'autorità competente, che fino all'esercizio dell'azione penale è il Pubblico Ministero ed in seguito il giudice che procede. Dopo la sentenza di primo grado provvede il direttore dell'istituto ove il soggetto è detenuto. FormulaALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI.... (OPPURE AL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI DEL TRIBUNALE DI....) RICHIESTA DI PERMESSO DI COLLOQUIO CON DETENUTO Il sottoscritto...., nato a.... il...., codice fiscale...., recapito telefonico.... (casa/ufficio), recapito cellulare (....), email.... @...., residente a...., PREMESSO CHE con ordinanza emessa in data.... il Giudice delle Indagini Preliminari (oppure il Tribunale di.... in composizione monocratica nella persona del) dott./dott.ssa.... ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di...., nato a....; che lo stesso è, in conseguenza della predetta ordinanza, attualmente ristretto nella Casa Circondariale di....; che il detenuto è legato all'istante dal seguente vincolo di parentela (indicare vincolo di parentela o legame di altro tipo), come attesta il documento che si allega; CHIEDE Al Pubblico Ministero (o al Giudice) un permesso di colloquio (oppure permesso permanente per i colloqui) ai sensi dell'art. 18 della l. n. 354/1975. Si allegano i seguenti documenti. 1) documento di identità dell'istante; 2) stato di famiglia; 3)..... Luogo e data.... Firma.... CommentoIl presupposto della richiesta in esame è costituito dalla adozione della misura cautelare della custodia in carcere. Eseguita la misura cautelare e tradotto il destinatario in carcere, questi è infatti soggetto alle restrizioni della libertà personale analiticamente previste dall'ordinamento penitenziario, ed è in questo senso interamente sottoposto al controllo dell'Autorità Giudiziaria che ha emesso la misura. Proprio la possibilità di mantenere un controllo diretto e continuo su ogni attività del detenuto comporta che la custodia cautelare in carcere è l'unica del catalogo del titolo I del libro IV del codice di procedura penale a prescindere dalla collaborazione del destinatario. Tutte le altre misure cautelari consistono invece, in concreto, nella sottoposizione a prescrizioni che il destinatario è tenuto ad osservare, ed il cui adempimento è affidato in parte ad un sistema di controlli esogeno ma di fatto, in larga misura, alla stessa volontà dell'indagato/imputato, motivato dalla circostanza che la scoperta della violazione comporta conseguenze a lui pregiudizievoli. La sola custodia in carcere non contiene alcuna prescrizione utile a garantirne l'osservanza, proprio perché la totale compressione della libertà personale e la “detenzione” della sua persona in mani altrui (i preposti all'istituto penitenziario) impedisce di per sé la mancata osservanza della misura da parte del soggetto passivo dell'ordinanza (fatta eccezione, ovviamente, per il caso di evasione, che a rigor di termini non è la “inosservanza” delle prescrizioni inerenti il carcere ma la fuga dal luogo di contenzione). Naturalmente neanche la restrizione tra le mura del carcere può astrattamente impedire che il soggetto continui ad inquinare le prove o a reiterare delitti della stessa specie di quelli per cui si procede: attraverso i contatti con gli altri detenuti, i familiari o i difensori è possibile comunicare notizie, dare disposizioni, trasmettere all'esterno la propria volontà ed in qualche modo, teoricamente, perpetrare le proprie attività delittuose. Il giudice potrà dunque rafforzare le prescrizioni a tutela delle esigenze cautelare impedendo al detenuto di avere contatti con i propri difensori, i familiari all'esterno del carcere o gli altri detenuti all'interno dello stesso (divieto di colloqui con i familiari e/o con i difensori). Si tratta di misure estremamente invasive ed incidenti in maniera assai importante sulla vita di relazione e sul diritto di difesa del detenuto, soggetto già sottoposto – va ricordato – ad un trattamento estremamente di rigore quale la custodia in carcere in un momento in cui non vi è (ancora) la certezza giuridica che egli abbia commesso un reato. È pertanto ovvio che a tali misure si debba ricorrere con molta parsimonia, e che esse debbano in ogni caso essere contenute temporalmente al minimo indispensabile. In particolare, i colloqui del detenuto con familiari o altri soggetti non detenuti sono disciplinati dall'art. 18 della l. n. 354/1975 (c.d. “ordinamento penitenziario”), che li assoggetta – fino alla sentenza di primo grado – all'autorità giudiziaria, e successivamente al direttore dell'istituto penitenziario. Dunque, per ottenere il permesso di visita dei soggetti sottoposti a misura cautelare i familiari o chi è interessato dovrà rivolgere un'istanza al giudice emittente. Nella prassi di alcuni uffici, soprattutto in passato, alcuni uffici di Procura avevano rivendicato a sé tale competenza, sulla base della considerazione – condivisibile in astratto – che solo il magistrato inquirente aveva la possibilità, anche attraverso l'esame di elementi non confluiti nel fascicolo trasmesso al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare, di verificare se e quanto i colloqui potessero rappresentare un pericolo per le esigenze cautelari (si pensi al caso in cui, ad esempio in tema di procedimenti di criminalità organizzata, sia aperta un'indagine che porti al disvelamento del coinvolgimento di dieci soggetti nell'associazione, ove nel corso delle indagini si decida di richiedere – previo stralcio – la misura cautelare solo per cinque di essi e continuare le indagini per gli altri cinque: il colloquio in carcere tra gli associati detenuti e quelli liberi può effettivamente rappresentare un elemento di pericolo per le indagini in corso). In ogni caso, si aggiungeva, solo il Pubblico Ministero in grado di acquisire attraverso la Polizia Giudiziaria informazioni sui soggetti richiedenti il colloquio e sui rapporti con i detenuti, utili a valutare l'opportunità di concedere o meno l'autorizzazione in esame. Attualmente sembra tuttavia prevalsa la scelta di assegnare la funzione di autorizzazione dei colloqui al giudice che ha emesso la misura, conformemente al dato letterale. L'articolo 18 dell'ordinamento penitenziario rinvia all'articolo 11, secondo comma, che parla ancora di “istruzione sommaria” di “istruzione formale”, richiamando istituti del codice di procedura penale precedente al 1988: oggi tale distinzione sembra portare alla conseguenza che, scomparsa l'istruttoria sommaria, nella fase delle indagini preliminari la competenza spetta al Giudice per le Indagini Preliminari. Di recente è intervenuta con chiarezza su questo tema Cass. II, n. 23760/2015, che ha stabilito che “sulle istanze di colloquio dei detenuti, è competente a provvedere il GIP nel corso delle indagini preliminari e il giudice del dibattimento superata tale fase, mentre al P.M. spetta soltanto un diritto di interlocuzione”. In passato si era sostenuto addirittura che i provvedimenti in esame non fossero impugnabili, in conseguenza della loro natura amministrativa e non giurisdizionale. Sul punto cfr. ad esempio Cass. VI, n. 1820/1994: “Il provvedimento relativo ai permessi di colloquio del soggetto sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere non ha natura giurisdizionale, ma amministrativa poiché non incide sulla libertà personale del soggetto ma attiene alle modalità esecutive della custodia ed al trattamento del detenuto: stante il principio della tassatività delle impugnazioni tale provvedimento non è impugnabile”. Nel tentativo di garantire ai detenuti adeguata tutela nei confronti di una misura comunque estremamente afflittiva, è tuttavia recentemente prevalsa l'opinione di consentire i provvedimenti di rigetto dell'autorizzazione ai colloqui ricorribili per Cassazione. Analoga disciplina è prevista dall'art. 39 del d.P.R. n. 230/2000 per i colloqui telefonici, consentiti in un numero predeterminato mensile ed autorizzati dall'autorità giudiziaria. Il giudice può limitare la frequenza (o aumentarla) con proprio provvedimento: tale limitazione si estende anche ai colloqui telefonici con i difensori. Si è infatti ritenuto che l'eventuale compressione della frequenza delle conversazioni telefoniche tra l'avvocato ed il suo assistito detenuto non realizzasse alcuna violazione del diritto di difesa, essendo salva la facoltà del difensore di avere colloqui de visu o contatti grafici. Va infine rilevato che per questo tipo di permessi l'eventuale limitazione o rigetto non è soggetta ad alcun limite temporale: il tentativo di estendere anche al provvedimento di esclusione dal diritto ai colloqui con i familiari i limiti previsti dall'art. 104 c.p.p. previsto per i colloqui con i difensori è stato respinto con fermezza dalla giurisprudenza di legittimità. |