Ordinanza che dispone la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio.

Costantino De Robbio

Inquadramento

Con questo provvedimento il Giudice può interdire l'indagato/imputato che rivesta un ufficio o svolga un servizio pubblico, per un certo periodo di tempo, dall'esercizio dell'ufficio o del servizio.

Fanno eccezione gli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare.

Il provvedimento è emesso inaudita altera parte, su richiesta del Pubblico Ministero; il Giudice dovrà comunque, prima di decidere sull'ordinanza, interrogare il destinatario della medesima, a meno che la sospensione non sia disposta dal Giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal Pubblico Ministero.

Per la sua adozione occorre motivare in merito alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato per un reato punito con pena non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione e di almeno una delle tre esigenze cautelari tipizzate dall'art. 274 c.p.p.: a) inquinamento probatorio; b) pericolo di fuga; c) pericolo di reiterazione dei delitti della stessa specie di quelli per cui si procede.

Il limite dei tre anni può essere superato nel caso in cui si proceda per un delitto contro la pubblica amministrazione.

Formula

TRIBUNALE PENALE DI ...

UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

ORDINANZA CHE DISPONE LA SOSPENSIONE DALL'ESERCIZIO DI UN PUBBLICO UFFICIO O SERVIZIO

art. 289 c.p.p.

Il Giudice

Letti gli atti del procedimento penale indicato in epigrafe, nei confronti di:

1. ..., nato il ... a ..., residente in ..., difeso di ufficio/fiducia dall'Avv. ... del Foro di ...;

2. ..., nata il ... a ..., residente in ..., difesa di ufficio/fiducia dall'Avv. ... del Foro di ...;

per il reato previsto e punito dall'art. ...;

per i reati previsti e puniti dagli artt. ....

In ... Commesso/Accertato in ..., il ....

Ritenuto che sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato per cui si procede, in particolare ... (indicare gli elementi indiziari, tenendo conto del tempo trascorso dalla commissione del fatto - art. 292, comma 2, lettera c), c.p.p.);

che sussiste altresì l'esigenza ... (indicare una delle esigenze cautelari dell'art. 274 c.p.p.);

che l'indagato è stato sottoposto ad interrogatorio in data ...;

che (indicare perché ogni altra misura è inadeguata alla tutela delle esigenze cautelari) l'unica misura cautelare idonea alla protezione delle esigenze cautelari sopra menzionate è quella della sospensione dall'esercizio dell'ufficio (o del servizio) pubblico.

Per Questi Motivi

Dispone a carico di ... la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio dell'ufficio di ... (o del pubblico servizio ...) per la durata di ....

Ordina agli ufficiali ed agenti di P.G. di procedere all'immediata notifica del presente provvedimento all'indagato/imputato.

Visto l'art. 92 disp. att. c.p.p., manda alla Cancelleria di trasmettere immediatamente la presente ordinanza al Pubblico Ministero che ne curerà l'esecuzione.

Manda, altresì, alla Cancelleria di effettuare tempestivamente, e comunque prima dell'interrogatorio di garanzia, ai difensori l'avviso di deposito di cui all'art. 293 c.p.p.

Luogo e data ...

Il Giudice per le indagini preliminari

Firma ...

Commento

Le misure cautelari personali sono provvedimenti del Giudice – in forma di ordinanza – con cui si comprime la libertà dell'indagato al fine di proteggere (cautelare) il procedimento penale nella fase di accertamento che precede il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Anche le misure interdittive, come già quelle coercitive, costituiscono una sorta di anticipazione della pena.

Le pene finali di cui le misure interdittive costituiscono, nel senso prima precisato, una sorta di “anticipazione” sono in particolare le pene accessorie previste dagli artt. 28 e ss. c.p.

Il legame risale ad epoca antecedente l'emanazione del codice di procedura penale del 1989: l'art. 140 c.p. prevedeva infatti la possibilità di applicazione provvisoria delle pene accessorie.

Oggi la norma più importante che attesta lo stretto rapporto tra misure interdittive e pene accessorie è rinvenibile in sede di esecuzione, nell'art. 662, comma 2, c.p.p., che recita: “Quando alla sentenza di condanna consegue una delle pene accessorie previste dagli artt. 28,30,32-bis e 34 c.p., per la determinazione della relativa durata si computa la misura interdittiva corrispondente, eventualmente disposta a norma degli artt. 288, 289 e 290”.

Da questa norma possono ricavarsi le seguenti indicazioni:

a) non tutte le pene accessorie hanno un corrispondente cautelare, ma solo quelle degli artt. 28,30,32-bis e 34 c.p. Non esiste, in particolare, alcuna misura interdittiva che anticipi ad esempio l'interdizione legale (art. 32), l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (32-ter), l'estinzione del rapporto di lavoro (32-quinquies).

b) Per calcolare la pena durata della pena accessoria da scontare si calcola la misura interdittiva già applicata, con un meccanismo analogo a quello vigente per le misure coercitive custodiali (c.d. presofferto).

Come si desume dal comma 2 dell'art. 662 c.p.p., le misure interdittive corrispondono dunque nel loro contenuto alle pene accessorie, sia pure limitatamente a quelle previste dagli artt. 28,30,32-bis e 34 c.p., nel senso che sono poste a tutela di uno stesso bene giuridico e intervengono in presenza di particolari situazioni soggettive oggetto di abuso o violazione. Rispetto alle seconde, consistenti - come noto - in vere e proprie sanzioni che possono seguire alla condanna, le misure interdittive hanno esclusivamente finalità cautelare ed hanno preso il posto della provvisoria applicazione delle pene accessorie.

Può dunque operarsi un parallelo nel modo seguente:

- la sospensione dall'esercizio della potestà genitoriale (288 c.p.p.) è un'anticipazione della decadenza dalla responsabilità genitoriale prevista all'art. 34 c.p.;

- la sospensione dall'esercizio di un pubblico servizio (289 c.p.p.) corrisponde all'interdizione dai pubblici uffici (art. 28 c.p.);

- il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (290 c.p.p.) all'interdizione da una professione o da un'arte (art. 30 c.p.) ed all'interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (32-bis c.p.).

Per un'analisi delle caratteristiche delle misure interdittive e per evidenziare la differenza con quelle coercitive occorre dunque fare riferimento al criterio letterale, che porta ad evidenziare un primo importante dato di partenza: si tratta di misure in cui la cautela delle indagini e dell'accertamento processuale non è attuata costringendo l'indagato a determinate limitazioni della sua libertà personale ma interdicendo a questi l'esercizio di alcuni diritti o potestà.

È dunque logico ritenere che la ragione dell'intervento del Giudice sia la seguente: il Giudice ravvisa nell'esercizio di alcuni diritti o potestà dell'individuo il pericolo di un danno per la collettività, o per le indagini medesime, nel senso che proprio tali diritti o potestà siano l'occasione o lo strumento per la commissione di determinati reati.

Scorrendo l'elenco delle misure cautelari interdittive si nota infatti che a ciascuna di esse è ricollegato un determinato tipo di delitti, ciò che marca un'ulteriore differenza strutturale e funzionale rispetto alle misure cautelari coercitive che sono invece riferibili a qualsiasi delitto.

Le misure coercitive sono dunque universali, quelle interdittive specificamente dirette alla protezione delle esigenze cautelari di determinati tipi di reati

Per un'analisi delle caratteristiche delle misure interdittive e per evidenziare la differenza con quelle coercitive occorre dunque fare riferimento al criterio letterale, che porta ad evidenziare un primo importante dato di partenza: si tratta di misure in cui la cautela delle indagini e dell'accertamento processuale non è attuata costringendo l'indagato a determinate limitazioni della sua libertà personale ma interdicendo a questi l'esercizio di alcuni diritti o potestà.

È dunque logico ritenere che la ragione dell'intervento del Giudice sia la seguente: il Giudice ravvisa nell'esercizio di alcuni diritti o potestà dell'individuo il pericolo di un danno per la collettività, o per le indagini medesime, nel senso che proprio tali diritti o potestà siano l'occasione o lo strumento per la commissione di determinati reati.

Scorrendo l'elenco delle misure cautelari interdittive si nota infatti che a ciascuna di esse è ricollegato un determinato tipo di delitti, ciò che marca un'ulteriore differenza strutturale e funzionale rispetto alle misure cautelari coercitive che sono invece riferibili a qualsiasi delitto.

In quanto species del genus delle misure cautelari, le misure interdittive richiedono i requisiti previsti dagli artt. 272 e ss. c.p.p.: gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari.

La peculiarità delle misure interdittive, che come si è detto sono specificamente ritagliate per uno o più tipologie di delitti specificamente individuati, fa sì che abbiano particolare rilevanza in questo caso le esigenze cautelari connesse al pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie (274 lett. c), proprio perché con l'adozione di una misura interdittiva si tende a privare il soggetto sottoposto alla cautela della capacità di svolgere quell'attività il cui abuso ha reso possibile la realizzazione della fattispecie criminosa contestata.

Può dunque affermarsi che le misure in parola, per il loro contenuto omogeneo a quello della violazione contestata, precludono all'imputato la possibile reiterazione di un comportamento criminoso direttamente collegato con l'attività il cui svolgimento viene in radice interdetto.

Nell'adozione della misura la valutazione del Giudice dovrà dunque avere riguardo alla natura del reato oggetto dell'imputazione, al fine di verificarne la connessione con lo svolgimento di determinate attività o professioni, la cui interdizione diventa necessaria e sufficiente per soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto.

Durata delle misure interdittive

Come già rilevato in precedenza, una delle modifiche di maggior rilievo della l. 47/2015 è stata l'ampliamento della durata delle misure interdittive, modifica indispensabile per rendere effettivamente praticabile questo strumento: l'originaria durata di due mesi era avvertita come serio ostacolo alla effettività dello scopo di tutela delle indagini.

A riprova, si consideri che la Cassazione ha precisato che la sostituzione di una misura cautelare personale con altra di natura interdittiva comporta la sopravvenuta inammissibilità del riesame in precedenza richiesto, per carenza di interesse atteso che tal sostituzione è sostanzialmente satisfattiva dei desiderata dell'impugnante.

La nuova formulazione dell'art. 308, comma 2 c.p.p. prevede oggi che “le misure interdittive non possono avere durata superiore a dodici mesi”: la durata minima è dunque rimessa alla discrezionalità del Giudice.

È inoltre possibile il rinnovo per ulteriori dodici mesi se la misura interdittiva è disposta per esigenze probatorie.

I nuovi limiti di durata possono dunque potenzialmente coprire l'intera fase delle indagini preliminari, garantendo una reale e perdurante protezione alle stesse.

La esplicita previsione della possibilità di rinnovazione nei soli casi in cui la misura è stata emanata in relazione alle esigenze cautelari previste dalla lett. a dell'art. 274 c.p.p. porta all'automatica esclusione di analoga possibilità negli altri casi.

La rinnovazione delle misure interdittive è dunque prevista solo nel caso in cui siano state emanate per esigenze probatorie: le misure interdittive per reiterazione dei delitti e per pericolo di fuga non sono rinnovabili.

Non esiste peraltro la possibilità di applicare l'art. 305 c.p.p. in tema di proroga della misura cautelare, proprio perché per le misure interdittive è stata prevista la possibilità di rinnovazione.

L'art. 308, comma 2 prevale come norma speciale sulla generale previsione dell'art. 305 c.p.p.

Quanto al termine iniziale, esso comincia a decorrere dalla sua esecuzione, indipendentemente dall'essere stata o meno tale misura preceduta da altra più grave.

La più importante misura interdittiva prevista dal codice è senz'altro quella disciplinata dall'art. 289 c.p.p., con cui il Giudice interdice temporaneamente l'indagato (o imputato, nei rari casi in cui la misura interviene dopo l'esercizio dell'azione penale) dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio.

La distinzione tra servizio pubblico e ufficio pubblico richiama esplicitamente quella prevista dagli artt. 357 e 358 c.p. in tema di delitti contro la Pubblica Amministrazione.

Come noto le due norme distinguono la nozione di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) e quella di incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.), sicché è evidente che la misura interdittiva in esame ha voluto ricomprendere nel suo ambito entrambe le figure, escludendo dunque quella (prevista all'art. 359 c.p.) di esercente un servizio di pubblica necessità.

Secondo l'art. 357 c.p. sono pubblici ufficiali:

a) coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, nonché (comma 2);

b) coloro che esercitano una funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e

c) caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.

La giurisprudenza in materia è sterminata, ma sostanzialmente costante.

Le numerosissime pronunce della Cassazione in materia hanno ribadito sempre i medesimi concetti, specificando poi nei vari casi pratici come si attagliassero alle fattispecie concrete.

Il primo criterio, comune alle norme degli artt. 357 e 358 c.p., per qualificare un delitto come delitto contro la P.A. è che esso deve essere commesso nell'ambito di una funzione pubblica.

Quanto agli atti autoritativi, “in tema di nozione di pubblico ufficiale, rientrano nel concetto di "poteri autoritativi" non soltanto i "poteri coercitivi", ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto, che viene a trovarsi così su un piano non paritetico - di diritto privato - rispetto all'autorità che tale potere esercita. Rientrano invece nel concetto di "poteri certificativi" tutte quelle attività di documentazione cui l'ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado.” (Cass. S.U., n. 7958/1992).

Sulla distinzione tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio va premesso che “al fine di individuare se l'attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., ha rilievo esclusivo la natura delle funzioni esercitate, che devono essere inquadrabili tra quelle della p.a. Nell'ambito dei soggetti che svolgono pubbliche funzioni, la qualifica di pubblico ufficiale è poi riservata a coloro che formano o concorrano a formare la volontà della p.a. o che svolgono tale attività per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, mentre quella di incaricato di pubblico è assegnata dalla legge in via residuale a coloro che non svolgono pubbliche funzioni ma che non curino neppure mansioni di ordine o non prestino opera semplicemente materiale” (Cass. VI, n. 11417/2003).

Il principio basilare è dunque che è pubblico ufficiale chi esprime la volontà dell'ente pubblico.

Non è necessaria la rilevanza dell'attività svolta verso terzi, perché anche l'attività preparatoria dell'atto che forma o esprime la volontà dell'ente può qualificare chi la svolge come pubblico ufficiale, l'importante è che si concorra ad esprimere la volontà dello Stato o di un ente pubblico.

Da ultimo, è stato rilevato che “ai sensi dell'art. 357 c.p., è pubblico ufficiale non solo colui il quale con la sua attività concorre a formare quella dello Stato o degli altri enti pubblici, ma anche chi è chiamato a svolgere attività avente carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali degli enti pubblici, in quanto anche in questo caso si verifica, attraverso l'attività svolta, una partecipazione, sia pure in misura ridotta, alla formazione della volontà della pubblica amministrazione. Ne consegue che, per rivestire la qualifica di pubblico ufficiale, non è indispensabile svolgere un'attività che abbia efficacia diretta nei confronti dei terzi - nel senso cioè che caratteristica della pubblica funzione debba essere quella della rilevanza esterna dell'attività medesima - giacché ogni atto preparatorio, propedeutico ed accessorio, che esaurisca nell'ambito del procedimento amministrativo i suoi effetti certificativi, valutativi o autoritativi, seppure destinato a produrre effetti interni alla pubblica amministrazione, comporta, in ogni caso, l'attuazione completa e connaturale dei fini dell'ente pubblico e non può essere isolato dall'intero contesto delle funzioni pubbliche”.

Quanto all'incaricato di pubblico servizio, rientra in questa definizione chi, pur non esprimendo la volontà dell'ente pubblico, svolge mansioni di concetto e non meramente esecutive.

A tal fine, è importante distinguere questa categoria di soggetti da quella degli incaricati di un servizio di pubblica necessità.

Può concordarsi con le conclusioni della Cassazione che sul punto ha da tempo statuito che “l'elemento di discrimine tra mansioni di concetto, inerenti la qualità d'incaricato di pubblico servizio e mansioni puramente applicative o esecutive, incompatibili con la stessa, è infatti rappresentato dal mantenimento in capo al dipendente pubblico di una certa autonomia e discrezionalità tipiche delle prime”.

A quali reati può essere applicata la misura interdittiva della sospensione dal pubblico ufficio o servizio?

Apparentemente a tutti, perché il comma 2 dell'art. 289 c.p.p. statuisce che nei casi in cui si procede per reati contro la P.A. la misura può essere data anche al di fuori dei limiti previsti dall'art. 287 c.p.p.

Dunque si deve distinguere:

1. per i reati contro la P.A. si può dare senza limiti edittali;

2. per gli altri reati: si può dare solo se il reato per cui si procede prevede una pena edittale massima superiore a tre anni di reclusione (è questo il limite dell'art. 287 c.p.).

In concreto, è difficile immaginare una misura interdittiva applicata ex art. 289 c.p. al di fuori dei casi dei reati contro la Pubblica Amministrazione.

Sebbene teoricamente nulla impedisca di sospendere da un pubblico servizio taluno i quanto accusato di un reato comune (ad esempio, omicidio), esiste un limite logico più che giuridico: la misura deve servire ad interdire taluno da un ufficio o un servizio in quanto l'esercizio di tale ufficio o servizio ha costituito occasione per la commissione di un reato, circostanza difficile da immaginare al di fuori dell'alveo dei reati contro la Pubblica Amministrazione.

Ne consegue che per l'applicazione della misura in esame occorre un collegamento diretto tra il reato per cui si procede e la qualità di pubblico ufficiale.

Il significato del 289, comma 2 dunque non va letto nel senso che per i reati contro la P.A. la misura interdittiva è vista con particolare favore tanto che la si può dare sempre, anche per reati con limiti edittali inferiori a quelli previsti per i delitti ordinari.

A conferma del fatto che la misura in esame è il rimedio “naturale” cautelare per i delitti contro la Pubblica Amministrazione, la Cassazione ha spesso ribadito che quando si procede per i reati contro la Pubblica Amministrazione non è opportuno emanare misure coercitive minori: se lo scopo che si vuol raggiungere è cautelare la collettività dal rischio di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede allontanando il pubblico ufficiale dal servizio allora la misura da adottare è quella interdittiva in esame.

La misura interdittiva della sospensione da un pubblico ufficio e l a professione di notaio

La professione di notaio ed il suo inquadramento come pubblico servizio o come libera professione è da sempre oggetto di discussione in dottrina, e l'applicabilità a questa categoria professionale dell'art. 289 c.p.p. è sicuramente il tema più dibattuto dell'istituto in esame.

Secondo la ricostruzione più accreditata, il notaio non riveste una pubblica funzione ma esercita una professione con caratteri di diritto privato.

Conseguentemente, la misura interdittiva applicabile ai notai non è la “sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio” prevista dall'art. 289 c.p.p. ma il “divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali” disciplinata dal successivo art. 290.

Tale diversa collocazione sistematica comporta la fondamentale conseguenza procedurale che non serve l'interrogatorio prima della sua applicazione.

A tale conclusione si giunge sulla scorta della considerazione che l'attività notarile, pur essendo connotata da aspetti pubblicistici, è qualificabile come professione, caratterizzata privatisticamente e svolta dal notaio in piena autonomia nell'ambito di un ordine professionale autogestito. Ne consegue che per l'applicazione della misura in questione non è richiesto il previo interrogatorio dell'imputato; garanzia che attiene solo alla misura prevista dall'art. 289 c.p.p. per i pubblici ufficiali.

La stessa misura interdittiva della inabilitazione dalla professione notarile serve concretamente allo scopo di preservare il prestigio della professione di notaio, ed è dunque assimilabile in tutto e per tutto alle misure previste dall'art. 290 c.p.p.

Nonostante tali conclusioni apparentemente granitiche, il problema rimane di difficile soluzione, a causa della particolarità della professione in esame.

È indubbio che al notaio sono affidati compiti funzioni di carattere squisitamente pubblicistici, tanto che nello svolgimento della sua attività egli è considerato pubblico ufficiale.

Il notaio riveste dunque la funzione che, nella generalità dei casi, viene considerata condizione necessaria e sufficiente per l'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 289 c.p.p.

Non a caso, in uno dei più importanti casi di applicazione della misura interdittiva del divieto di esercizio dell'attività (art. 290 c.p.p.) in danno di un notaio, il reato per il qual si stava indagando era quello di peculato, reato che come noto presuppone la qualifica di pubblico ufficiale.

Nel tentativo di conciliare due elementi forse inconciliabili, la Cassazione ha all'epoca precisato che “il notaio è certamente pubblico ufficiale nel compimento di una serie di atti, al pari del medico, dell'avvocato, del commercialista, del geometra o di quanti altri, quando essi sono investiti di determinate funzioni, ma sono tutti essenzialmente esercenti una "professione", caratterizzata privatisticamente, e dotati di piena autonomia avendo come punto di riferimento un "ordine professionale" autogestito.

È indubitabile che non si possa scindere il ruolo di professionista e di pubblico ufficiale. Il professionista resta sempre tale come figura giuridica, salvo essere investito della qualifica di pubblico ufficiale in determinate circostanze stabilite dalla legge. Il pubblico ufficiale è, invece, sempre tale nell'esercizio delle proprie funzioni.

Non a caso la legge processuale distingue le due misure nei confronti dell'una e dell'altra categoria di soggetti, per la diversa valenza che esse assumono e le definisce in modo diverso:

"sospensione" nel primo caso, "divieto di esercizio" nel secondo. Non solo, ma richiede una diversa garanzia nell'uno e nell'altro: più rigorosa per il pubblico ufficiale, che deve essere interrogato prima della decisione sulla richiesta di sospensione; meno rigorosa nell'altro in cui tale interrogatorio non è richiesto. Orbene, non potendosi porre in discussione che quella di notaio sia storicamente, attualmente, giuridicamente, una "professione" (una diversa definizione indurrebbe ad una vera e propria ribellione della categoria), la misura di cui si tratta della inabilitazione dalla professione non può che essere inquadrata sotto la previsione dell'art. 290 c.p.p., per l'applicazione della quale non è richiesto (a differenza della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio) il previo interrogatorio dell'indagato.

Tale ricostruzione non pare del tutto convincente: il richiamo ad altre professioni a carattere misto (pubblico-privato) sembra trascurare il fatto che mentre tutte le altre professioni menzionate sono caratterizzate dallo svolgimento di una professione in cui alcuni momenti sono dotati di rilievo pubblicistico (si pensi ai medici) il notaio compie esclusivamente atti pubblici dunque è difficile ipotizzare nl suo caso atti compiuti in veste di mero professionista (e peraltro sicuramente non vanno qualificati in tal senso le condotte di appropriazione indebita oggetto del thema decidendum del processo da cui è scaturita la sentenza della Cassazione in esame, visto che il reato contestato era quello di peculato non quello previsto dall'art. 646 c.p.).

L'interrogatorio prima della decisione del Giudice sulla richiesta di applicazione della sospensione dal pubblico servizio

Con previsione del tutto eccentrica rispetto al sistema delle misure cautelari, nel caso in cui riceva una richiesta di applicazione della misura interdittiva della sospensione da un pubblico servizio il Giudice è tenuto, prima della decisione, ad interrogare l'indagato ed a sentire la sua versione dei fatti, alla presenza di un difensore e con tutte le garanzie di legge.

Si tratta di una previsione apparentemente inconciliabile con l'essenza stessa delle misure cautelari: il presupposto da cui nasce la necessità di limitare la libertà di taluno o di interdirne determinate attività è l'urgenza di agire a tutela della collettività e/o del processo.

Lasciare al destinatario della misura la possibilità di reagire alla decisione prima che questa sia presa comporta un rischio notevole che le esigenze cautelari siano vanificate, e si può ipotizzare che in non pochi casi proprio la circostanza di avvertire l'indagato della probabile irrogazione di una misura a suo carico può elidere del tutto tali esigenze (che senso ha un'ordinanza in cui il Giudice attesta la necessità di intervenire per impedire il pericolo che l'indagato si dia alla fuga, dopo avere comunicato formalmente allo stesso indagato che si ritiene sussistete tale pericolo ed averlo ascoltato in merito? L'esempio è estensibile anche alle altre esigenze cautelari).

Non stupisce dunque che non pochi commentatori hanno accolto l'introduzione di questa previsione con disfavore, indicandola come una sorta di norma-ostacolo inserita allo scopo di impedire in concreto l'adozione della misura interdittiva, di fatto abrogandola.

Tale ricostruzione appare avvalorata altresì dalla circostanza che la norma in esame è stata introdotta nel 1997 con la stessa legge che ha modificato profondamente il reato di abuso di ufficio, rendendone i presupposti di applicazione talmente severi da portare praticamente alla sua scomparsa dalle aule di Tribunale.

È evidente il disegno comune che sorregge la riforma legislativa dell'epoca: limitare il massiccio intervento della magistratura sul potere politico ed amministrativo, ritenuto all'epoca così penetrante da poter portare potenzialmente alla paralisi della Pubblica Amministrazione in funzione della necessità di accertamenti dei reati commessi dai suoi esponenti.

Prima della riforma dell'istituto operata nel 1997 era sorta un'interessante questione sull'obbligo o meno di notificare all'indagato prima dell'irrogazione di una misura interdittiva l'informazione di garanzia ex art. 369 c.p.p.: la Cassazione aveva da subito escluso tale possibilità ricollegando l'obbligo di inviare l'avviso di garanzia al compimento di determinati atti a cui il difensore ha diritto di assistere e salvaguardando la segretezza delle indagini.

È però sintomatico che proprio in relazione alla misura di cui all'art. 289 c.p.p. il problema era stato posto, poiché era avvertita molto forte l'esigenza sin da allora di evitare una misura così incisiva senza aver dato all'indagato la possibilità di difendersi.

Non stupisce dunque che qualche anno dopo, con la legge del 1997, si è giunti ad un correttivo, con l'introduzione, solo per questo tipo di misura, dell'obbligo di interrogatorio.

La necessità di procedere ad interrogatorio prima ancora di decidere se dare o meno la misura è stata oggetto di questione di costituzionalità, che la Corte ha ritenuto infondata sulla base del seguente rilievo: “La norma, (non è incostituzionale in quanto...) amplia la sfera delle garanzie - con particolare riguardo al diritto di difesa - dei soggetti in favore dei quali opera e la sua 'ratio' sembra essere rinvenibile nell'esigenza, la cui attuazione rientra nelle scelte discrezionali del legislatore, di verificare anticipatamente che la sospensione dall'ufficio o dal servizio non rechi, senza effettiva necessità, pregiudizio alla continuità della pubblica funzione o del servizio pubblico”.

Critiche a questa posizione della Corte Costituzionale sono giunte dalla Corte di Cassazione, che ha affermato che le prospettazioni difensive dell'accusato non rappresentano uno strumento neutrale per una ricostruzione degli interessi pubblici gravitanti sul caso.

Perché tale logica sia accettabile, è stato allora correttamente rilevato, “essa va strettamente riferita alla tutela della funzione, e non a quella del soggetto che ne sia investito, risolvendosi, in base all'interesse generale gravitante sul corretto esercizio dei pubblici uffici e dei pubblici servizi, nella predisposizione di una procedura utile a prevenire provvedimenti interdittivi che potrebbero risultare ingiustificati o superflui”.

Formalmente, l'interrogatorio segue le regole previste dagli artt. 64 e 65 c.p.p.

In particolare:

- l'indagato interviene sempre libero, anche se per ipotesi vi è uno status detentionis dovuto ad altra misura (ovviamente coercitiva): anche nel caso in cui egli debba essere tradotto dalla polizia penitenziaria nell'ufficio del Giudice o nel caso in cui l'atto si debba svolgere nella casa circondariale ove gli è detenuto, dovranno essergli tolte le manette o altri mezzi di coercizione;

- non sono ammessi metodi per influire sulla capacità di autodeterminazione dell'interrogato;

- l'atto deve essere preceduto dagli avvertimenti (sulla facoltà di non rispondere, sulla possibilità di utilizzare le dichiarazioni contra se, sulla possibilità di testimoniare contra alios) previsti dall'art. 64 c.p.p.;

- il Giudice dovrà muovere all'interrogato una contestazione chiara e precisa del fatto e delle fonti di prova.

Come si è avuto modo di rilevare in precedenza, già prima della l. n. 47/2015 il Giudice della cautela aveva la possibilità di applicare, in luogo della misura coercitiva, una misura interdittiva.

Nel caso in cui la misura individuata dal Giudice fosse stata quella della sospensione dal pubblico servizio, sorgeva il problema della applicabilità o meno della norma che prevede l'interrogatorio prima dell'emissione dell'ordinanza o meno.

La lettura prevalente della giurisprudenza a casi siffatti era che l'interrogatorio prima della misura fosse necessario, poiché la norma che lo prevede (art. 289, comma 2, c.p.p.) è speciale rispetto a quella che prevede l'interrogatorio di garanzia come adempimento da compiere dopo l'esecuzione della misura (art. 294 c.p.p.).

A conclusioni opposte si giungeva invece nel caso in cui la misura coercitiva originariamente adottata dal G.I.P. fosse mutata in una misura interdittiva ad opera del Tribunale per il Riesame.

In ipotesi siffatte, pur dovendosi eseguire l'interdizione da un pubblico servizio, si riteneva non occorresse espletare l'interrogatorio previsto dall'art. 289 c.p.p.

La differenza di disciplina applicabile nei due casi è facilmente spiegabile in ragione del fatto che solo nel caso in cui la misura interdittiva sia applicata dal Tribunale del Riesame l'indagato ha già avuto modo di esporre le su difese nell'interrogatorio di garanzia davanti al G.I.P. che ha emanato la misura (coercitiva).

La decisione del collegio, invece, non è mai a sorpresa, perché interviene dopo le comunicazioni pertinenti all'appello del Pubblico Ministero e l'esercizio del contraddittorio nell'udienza camerale. In altre parole, le dinamiche del giudizio impugnatorio generalizzano un meccanismo di interlocuzione preventiva, che, nel caso delle misure interdittive contro agenti pubblici, sarebbe «duplicato» dal previo interrogatorio.

La ricostruzione non convinceva quanti avevano affermato che il contraddittorio introdotto dai motivi di impugnazione, che per loro natura attengono alla confutazione dei soli profili «negativi» del provvedimento di rigetto, non è assimilabile alla completa informazione circa gli elementi di prova che l'accusato ha diritto di ricevere, a norma dell'art. 65 c.p.p., in apertura dell'interrogatorio.

Lo scenario descritto è profondamente mutato dopo la l. n. 47/2015, che ha introdotto alla fine del comma 2 dell'art. 289 c.p.p. un nuovo ed ulteriore periodo: “Se la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio è disposta dal Giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal Pubblico Ministero, l'interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1-bis dell'art. 294 c.p.p.”, e cioè entro dieci giorni dall'esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione.

Dunque il legislatore ha risolto il contrasto dando ragione alla tesi contraria a quella prevalente: se il G.I.P. decide, a fronte di una richiesta di adozione di una misura coercitiva, di adottare invece la misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio prevista dall'art. 289 c.p.p. non deve espletare l'interrogatorio prima, ma dopo l'adozione della misura.

Il problema più rilevante posto dalla necessità di sottoporre ad interrogatorio il destinatario della misura interdittiva in esame è dato dalla necessità di conciliare il diritto di difesa con quello della segretezza degli atti di indagine.

Come si è visto, l'art. 289 c.p.p. non richiama l'art. 294 ma le regole procedurali previste per l'interrogatorio del Pubblico Ministero agli artt. 64 e 65 c.p.p.

L'art. 65 prevede che chi procede all'interrogatorio comunichi a chi è sottoposto ad indagini gli elementi di prova esistenti contro di lui e, se non ne derivi pregiudizio alle indagini, le sue fonti.

L'obbligo di comunicazione sembra dunque limitato (l'indagato ed il suo difensore non hanno diritto ad accedere al fascicolo per le indagini preliminari) e subordinato alla salvaguardia delle indagini stesse, ciò che implica che, nel caso in cui il Pubblico Ministero o il Giudice ritengano che una discovery comprometta le indagini, l'interrogatorio dovrebbe avvenire “al buio”, e l'indagato rispondere (o, naturalmente, decidere di non rispondere) solo sulla base della generica contestazione mossagli ai sensi dell'art. 65 del codice di rito.

Nel caso in cui si ritenga applicabile invece l'art. 294 come avviene per tutte le altre misure cautelari, l'interrogatorio dovrebbe essere preceduto dal deposito di tutti gli atti su cui la richiesta del Pubblico Ministero ha fondato la sua richiesta, con piena ed illimitata ostensione degli atti.

A sostegno di questa interpretazione garantista, potrebbe rilevarsi che, proprio perché la funzione della misura interdittiva di cui all'art. 289 c.p.p. non è quella di prevenire possibili fughe dell'indagato bensì unicamente quella di garantire che il pubblico ufficiale non rimanga nell'esercizio delle sue funzioni, l'interrogatorio è anticipato rispetto alla fase esecutiva ed è finalizzato al controllo da parte del G.I.P. in ordine alla legittimità della richiesta del Pubblico Ministero.

Tuttavia, non si può non osservare che il richiamo agli artt. 64 e 65 compiuto dalla norma in esame sembra rispondere ad una precisa ratio, individuabile nella necessità di mantenere il segreto sugli atti fino all'esecuzione della misura stessa.

Anche il diritto di accedere agli atti disciplinato dall'art. 294 c.p.p. non è peraltro assoluto ed incomprimibile: nei casi non infrequenti in cui un soggetto sia tratto in arresto in un luogo molto distante da quello ove ha il centro dei suoi interessi e dove conseguentemente risiede il suo avvocato di fiducia, con conseguente interrogatorio di garanzia espletato per rogatoria, capita che l'indagato ed il difensore non abbiano materialmente il tempo di visionare gli atti del fascicolo (perché questi sono fisicamente depositati in un Tribunale distante centinaia di chilometri dal luogo ove l'interrogatorio si svolge).

In questi casi, l'atto resta perfettamente valido, nonostante l'accertata impossibilità di accedere agli atti da parte del difensore; questi ha solo la possibilità di richiedere un rinvio dell'interrogatorio.

Ne deriva che anche nel caso dell'interrogatorio di garanzia disciplinato dall'art. 294 c.p.p. l'ostensione degli atti può subire limitazioni senza che ciò comporti la nullità dell'atto per violazione del contraddittorio, e che il diritto del destinatario della misura di “consacrare la sua versione dei fatti” non è inconciliabile con una conoscenza parziale o sommaria degli atti a suo carico, come avviene nel caso previsto dall'art. 289, comma 2, c.p.p.

Effetti della misura cautelare in esame

La misura interdittiva della sospensione da un pubblico ufficio esclude l'indagato (temporaneamente) dalla qualifica di cui è titolare.

Ne consegue che gli atti posti in essere dopo il provvedimento di sospensione sono viziati da nullità (secondo alcuni, addirittura da inesistenza): il pubblico dipendente sospeso dalla funzione diventa una sorta di “funzionario di fatto”, e le sue condotte commesse in violazione della misura interdittiva potrebbero assumere rilevanza ai sensi dell'art. 347 c.p. come condotte di usurpazione di funzioni pubbliche, o se vi è stato il compimento di un atto del proprio ufficio, come “usurpazione di titoli” ex art. 498 c.p.

Va infine rilevato che, a norma dell'ultimo comma dell'art. 289 c.p.p., la misura interdittiva della sospensione da un ufficio o servizio pubblico non è applicabile “agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”: si è voluto così evitare che la magistratura potesse interferire con la volontà popolare limitando surrettiziamente i diritti civili degli elettori.

Naturalmente, resta salva la possibilità di sottoporre i soggetti eletti con investitura popolare (parlamentari, sindaci di comuni, ecc.) a misure cautelari coercitive anche custodiali.

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