Modello di ricorso per violazione art. 3 CEDU (condizioni di detenzione)

Angelo Salerno

Inquadramento

L'art. 3 della CEDU proibisce la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti.

La norma in esame trova la sua ratio principale nell'esigenza di proteggere la dignità umana. Il divieto ha natura assoluta, fondamentale e inderogabile nel senso che esso non può subire alcuna eccezione che ne diminuisca la portata precettiva. Inoltre, la giurisprudenza della Corte EDU ha chiarito che l'assolutezza e l'inderogabilità della norma in esame implicano l'esclusione della possibilità di operare un qualsiasi bilanciamento fra i valori tutelati dall'art. 3 e altri valori od obiettivi generali meritevoli di tutela da parte degli Stati contraenti.

Formula

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Commento

Il quadro istituzionale

La Corte EDU ha sede a Strasburgo ed è stata istituita nel 1959 dall'omonima Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore nel settembre del 1953, oggetto di ratifica da parte dell'Italia con legge e ratificata dall'Italia con l. n. 848/1955.

La Corte costituisce un organo giurisdizionale internazionale ed è composta da un numero di giudici corrispondente a quello degli Stati membri del Consiglio di Europa, organizzazione internazionale intergovernativa, il cui statuto è stato sottoscritto il 5 maggio 1949, a Londra, con la finalità di tutelare i diritti umani nella regione europea. Non vi è sovrapposizione tra l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa, che costituiscono entità autonome e differenti, stante altresì la non corrispondenza degli Stati membri delle due istituzioni, dal momento che non tutti i quarantasei Stati che aderiscono al Consiglio d'Europa sono Stati membri dell'Unione Europea, come ad esempio la Turchia o l'Ucraina.

I giudici della Corte EDU sono eletti dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa sulla base di liste di tre candidati proposte da ciascuno Stato, ed esercitano il loro mandato a titolo individuale, senza rappresentare gli Stati di provenienza, per un periodo non rinnovabile pari a nove anni.

La composizione della Corte è variabile, in quanto i ricorsi palesemente inammissibili sono esaminati da un Giudice unico, mentre un Comitato di tre giudici può pronunciarsi con voto unanime sull'ammissibilità e sul merito nei casi già coperti giurisprudenza consolidata. Diversamente, la decisione è assunta a maggioranza dei componenti di una Camera, in numero di sette. Ciascuna Camera è composta dal Presidente della Sezione cui è assegnato il caso, ossia il Giudice eletto dallo Stato contro cui il ricorso è presentato, nonché da ulteriori cinque giudici, designati a rotazione dal Presidente della Sezione. Sono invece diciassette i componenti della Grande Camera, che esamina i casi rimessi a seguito di remissione da parte di una Camera o di accettazione di apposita richiesta di rinvio delle parti. Siedono nella composizione della Grande Camera il Presidente e il vice Presidente della Corte, nonché i presidenti delle Sezioni, oltre al Giudice eletto dallo Stato contro cui è stato proposto ricorso e altri giudici appositamente sorteggiati.

La Corte EDU svolge funzioni consultive e giurisdizionali. Le prime, ai sensi dell'art. 47 CEDU, consistono nel fornire pareri motivato in ordine all'interpretazione della Convenzione e dei relativi Protocolli, su richiesta del Comitato dei Ministri.

Nello svolgimento della sua funzione giurisdizionale, la Corte viene invece adita su ricorso degli Stati membri, ai sensi dell'art. 33 CEDU, ovvero – a far data dal 1998 – su ricorso individuale di cittadini, organizzazioni non governative o gruppi di individui, ai sensi dell'art. 34 CEDU. La Corte ha competenza riguardo l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei relativi protocolli, ivi compresa la tutela e il rispetto dei diritti e delle garanzie ivi previsti.

Le sentenze della Corte EDU sono motivate e soggette a pubblicazione, vincolando alla decisione assunta gli Stati membri del Consiglio d'Europa che siano stati parte nella controversia. L'esecuzione viene monitorata dal Comitato dei Ministri, ai sensi dell'art. 46 CEDU, cui viene trasmesso il relativo fascicolo e che procede quindi a consultare lo Stato membro interessato per concordare modalità e tempistiche dell'esecuzioni, onde prevenire nuove violazioni della Convenzione. Difatti, ogni Stato membro ha il dovere di evitare il verificarsi di nuove violazioni, mediante adattamento della legislazione vigente o interventi su singoli provvedimenti adottati in violazione della Convenzione, potendo in caso contrario essere sanzionato per le violazioni successive. È altresì previsto il riconoscimento di un'equa riparazione nei confronti del ricorrente vittorioso, a carico dello Stato membro condannato.

L'ambito di applicazione: distinzione fra tortura, trattamenti e pene inumani o degradanti

La CEDU, all'art. 3, prevede il divieto di tortura, sancendo che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, definito dalla Corte EDU come uno dei valori fondamentali della società democratica, legato al rispetto della dignità umana (CEDU, Grande Camera, 28 settembre 2015, ricorso n. 23380/2009, Bouyid c. Belgio).

Si tratta di un divieto assoluto, che non ammette deroghe, finanche nei casi più estremi, legati ad esempio a terrorismo o criminalità organizzata.

Affinché possa ravvisarsi un caso di tortura o trattamento inumano o degradante, la Corte EDU richiede un livello minimo di gravità della condotta, che è tuttavia relativo e legato alle circostanze del caso concreto, quali la durata del trattamento, le sue conseguenze, nonché età, genere e condizioni di salute della vittima (CEDU, Grande Camera, 20 ottobre 2016, ricorso n. 7334/2013, Muršić c. Croazia).

Tra i criteri da prendere in considerazione per verificare se sussista tale requisito di gravità della violazione, rientrano lo scopo per il quale il trattamento è stato inflitto, unitamente alle intenzioni o motivazioni ad esso sottese, fermo restando che la mancanza di volontà di umiliare o degradare la vittima non esclude la violazione dell'art. 3 CEDU; nonché il contesto in cui si iscrive la condotta e lo stato di vulnerabilità in cui versi la vittima (CEDU, Grande Camera, 15 dicembre 2016, ricorso n. 16483/2012, Khlaifia e altri c. Italia).

La nozione di tortura recepita dalla Convenzione ha riguardo all'art. 1 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, firmata il 10 dicembre 1994 a New York, che qualifica la tortura come “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”. Come evidenziato dalla Corte EDU, occorrerà aver riguardo non solo alla gravità del trattamento inflitto bensì allo specifico scopo intenzionalmente perseguito, nei termini indicati dalla Convenzione di New York (CEDU, Sez. V, 28 febbraio 2022, ricorso n. 32427/2016, Petrosyan c. Azerbaijan).

Per trattamento inumano e degradante deve intendersi quello idoneo a generare in chi lo subisce una condizione di inferiorità e angoscia, con conseguente umiliazione e superamento delle resistenze fisiche e morali, al punto da indurla ad agire contro la propria volontà o coscienza, a prescindere dallo scopo di tale trattamento (CEDU, Grande Camera, 3 giugno 2010, ricorso n. 22978/2005, Gäfgen c. Germania).

Può altresì assumere rilievo l'idoneità del luogo di detenzione rispetto alle condizioni in cui versi il detenuto, come nel recente caso Sy c. Italia (CEDU, Sez. I, 24 gennaio 2022, ricorso n. 11791/2020, Sy c. Italia), relativo alla reclusione per due anni in un istituto ordinario di una persona affetta da disordine bipolare della personalità, privata in questo modo di idonee cure per la sua condizione mentale.

Le condizioni di detenzione: i casi Sulejmanovic e Torreggiani

Una delle principali applicazioni dell'art. 3 CEDU riguarda le condizioni in cui versano i detenuti, in quanto la privazione della libertà personale, durante l'esecuzione della pena o di misure cautelari detentive, non fa venir meno le garanzie e i diritti riconosciuti alla persona dalla Convenzione, che pone a carico degli Stati un obbligo di assicurare al detenuto condizioni rispettose della dignità umana, specie in considerazione del suo stato di vulnerabilità.

Le modalità di esecuzione della pena detentiva devono dunque risultare tali da non determinare una sofferenza e un'angoscia la cui intensità ecceda l'inevitabile livello legato alla condizione di detenuto (CEDU, Grande Camera, 20 ottobre 2016, ricorso n. 7334/2013, Muršić c. Croazia).

In più occasioni, la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell'art. 3 CEDU in relazione alle condizioni di detenzione, con particolare riferimento al sovraffollamento carcerario, che interessa anche l'Italia, nei cui confronti, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto violato l'art. 3 CEDU in ragione della mancanza dello spazio vitale minimo per il ricorrente, detenuto presso l'Istituto penitenziario di Rebibbia, avuto riguardo alla superficie minima determinata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CEDU, Sez. II, 6 novembre 2009, ricorso n. 22635/2003, Sulejmanovic c. Italia).

Ulteriore condanna riportata dall'Italia per violazione dell'art. 3 CEDU si è inoltre registrata nel 2013 (CEDU, Sez. II, 8 gennaio 2013, ricorsi nn. 43517/2009, 46882/2009, 55400/2009, 57875/2009, 61535/2009, 35315/2010 e 37818/2010, Torreggiani e altri c. Italia), in relazione agli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, con riferimento anche in questo caso allo spazio vitale minimo per i detenuti nelle relative celle, che la Corte EDU ha stabilito non poter essere inferiore ai tre metri quadri per persona, con accoglimento del ricorso, anche alla luce delle ulteriori condizioni aggravanti relative a ventilazione delle celle, illuminazione e disponibilità di acqua calda.

L'introduzione di un rimedio interno: la decisione Stella e altri c. Italia

Il monito della Corte EDU lanciato con la sentenza Torreggiani del 2013, in ordine alla inadeguatezza del sistema carcerario nazionale e della legislazione all'epoca vigente, ha condotto, con d.l. n. 92/2014, intervenuto sulla l. n. 354/1975, all'introduzione dell'art. 35-ter, in forza del quale i detenuti possono adire la magistratura di sorveglianza in caso di l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla l. 354/1975 stessa e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti (art. 69, comma 6, lett. b), ottenendo un ristoro per le violazioni subite, in termini di riduzione di pena o risarcimento del danno subito.

Preso atto di tale intervento normativo, la Corte EDU, nella successiva sentenza Stella c. Italia, del 2014, ha ritenuto che il ricorso proposto senza aver preventivamente attivato tale rimedio sia destinato ad essere rigettato, per omesso esaurimento degli strumenti giudiziari interni (CEDU, Sez. II, 16 settembre 2014, ricorso n. 49169/2009, Stella c. Italia).

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