Richiesta di revoca del provvedimento ex art. 75-bis d.P.R. n. 309/1990

Corinna Forte

Inquadramento

L'art. 4-quater della l. n. 49/2006 ha inserito nel Testo Unico in materia di stupefacenti (d.P.R. n. 309/1990) l'art. 75-bis, rubricato “Provvedimenti a tutela della sicurezza pubblica”, che ha introdotto strumenti finalizzati a prevenire talune particolari manifestazioni sintomatiche di pericolosità sociale intensificando, mediante strumenti specifici, il controllo amministrativo e giudiziale nei riguardi dei soggetti già colpiti dalle misure amministrative di cui al precedente art. 75, comma 2.

L'art. 75-bis, comma 1, prevedeva infatti che, qualora in relazione alle modalità o alle circostanze delle condotte indicate nell'art. 75, comma 1, dello stesso T.U., potesse derivare pericolo per la sicurezza pubblica, potesse essere disposta l'applicazione di una misura tra quelle stabilite nei confronti del soggetto che risultasse già condannato, anche non definitivamente, per reati contro la persona, contro il patrimonio, per quelli previsti dalle norme sulla circolazione stradale, ovvero per i reati previsti dallo stesso d.P.R. in tema di sostanza stupefacenti.

Analoghe misure erano irrogabili anche a colui che fosse stato sanzionato per l'inosservanza delle disposizioni del medesimo d.P.R. n. 309/1990, oppure destinatario di misure di prevenzione o di sicurezza.

In sostanza, i presupposti richiesti dalla normativa per l'applicazione delle fattispecie in esame erano divisibili in due macro-categorie: alla prima appartenevano le condizioni che dovevano necessariamente sussistere al momento in cui si apriva il procedimento, vale a dire il fatto che l'interessato fosse già stato destinatario di una delle sanzioni di cui all'art. 75 in relazione a taluno dei comportamenti qualificati come illeciti amministrativi (chi “illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all'art. 73, comma 1-bis, o medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezioni B e C, fuori delle condizioni di cui all'art. 72, comma 2”) e l'esistenza di una specifica situazione di “pericolo per la sicurezza pubblica” in relazione causale con le condotte del soggetto.

La persona, inoltre, ricorrendone i presupposti, era invitata a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui al successivo art. 122, ovvero altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell'art. 116 del medesimo testo unico.

La norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 94/2016, determinandosi così la possibilità di ottenere la revoca anticipata dei provvedimenti emessi in applicazione di tale disposizione.

In seguito a tale pronuncia il Legislatore non ha provveduto a rirpristinare l'originario contenuto dell'art.75 bis; ciò in difformità rispetto a quanto è avvenuto, ad esempio, in relazione all'art. 73 del citato d.P.R. con l'emanazione del decreto legge n. 36 del 29 marzo 2014, convertito con modificazioni in legge n. 70 del 16 maggio 2014.

Come la Suprema Corte ha già più volte avuto modo di precisare nel decidere analoghe questioni (v. Cass. III, n. 38691/2017; Cass. III, n. 7735/2017, de. 2018; Cass. III, n. 55015/2018) vanno nella specie applicati i principi affermati nella sent. S.U., n. 42858/2014 “l'efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di “bis in idem”, e non implica l'immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona (conf. Corte cost. sentenze n. 115/1987, n. 267/1987, n. 282/1989)”.

Nella decisione resa nel caso Gatto, la Corte ha affermato (Rv. 260695) il principio secondo cui “i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell'ordinamento giuridico, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall'origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata».

Ne deriva (Rv. 260697) che «quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento “correttivo” da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente “medio tempore” approvate dal legislatore».

Questo potere – ha affermato la Corte – trova fondamento non già nell'art. 673 c.p.p., che riguarda il caso in cui la norma incriminatrice sia abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima, bensì nell'art. 30, comma 4, l. n. 87/1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale.

Già in precedenza, invero, la stessa Corte a sezioni unite aveva insegnato che detto articolo «non è stato implicitamente abrogato dall'art. 673 c.p.p., posto che quest'ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l'ipotesi dell'abrogazione o della declaratoria d'incostituzionalità di una previsione incriminatrice» (Cass. S.U., n. 18821/2014).

In particolare – si legge nella motivazione della sentenza Gatto – «gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d'illegittimità costituzionale inficia fin dall'origine (o, per le leggi a questa anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata. Pertanto le pronunce stesse fanno sorgere l'obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo principi invocabili in materia (Corte cost., n. 58/1967).A tali distinte situazioni corrispondono diverse conseguenze. Mentre l'applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione ‘retroattiva', sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica la definitiva uscita dall'ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati (cfr. Cass. VI, n. 9270/2007)».

Formula

TRIBUNALE DI.... UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE

ISTANZA DI REVOCA DELLE MISURE EX ART. 75-BIS, D.P.R. N. 309/1990

* * *

Il sottoscritto Avv....., difensore di fiducia/di ufficio del signor.... nato a...., residente in...., sottoposto in data.... all'obbligo di presentazione nei giorni di.... presso il locale ufficio della Polizia di Stato per la durata di anni...., nonché all'obbligo di rientrare nella propria abitazione entro le ore.... e di non uscirne prima delle ore.... per la durata di anni.... con provvedimento emesso dal Questore di.... in data.... (provvedimento notificatigli in data....);

CHIEDE

alla S.V. di voler disporre la revoca anticipata del provvedimento indicato in epigrafe in forza della declaratoria di incostituzionalità della norma operata dalla sentenza n. 94/2016 della Corte Costituzionale.

Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato:.....

Con osservanza

Luogo e data....

Firma....

Commento

Profili generali

Il sistema sanzionatorio dettagliato nel d.P.R. n. 309/1990, nella sua formulazione originaria, trovava fondamento nel concetto di “dose media giornaliera” (individuata, per ogni sostanza, con il d.m. n. 186/1990) e nella modulazione della risposta sanzionatoria statuale attraverso la previsione di sanzioni amministrative (artt. 75 e 76) e penali (art. 73); in specie, le condotte caratterizzate dalla destinazione a terzi di stupefacenti avevano rilevanza penale a prescindere dal quantitativo di sostanza ceduta, anche se inferiore alla dose media giornaliera

La risposta repressiva di tipo amministrativo si presentava diversificata: in prima battuta, vi erano le sanzioni applicabili dal Prefetto (art. 75), laddove in seconda istanza erano previste sanzioni – sempre di natura amministrativa, ma più incisive – di competenza dell'autorità giudiziaria, irrogabili nei confronti dei recidivi e di coloro che avessero trasgredito ai provvedimenti prefettizi.

Ne derivava, in sintesi, un sistema sanzionatorio che presentava l'indubbio vantaggio della certezza applicativa, proprio in quanto basato su un parametro rigorosamente oggettivo e facilmente accertabile, quale quello della dose media giornaliera.

Il referendum del 18/19 aprile 1993 cambiò radicalmente la prospettiva operativa, avendo abrogato sia il concetto giuridico di dose media giornaliera e sia, integralmente, le sanzioni amministrative di competenza dell'autorità giudiziaria (art. 76).

Nel vuoto che seguì a tale intervento, si registrò il fondamentale apporto del cd. diritto vivente di matrice giurisprudenziale, che enucleò i seguenti principi:

a) il divieto, penalmente sanzionato, di qualsivoglia attività concernente gli stupefacenti non volta all'uso personale, ma di cui si fosse positivamente dimostrata la destinazione delle sostanze a terzi; e ciò a prescindere dal quantitativo della sostanza stupefacente e dal carattere oneroso o gratuito della cessione (art. 73, d.P.R. n. 309/1990);

b) il divieto – amministrativamente sanzionato – delle attività di importazione, di acquisto e comunque di detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope destinate all'uso esclusivamente personale; per queste, a prescindere dal quantitativo della sostanza stupefacente e nel difetto di una prova concreta circa la destinazione, anche solo parziale, a terzi, trovava applicazione il disposto dell'art. 75 del citato decreto del 1990;

c) la previsione della sola competenza del Prefetto per l'applicazione delle sanzioni amministrative (art. 75, d.P.R. n. 309/1990), essendo stato eliminato l'ulteriore intervento da parte dell'autorità giudiziaria, previsto in via originaria e diretto a colpire più incisivamente il trasgressore recidivo (art. 76 dello stesso decreto, abrogato in toto per effetto del ricordato referendum).

È per colmare queste lacune che si spiega l'intervento normativo del 2006, operato con la l. n. 49, che ha agito sia sul versante dell'illecito penale che su quello della risposta sanzionatoria amministrativa; il meccanismo è stato ancora una volta costruito affiancando alle sanzioni penali (art. 73) quelle amministrative (artt. 75 e 75-bis).

Rispetto alle prime, come vedremo, ci si è mossi con l'intenzione di conferire alle forze dell'ordine, prima, e all'autorità giudiziaria poi uno spazio di intervento più oggettivo e sicuro, diverso da quello ampiamente discrezionale che aveva caratterizzato l'applicazione del d.P.R. 309/1990 dopo le modifiche referendarie.

In questa prospettiva, si è operato attraverso l'inserimento all'interno della norma dei criteri indiziari che, fino ad allora, solo grazie all'interpretazione della giurisprudenza erano stati utilizzati per fondare probatoriamente la dimostrazione della destinazione della sostanza a un uso diverso da quello personale (cfr. art. 73, comma 1-bis, lettera a); il sistema amministrativo, invece, è stato costruito con la duplice intenzione, da un lato, di rafforzare lo strumentario sanzionatorio, nella prospettiva di creare un meccanismo più efficace anche in chiave di recupero del tossicodipendente (sub specie, dell'indiretta pressione psicologica nei confronti del trasgressore per indurlo all'accettazione del programma terapeutico di riabilitazione e di recupero), e, dall'altro, di sanzionare in maniera efficace le condotte più pericolose per la sicurezza pubblica (cfr. il nuovo testo dell'art. 75-bis).

L'art. 4-quater, d.l. n. 272/2005, convertito con modificazioni nella l. n. 49/2006, ha così introdotto nel Testo Unico in materia di stupefacenti l'art. 75-bis, rubricato “Provvedimenti a tutela della sicurezza pubblica”, che varava misure finalizzate a prevenire ulteriori manifestazioni sintomatiche di pericolosità sociale intensificando, mediante tali strumenti specifici, il controllo amministrativo e giudiziale nei riguardi dei soggetti già colpiti dalle misure amministrative di cui al precedente art. 75, comma 2.

La disposizione era stata più recentemente interpolata dal cd. “secondo pacchetto sicurezza” (l. n. 94/2009) in relazione ai termini di durata massima di talune misure: ad esempio, con riguardo al divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore, (art. 75-bis, lett. f) il periodo di durata massima venne elevato a quattro anni.

Si è detto che la ratio delle nuove disposizioni, emergente dai lavori preparatori e cristallizzata nella rubrica della norma, va individuata nell'intenzione di neutralizzare la carica di pericolosità espressa dalle persone coinvolte in precedenti violazioni della normativa sugli stupefacenti, mettendo a disposizione delle autorità di P.S. e dei giudici strumenti ulteriori rispetto a quelli già esistenti (le sanzioni penali, le misure di sicurezza di cui all'art. 86, d.P.R. n. 309/1990 e le sanzioni amministrative contenute nell'art. 75) e volti a privilegiare il soddisfacimento di esigenze di carattere spiccatamente preventivo.

Al contempo, le misure de quibus si allontanavano dal genus delle misure di sicurezza post delictum sia in ragione dei diversi presupposti operativi (esse, infatti, si applicavano a soggetti responsabili di illeciti amministrativi, laddove le seconde, com'è noto, presuppongono non solo la commissione di un reato o di un fatto qualificabile come “quasi-reato”, ma anche l'accertamento giudiziale di ciò) che in ordine al relativo procedimento applicativo.

Infatti, in questo caso l'autorità competente a disporre in prima battuta la misura non era quella giudiziaria, bensì quella amministrativa, e il giudice interveniva unicamente in sede di convalida; inoltre, può dirsi che il giudizio fosse improntato a una grammatica probatoria estremamente semplificata rispetto al procedimento tratteggiato dalla legge in tema di misure post delictum.

Conclusivamente giova evidenziare che la Suprema Corte aveva di recente ribadito che la misura di cui al d.P.R. n. 309/1990, art. 75-bis, era inquadrabile nella categoria delle misure di prevenzione, come è reso palese dalla natura delle prescrizioni che possono essere imposte, che ricalcano quelle previste dalla l. n. 1423/1956, art. 5 (oggi art. 8, d.l. n. 159/2011).

a ) I destinatari delle misure

L'art. 75-bis, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, stabilisce che, qualora in relazione alle modalità o alle circostanze delle condotte indicate nell'art. 75, comma 1, dello stesso T.U., possa derivare pericolo per la sicurezza pubblica, può essere disposta l'applicazione di una misura tra quelle indicate nei confronti del soggetto che risulti già condannato, anche non definitivamente, per reati contro la persona, contro il patrimonio, per quelli previsti dalle norme sulla circolazione stradale ovvero per i reati previsti dallo stesso d.P.R.

Analoghe misure sono irrogabili anche a colui che risulti sanzionato per inosservanza delle disposizioni del medesimo d.P.R. n. 309/1990, oppure che sia stato destinatario di misure di prevenzione o di sicurezza.

In sostanza, i presupposti richiesti dalla normativa per l'applicazione delle misure in esame sono divisibili in due macro-categorie: alla prima appartengono le condizioni che devono necessariamente sussistere al momento in cui si apre il procedimento, vale a dire il fatto che l'interessato sia già stato destinatario di una delle sanzioni di cui all'art. 75 in relazione a taluno dei comportamenti qualificati come illeciti amministrativi (chi “illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all'art. 73, comma 1-bis, o medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezioni B e C, fuori delle condizioni di cui all'art. 72, comma 2”) e l'esistenza di una specifica situazione di “pericolo per la sicurezza pubblica” in relazione causale con le condotte del soggetto.

In ordine al primo profilo, giova chiarire che le sanzioni amministrative applicabili – anche congiuntamente e per un periodo non inferiore a un mese e non superiore a un anno – sono:

– la sospensione della patente di guida o il divieto di conseguirla (per un periodo fino a tre anni);

– la sospensione della licenza di porto d'armi o il divieto di conseguirla;

– la sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o il divieto di conseguirli;

– la sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o il divieto di conseguirlo se l'interessato sia cittadino extracomunitario.

La persona, inoltre, ricorrendone i presupposti, è invitata a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui al successivo art. 122 o altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell'art. 116 del medesimo testo unico.

Il testo ricordato è assolutamente chiaro nel richiedere la contemporanea ravvisabilità di entrambe le circostanze di fatto, affinché sia possibile intraprendere il procedimento che culmina con l'irrogazione delle misure in analisi; una volta che ciò si sia verificato, è poi necessario che l'interessato rientri anche in una delle particolari categorie soggettive previste dalla legge.

In specie, può trattarsi o di persone: condannate, pur se non con sentenza irrevocabile, per reati contro la persona, il patrimonio, quelli previsti dalle norme sulla circolazione stradale e per quelli delineati dal d.P.R. n. 309/1990, ovvero raggiunte in precedenza da una sanzione per inosservanza delle disposizioni del decreto, o ancora nei cui riguardi sussista già una misura di prevenzione o di sicurezza.

La natura di misure di prevenzione degli strumenti in questione appare confermata dalla valorizzazione, in sede di individuazione delle condizioni di procedibilità, di situazioni di fatto non connotate da comportamenti dolosi (vengono, infatti, in rilievo tra gli altri i reati colposi, come ad esempio l'omicidio commesso con violazione della normativa stradale e sotto l'effetto di stupefacenti), nonché di condotte che possono anche non acquisire rilevanza penale (si pensi alle ultime due categorie soggettive, che non presuppongono necessariamente una pronuncia affermativa della penale responsabilità).

Come si è visto, presupposto necessario per poter disporre le misure di prevenzione in analisi è la sussistenza di una condizione di pericolo per la sicurezza pubblica causalmente riferibile “alle modalità o alle circostanze dell'uso” e in generale alle condotte del soggetto interessato.

L'esistenza di tale requisito va verificata in concreto caso per caso, valutando tutti gli aspetti della personalità e delle condotte di vita anteatte dell'interessato, secondo il modus procedendi tipico del procedimento di prevenzione.

b ) Le singole misure applicabili

Alla persona che si trovi in una delle condizioni soggettive indicate dall'art. 75-bis e la cui condotta risulti pericolosa per la sicurezza pubblica poteva, quindi, essere applicata, per la durata massima di due anni, una o più delle seguenti misure:

a) obbligo di presentazione almeno due volte a settimana presso il locale ufficio della Polizia di Stato o presso il comando dell'arma dei Carabinieri territorialmente competente;

b) obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata;

c) divieto di frequentare determinati locali pubblici;

d) divieto di allontanarsi dal comune di residenza;

e) obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente indicato negli orari di entrata e uscita degli istituti scolastici;

f) divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore (in questo caso, la durata massima della misura sale a quattro anni).

In base ai principi di tassatività e determinatezza della fattispecie, deve ritenersi che così come sia insuscettibile di interpretazioni estensive il novero dei soggetti passibili delle misure in analisi, altrettanto non possa permettersi all'interprete l'applicazione di misure di tipo diverso e ulteriore rispetto a quelle tipizzate dal legislatore e contenute nella richiamata elencazione.

È, invece, pacificamente consentito irrogare all'interessato contestualmente due o più delle misure preventive: non pare, infatti, che né il tenore letterale della norma né la ratio legis precludano una lettura ampia della possibilità di modulare il grado di limitazioni della libertà personale del soggetto.

Ciò comunque con il limite – connaturato alla logica del sistema preventivo – che l'ampiezza delle limitazioni dovesse strettamente corrispondere al grado di pericolosità riscontrato in capo all'interessato e con la correlativa possibilità per il difensore di interloquire sul profilo della congruità delle misure applicate.

In merito poi al divieto di allontanarsi dal comune di residenza (art. 75-bis, lett. d), si è affermato che la portata fortemente limitativa della libertà personale del sottoposto ascrivibile alla citata misura dovrebbe imporre di considerarla una sorta di extrema ratio, nei casi in cui le altre misure si ravvisino in concreto inadeguate a far fronte alla pericolosità dell'interessato.

Quanto, invece, al concetto di residenza deve ritenersi che esso vada letto, conformemente ai principi enucleati in tema di misure di prevenzione “tipiche” nel senso di “dimora abituale”, cioè di luogo in cui il soggetto abitualmente vive ed esercita le proprie attività, anche eventualmente prescindendo da risultanze anagrafiche difformi, in modo che sia possibile per le forze dell'ordine esercitare un monitoraggio e un controllo continuo sulla sua condotta.

Il procedimento di applicazione delle misure e il giudizio di convalida

Il procedimento per l'applicazione delle misure in esame prendeva avvio in seguito alla ricezione, da parte del Questore, di copia del decreto con il quale il Prefetto aveva irrogato una delle sanzioni amministrative previste dall'art. 75, d.P.R. n. 309/1990; quindi, per un verso il Questore non possedeva autonoma facoltà di iniziativa dovendo attendere l'attivazione del Prefetto, mentre per altro verso poi, una volta ricevuta notizia dell'irrogazione delle sanzioni all'interessato, gli era conferita ampia discrezionalità sia in ordine al momento in cui agire con l'applicazione delle misure di prevenzione in esame, sia anche per quanto attiene alla scelta qualitativa e quantitativa delle misure disposte.

In proposito, deve osservarsi come la legge non aveva previsto un termine minimo di durata delle misure, diversamente da quanto stabilito per le misure “tipiche” di competenza giudiziale, con la conseguenza che era ammissibile che esse fossero disposte anche per un periodo di tempo inferiore a un anno.

Competente all'irrogazione di siffatta misura doveva ritenersi il Questore nella cui provincia dimorava la persona pericolosa; anche in questo caso si afferma in giurisprudenza che ai fini dell'individuazione dell'autorità territorialmente competente non rilevano tanto le risultanze anagrafiche, quanto piuttosto lo spazio geografico-ambientale ove il soggetto manifesta le condotte ritenute pericolose. In altri termini, prevale, ai fini dell'individuazione della residenza di cui all'articolo citato e della correlativa competenza questorile, la nozione civilistica di cui all'art. 43 c.c., ossia il luogo di dimora abituale.

Il provvedimento questorile che applica la misura doveva essere, per espressa volontà di legge, sorretto da (adeguata e congrua) motivazione; tale obbligo si giustificava alla luce della natura di atto amministrativo a contenuto discrezionale, incidente su diritti del cittadino, e si rende necessario a giustificare, sul piano del diritto, le prescrizioni limitative dei diritti della persona in cui si sostanziano le misure in esame.

Il provvedimento del Questore era notificato all'interessato e doveva contenere, a pena di nullità, l'avviso che il prevenuto aveva facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice della convalida.

Il provvedimento del Questore andava poi comunicato, entro 48 ore dalla notifica al prevenuto, al giudice di pace competente per territorio in relazione al luogo di residenza o, qualora essa manchi, di domicilio dell'interessato, ai fini della convalida; il giudice, se ricorrono i presupposti di cui al comma 1, dispone con decreto la convalida nelle successive quarantotto ore.

La necessità di un successivo intervento dell'autorità giudiziaria era connaturato alle caratteristiche specifiche delle misure di cui si tratta, che si presentavano come indiscutibilmente idonee a esercitare una notevole compressione delle facoltà e dei diritti della persona.

Si può, quindi, concludere che l'ambito del controllo che il giudice della convalida effettuava sul provvedimento questorile si estendeva ai profili seguenti: a) la pericolosità concreta e attuale del soggetto; b) l'attribuibilità al medesimo delle condotte addebitate e la loro riconducibilità alle ipotesi previste dall'art. 75-bis, comma 1, d.P.R. n. 309/1990; c) la proporzionalità e l'adeguatezza della durata della misura sotto il profilo delle limitazioni alla libertà personale imposte.

Nel caso si fosse trattato di soggetti minorenni, la competenza ai fini della convalida, della modifica o revoca delle misure apparteneva al Tribunale per i minorenni, individuato in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio dell'interessato.

La successiva scansione procedimentale prevedeva che l'autorità giudiziaria, se accertava la ricorrenza dei presupposti di cui al comma 1, dell'art. 75-bis, d.P.R. n. 309/1990, convalidasse il provvedimento del Questore.

La giurisprudenza, muovendo dalla collocazione sistematica delle misure di cui all'art. 75-bis, d.P.R. n. 309/1990 (inquadrate nell'ampio genus delle misure di prevenzione) ha fatto riferimento, per completare la sequenza procedimentale mancante, alla disciplina delle misure limitative della libertà personale previste dall'art. 6 della l. n. 401/1989, volte a prevenire i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive, che prevedono un'analoga procedura di convalida.

In specie, con riguardo al citato procedimento in tema di convalida del D.A.SPO si era stabilito che il termine assegnato all'ufficio di Procura per la richiesta ai sensi dell'art. 6, comma 3, l. n. 401/1989, è autonomo rispetto all'analogo termine previsto per la convalida da parte dell'autorità giudiziaria: il disposto normativo, in altre parole, non configurerebbe un unico termine di 96 ore, bensì due termini distinti di 48 ore ciascuno (Cass. VI, 23 ottobre 1998).

Sul punto si è ancora osservato che: “In una prospettiva di tutela delle istanze difensive, non sembrerebbe ragionevole fissare per il Questore il termine di 48 ore per la richiesta di convalida e negare all'interessato un identico spazio cronologico per controdedurre, in un contesto generale di parità di risorse”; tale principio implica altresì che la pienezza del diritto di difesa sia garantita dalla possibilità di esaminare i documenti eventualmente trasmessi dal Questore al giudice ai fini della convalida (Cass. VI, n. 3521/2009).

Il termine per la convalida doveva essere osservato a pena di nullità alla stregua dell'art. 178, lett. c), c.p.p. (in tal senso, Cass. IV, n. 32065/2010; Cass. VI, n. 3521/2009) e il giudice aveva, conseguentemente, l'obbligo di verificare il rispetto del diritto di difesa del destinatario della misura, da esercitarsi attraverso un contraddittorio cartolare nel termine dilatorio di quarantotto ore, decorrente dalla notifica del provvedimento; alla medesima conseguenza sul piano della validità della convalida deve pervenirsi nel caso le deduzioni, pur presentate nei termini, non siano state in concreto sottoposte all'esame del giudice, considerato che come si è visto innanzi la garanzia del contraddittorio deve essere intesa in senso pieno sostanziale e non meramente formale.

Parte della giurisprudenza ha evidenziato che nel procedimento di convalida del provvedimento questorile il sindacato del giudice è limitato ai profili formali in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti legali della misura, “tra cui rientra quello concernente la provenienza dell'atto dall'autorità competente, ma non quello relativo alla competenza territoriale, non essendo questa predeterminata dalla legge” (in tema di art. 6 della l. n. 401/1989, cfr. Cass. I, n. 30306/2003).

Di recente la Suprema Corte ha osservato che in sede di convalida del provvedimento del questore che imponga le misure previste dall'art. 75-bis, del d.P.R. n. 309/1990, il giudice è tenuto a motivare, anche attraverso un rinvio per relationem, sulla correlazione tra modalità o circostanze dell'uso personale della sostanza stupefacente e il pericolo per la sicurezza pubblica, nonché sulla necessità e urgenza oltre che congruità della misura adottata, e l'assenza di indicazioni in ordine a tali presupposti costituisce violazione di legge deducibile in cassazione (Cass. VI, n. 26553/2015; Cass. IV, n. 2219/2015 e, di recente, Cass. III, n. 44909/2016).

La congruità della durata delle misure è tra gli elementi che formano oggetto del vaglio giudiziale, che sarà effettuato alla luce di parametri di ragionevolezza, proporzionalità e minore incisività possibile della limitazione imposta.

Il decreto con il quale il giudice decide sulla convalida è comunicato o notificato, a cura della cancelleria, al Questore e all'interessato; non è, invece, obbligatoria la notifica al difensore, anche se è intervenuta nomina di parte (non essendo previsto alcun obbligo di una previa nomina di ufficio da parte del giudice) e benché gli sia riconosciuto il diritto di proporre ricorso per cassazione.

Non è previsto termine entro cui questi adempimenti comunicativi devono essere realizzati, di tal che può farsi richiamo, a colmare la detta lacuna, al disposto dell'art. 127, comma 7, c.p.p. secondo cui i provvedimenti assunti al giudice in camera di consiglio sono comunicati e notificati “senza ritardo”.

Il ricorso per cassazione

Sebbene l'art. 75-bis prevedesse testualmente la possibilità di ricorrere in cassazione solo avverso i provvedimenti di revoca o modifica delle misure ai sensi del comma 3, tuttavia la giurisprudenza prevalente ammetteva il citato ricorso anche a fronte del mero provvedimento che concludeva il giudizio di convalida dell'atto del Questore.

Ciò discendeva, come accennato, dalla natura limitativa delle libertà personali delle misure de quibus, che imponeva la ricorribilità alla stregua del generale principio di cui all'art. 111 Cost.

Peraltro, l'impugnazione in questa materia per pacifica giurisprudenza (da ultimo, Cass. VI, n. 35044/2007) è circoscritta alla sola violazione di legge e non si estende al controllo dell'iter giustificativo della decisione, a meno che questo non sia del tutto assente.

In giurisprudenza si era anche chiarito che l'annullamento del decreto di convalida comporta la perdita di efficacia del provvedimento del Questore, poiché una rinnovata convalida incontrerebbe l'ostacolo del termine di quarantotto ore stabilito dalla legge, ormai decorso (Cass. VI, n. 39212/2010).

La proposizione del ricorso per cassazione non ha – per espresso disposto di legge – effetto sospensivo dell'efficacia del decreto impugnato (art. 75-bis, comma 3, d.P.R. n. 309/1990).

La Suprema Corte ha poi osservato che all'accoglimento del ricorso avverso l'ordinanza di convalida del decreto del Questore emesso ai sensi dell'art. 75-bis consegue l'annullamento del predetto decreto, senza rinvio, limitatamente all'ordine di presentazione presso l'autorità di Polizia e, con rinvio, quanto alle altre prescrizioni; al contrario, le rimanenti imposizioni, gravando sulla sola libertà di locomozione, non sono assistite, quanto alla eventuale perdita di efficacia dei provvedimenti limitativi della stessa, dalle rigide scansioni temporali fissate dall'art. 13 della Costituzione per la convalida, da parte della autorità giudiziaria, degli eventuali provvedimenti incidenti sulla libertà personale.

La revoca e la modifica

L'art. 75-bis, comma 3 d.P.R. n. 309/1990 prevedeva la possibilità di modifica o revoca delle misure, in tempo successivo alla loro convalida, a seguito di istanza dell'interessato (in questo caso il giudice di pace deve sentire il Questore), mentre non era testualmente contemplata la possibilità che l'istanza di revoca fosse formulata dal Questore al quale – secondo il disposto di legge – sarebbe consentito procedere alla richiesta di revoca delle misure applicate solo nello specifico caso di soggetto che si fosse sottoposto a un programma terapeutico e di recupero socio-riabilitativo con esito positivo.

L'ipotesi tipica di revoca – da parte del giudice di pace – del provvedimento di convalida del decreto questorile applicativo di una delle misure previste dall'art. 75-bis, in esame, ricorreva laddove fosse stata accertata la mancanza ab origine dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione delle stesse (Cass. IV, n. 6869/2011); in tal caso, in applicazione della giurisprudenza citata, il Questore era a sua volta legittimato a interporre impugnazione mediante ricorso per cassazione.

Entrambe le parti potevano, poi, chiedere la modifica delle prescrizioni (nel caso di richiesta del Questore, quest'ultimo deve avvisare – a sua volta – l'interessato della facoltà prevista dal comma 2 dell'art. 75-bis); su istanza di parte le misure potevano, inoltre, essere modificate o revocate dal giudice di pace competente qualora fossero cessate ovvero modificate le condizioni che ne avevano giustificato l'applicazione.

La competenza era radicata con riferimento al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio del prevenuto, in analogia con quanto dispone per la convalida il comma 2 dell'art. 75-bis e avverso la decisione del giudice di pace sulla richiesta modifica/revoca delle misure era proponibile ricorso per cassazione che, anche in questo caso, non spiegava effetto sospensivo dell'efficacia del provvedimento impugnato.

Una fattispecie particolare di revoca delle misure di cui all'art. 75-bis, d.P.R. n. 309/1990 ricorreva, allorché il Prefetto avesse verificato che il soggetto si era sottoposto con successo ai programmi di recupero per tossicodipendenti (art. 122).

In questa evenienza, il Prefetto doveva vagliare le relazioni prodotte dai responsabili della struttura Ser.T. che aveva seguito il soggetto e le note dei responsabili della struttura comunitaria che l'aveva ospitato; il decreto prefettizio di revoca era comunicato al Questore e al giudice di pace, che avrebbe proceduto senza formalità alla revoca della misura di prevenzione (75-bis, comma 4, d.P.R. n. 309/1990).

La sentenza n. 94/2016 della Corte costituzionale

Come accennato, la sentenza n. 94/2016 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-quater del decreto legge n. 272/2005; la decisione della Corte trova il proprio antecedente nella nota pronuncia n. 32/2014 che già aveva dichiarato illegittime altre disposizioni (artt. 4-bis e 4-vicies ter) introdotte in sede di conversione del d.l. n. 272/2005, per eterogeneità delle medesime rispetto al contenuto, alla finalità e alla ratio complessiva dell'originario decreto-legge.

Le considerazioni sviluppate in quella sentenza sono state riproposte per la disposizione di cui all'art. 4-quater.

Si è colà osservato che se ancora poteva identificarsi una continuità tra l'obiettivo governativo del recupero dei tossicodipendenti e la disposizione introdotta con l. n. 49/2016 (disposizione il cui scopo era quello di impedire l'interruzione del programma terapeutico per determinate categorie di recidivi), la previsione di misure prevenzionali e punitive era invece risultata nuovamente estranea alla ratio indicata.

Di qui, secondo la sequenza già avviata con la sentenza n. 22/2012, il giudizio della Corte circa il contrasto della normativa censurata con il secondo comma dell'art. 77 Cost. e la conseguente integrale dichiarazione di illegittimità dell'art. 4-quater del d.l. n. 272/2005 e, dunque, dell'art. 75-bis del d.P.R. n. 309/1990.

L'art. 4 dell'originario testo del decreto-legge contiene – ha chiarito la Consulta – norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l'interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza;

diversamente, la disposizione di cui all'art. 4-quater, oggetto del nuovo giudizio e introdotta dalla legge di conversione, prevedeva anche norme a carattere sostanziale, del tutto svincolate da finalità di recupero del tossicodipendente, ma piuttosto orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica.

Pur contenute in un'unica disposizione, le norme di nuova introduzione avevano dunque una portata sistematica, coinvolgente istituti di estrema delicatezza quali sono quelli delle misure di prevenzione atipiche e delle reazioni sanzionatorie alla loro violazione.

L'esame del contenuto della disposizione impugnata denotava, pertanto, la palese estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite, in modo da evidenziare, sotto questo profilo, una violazione dell'art. 77, comma 2, Cost. per difetto del necessario requisito dell'omogeneità, in assenza di qualsivoglia nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte, con emendamento, in fase di conversione.

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