Ricorso avverso il foglio di via obbligatorio (art. 2 d.lgs. n. 159/2011)

Corinna Forte

Inquadramento

Qualora le persone indicate nell'art. 1 del d.lgs. n. 159/2011 (vale a dire: a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'art. 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica) siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dei luoghi di residenza, il Questore può rimandarvele con provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, nel comune dal quale sono allontanate.

Il rimpatrio con f.v.o. costituisce, quindi, una misura di prevenzione personale che prescinde per la sua applicazione da un previo procedimento di carattere giurisdizionale, presentando i connotati dell'atto amministrativo.

Detto provvedimento, avendo carattere di misura di polizia diretta a prevenire reati piuttosto che a reprimerli, presuppone una valutazione di pericolosità per la sicurezza pubblica: esso, pur non richiedendo prove della commissione di reati, deve tuttavia essere adeguatamente motivato mediante il riferimento a specifici comportamenti attuali dell'interessato, ossia a condotte materiali da lui tenute, idonee a rivelare in modo oggettivo un'apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti, fermo restando che tali comportamenti non devono per forza tradursi in circostanze univoche ed episodi definiti, ma possono anche desumersi da una valutazione indiziaria fondata su elementi di portata generale e di significato tendenziale, ovvero sulla frequentazione di contesti delinquenziali.

L'atto, insomma, dovrà fare riferimento agli elementi di fatto sui quali si basa il giudizio di appartenenza dell'interessato a una delle categorie indicate nell'art. 1, indicando le ragioni che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso, non essendovi coincidenza tra l'appartenenza a una delle categorie di cui al predetto art. 1 e la pericolosità per la sicurezza pubblica ex art. 2 della medesima legge.

I parametri di valutazione della pericolosità sociale, quindi, sono gli stessi che presiedono all'applicazione delle misure di prevenzione a carattere giurisdizionale e il semplice riferimento al criterio di appartenenza a una delle categorie espressamente considerate risulta insufficiente, essendo richiesto l'ulteriore requisito della pericolosità per la sicurezza pubblica.

La prognosi dovrà, come sempre, essere attuale giacché le manifestazioni pregresse, disancorate da dati di continuità nel presente, e i meri giudizi futuribili sono esclusi dal concetto di pericolosità; il giudizio di pericolosità scaturente dalla presenza di un soggetto in una determinata città – per giustificare il provvedimento di rimpatrio obbligatorio – necessita al contrario di una valutazione unitaria e complessiva degli elementi di fatto, delle denunce e delle condanne che riguardano il destinatario del provvedimento.

Formula

AL SIG. PREFETTO DI....

RICORSO AVVERSO IL FOGLIO DI VIA OBBLIGATORIO

Il sottoscritto avvocato...., difensore di fiducia/di ufficio di.... nato a....,

sottoposto a foglio di via obbligatorio emesso dal Questore di.... in data.... (notificato in data....)

PROPONE

ricorso in via gerarchica avverso il citato provvedimento per difetto di istruttoria circa la situazione personale e familiare del sottoposto.

Invero, il gravato foglio di via obbligatorio, pur dando atto dei precedenti di polizia a carico del ricorrente va ritenuto viziato da eccesso di potere per difetto di istruttoria, nonché in ragione della violazione dell'art. 8 della CEDU che tutela, quale diritto fondamentale della persona, l'integrità familiare.

L'art. 8 CEDU salvaguarda l'unità familiare, intesa quale vincolo tra genitori e figli o tra parenti legati da consanguineità e convivenza effettiva; pertanto, come ogni diritto fondamentale non è soggetto a restrizioni salvo che le stesse siano previste dalla legge e soltanto per fini legittimi (assicurare la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui) nei limiti di quanto strettamente necessario per perseguirli (art. 8 §.2).

Nel caso in esame il Questore ha ignorato le esigenze di assistenza del.... del ricorrente (familiare, coniuge), ammalato, determinando così un'indebita ingerenza nella sua serenità familiare, concretizzatasi in un difetto d'istruttoria per non aver l'autorità di pubblica sicurezza valutato la particolare situazione familiare e di salute del congiunto del ricorrente.

L'Autorità aveva, in aggiunta, l'onere di valutare anche la situazione familiare del destinatario della misura, pena l'eventuale illegittimità del provvedimento adottato nel caso in cui si traduca nella lesione del diritto fondamentale all'unità familiare dello stesso (sancito dall'art. 8 della CEDU).

Pertanto, si richiede alla S.V. di disporre l'annullamento del provvedimento impugnato.

Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato:.....

Con osservanza

Luogo e data....

Firma....

Commento

Profili generali

Il rimpatrio con f.v.o. costituisce una misura di prevenzione personale che prescinde, per la sua applicazione, dal previo procedimento di carattere giurisdizionale, presentando i connotati dell'atto amministrativo.

Detto provvedimento, avendo carattere di misura di polizia diretta a prevenire reati piuttosto che a reprimerli, presuppone un giudizio di pericolosità per la sicurezza pubblica: esso, pur non richiedendo prove della commissione di reati, deve comunque essere motivato con riferimento a concreti comportamenti attuali dell'interessato, ossia a episodi di vita atti a rivelare in modo oggettivo un'apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti, fermo restando che tali comportamenti non devono concretarsi necessariamente in circostanze univoche e in episodi definiti, ma possono desumersi da una valutazione indiziaria fondata su elementi di portata generale e di significato tendenziale.

L'atto deve fare riferimento agli elementi fattuali sui quali si basa il giudizio di appartenenza dell'interessato a una delle categorie indicate nell'art. 1 e indicare le ragioni che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso, non essendovi coincidenza tra l'appartenenza a una delle categorie di cui al predetto art. 1 e la pericolosità per la sicurezza pubblica ex art. 2 della medesima legge (così Cass. I, n. 121/1996; T.A.R. Napoli (Campania) IV, n. 561/2007; T.A.R. Lombardia III, n. 3725/2009, ove si sottolinea che “ai fini dell'ordine di rimpatrio nei confronti di chi si trovi fuori dei luoghi di residenza, il Questore deve accertare la sussistenza di due presupposti necessariamente concorrenti, ossia che si tratti di un soggetto inquadrabile – sulla base di elementi di fatto – in una delle categorie previste dall'art. 1 della legge e che lo stesso soggetto risulti pericoloso per la sicurezza pubblica. Pertanto, il provvedimento di rimpatrio deve specificare sia le circostanze di fatto sulle quali si basa il giudizio di riconducibilità dell'interessato a una delle categorie, sia le ragioni che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso, non essendovi coincidenza tra l'appartenenza a una delle predette categorie e la pericolosità per la sicurezza pubblica”).

I parametri di valutazione della pericolosità sociale, quindi, sono gli stessi che presiedono all'applicazione delle misure di prevenzione a carattere giurisdizionale e il semplice riferimento al criterio di appartenenza a una delle categorie espressamente considerate risulta insufficiente, essendo invece richiesto l'ulteriore presupposto della pericolosità per la sicurezza pubblica che non può, quindi, basarsi su meri sospetti o presunzioni.

La prognosi dovrà, come sempre, essere attuale, giacché le manifestazioni pregresse, disancorate da dati di continuità nel presente o meri giudizi futuribili sono esclusi dal concetto di pericolosità.

In base ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cass. I, n. 6544/2013), non sussiste l'obbligo di comunicazione all'interessato, prescritto dalla l. n. 241/1990, art. 7, dell'avvio del procedimento per l'emanazione del provvedimento del Questore di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, previsto dall'art. 2 d.lgs. n. 159/2011, qualora, per esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, ricorra la necessità di provvedere all'immediato allontanamento del soggetto giudicato pericoloso.

Infatti, in tal caso la comunicazione dell'avvio del procedimento potrà essere omessa in quanto – concretizzandosi l'attività svolta dall'Autorità di Polizia direttamente con l'emanazione del provvedimento stesso per la mancanza di adempimenti intermedi – l'avvio del procedimento amministrativo coincide con l'emanazione del provvedimento di rimpatrio, di guisa che l'interessato non avrebbe comunque avuto la possibilità di interloquire con memorie e produzione di documenti a propria difesa.

Presupposti e ambito soggettivo di applicazione

I requisiti della misura in esame sono così individuati: appartenenza a una delle categorie personologiche di cui all'art. 1 d.lgs. n. 159/2011; pericolosità per la sicurezza pubblica; circostanza che il soggetto si trovi al di fuori del suo luogo di residenza.

L'art. 2 citato (che riprende l'art. 2 della l. n. 1423/1956) nel testo vigente stabilisce che le persone ricomprese nelle categorie di cui all'art. 1 della stessa legge, allorché si trovino fuori del comune di residenza, possano esservi rimandate, con atto motivato del Questore, qualora risultino pericolose per la sicurezza pubblica; con lo stesso provvedimento, inoltre, si impone ai destinatari il divieto di rientrare senza autorizzazione – e comunque per un tempo non superiore a tre anni – nel comune dal quale sono stati allontanati.

Il contenuto dettagliato delle prescrizioni imposte con il provvedimento in questione è rinvenibile nel r.d. n. 635/1940, recante il Regolamento per l'esecuzione del T.U.L.P.S., e in particolare agli artt. 295, 296 e 297. Come si è anticipato, non basta ai fini delle legittimità dell'ordine di rimpatrio la sola appartenenza a una delle categorie indicate nell'art. 1, perché è altresì necessario che si tratti di persona pericolosa per la sicurezza pubblica; pertanto, la misura richiedere un quid pluris, sotto il profilo del quoziente di pericolosità, rispetto al riferimento al grado di pericolosità scaturente dall'appartenenza del soggetto alle categorie di persone indicate dalla legge.

La sussistenza della pericolosità non richiede prove compiute della commissione di reati, ma si giustifica ex se con riguardo ad episodi di vita che, secondo la prudente valutazione dell'Autorità di Polizia, rivelino oggettivamente un'apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti da parte di un soggetto rientrante in una delle categorie previste dalla legge (cfr. Cons. St. III, n. 368/2012; T.A.R. Liguria (Genova) I, n. 608/2017 e n. 202/2016; T.A.R. Lazio (Roma) I, n. 1831/2017; T.A.R. Abruzzo (L'Aquila) I, n. 646/2014).

Il combinato disposto degli artt. 1, comma 1, lett. c), e 2 del d.lgs. n. 159/2011, attribuisce al Questore il potere discrezionale di irrogare la misura di prevenzione personale del foglio di via obbligatorio nei confronti dei soggetti che, sulla scorta di un giudizio prognostico, basato su elementi di fatto attuali e concreti, debbano ritenersi dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo una serie di beni giuridici, tra i quali la sicurezza e la tranquillità pubblica (T.A.R. Lombardia (Milano) I, 29 luglio 2020, n. 1457).

Gli “elementi di fatto” richiesti dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 159/20011, in coerenza con la funzione preventiva della misura, ricomprendono qualsiasi elemento indiziario, inclusi i precedenti penali e di polizia, la personalità del soggetto interessato o le sue relazioni con altri soggetti, e tuttavia essi devono rivelare l'attualità della pericolosità del soggetto nella reiterazione di reati idonei a porre in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica. La pericolosità del soggetto, ove si fondi su precedenti penali risalenti, non può essere dunque desunta in via automatica dalla mera sussistenza degli stessi, ma deve essere ricavata da una stretta correlazione tra le categorie di reati commessi in passato e quelli la cui commissione si vuole arginare con l'applicazione della misura di prevenzione (T.A.R. Lombardia (Milano) I, 29 luglio 2020, n. 1457).

In tema di rimpatrio con foglio di via, i comportamenti concreti rilevanti non debbono necessariamente concretarsi in circostanze univoche e in episodi definiti, ma ben possono desumersi anche da una semplice valutazione indiziaria fondata su circostanze di portata generale e di significato tendenziale, o su contesti significativi nel loro complesso (T.A.R. Lombardia (Milano) I, 20 luglio 2020, n. 1376; T.A.R. Abruzzo (Pescara), 24 dicembre 2019, n. 321).

Il provvedimento di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, previsto dall'art. 2 d.lgs. n. 159/2011, è diretto a prevenire reati socialmente pericolosi, non già a reprimerli; di conseguenza, pur non occorrendo la prova di una avvenuta commissione di reati, occorre una motivata indicazione dei comportamenti e degli episodi, desunti dalla vita e dal contesto socio-ambientale dell'interessato, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose (Cons. St. III, n. 662/2017; Cons. St. VI, n. 4648/2020; T.A.R. Lombardia (Milano) I, 11 febbraio 2021, n. 379).

La prognosi di pericolosità, che giustifica l'irrogazione della misura di prevenzione de qua, è una valutazione ampiamente discrezionale, che sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non sotto i profili dell'abnormità dell'iter logico, dell'incongruenza della motivazione e del travisamento della realtà fattuale (T.A.R. Toscana II, 21 marzo 2019, n. 417).

È stato affermato, inoltre, che il provvedimento preventivo di rimpatrio con foglio di via obbligatorio deve essere motivato con riferimento a concreti comportamenti del soggetto dai quali possano desumersi indici di pericolosità per la sicurezza pubblica (cfr. T.A.R. Umbria (Perugia) I, n. 273/2014); comportamenti che, tuttavia, non debbono necessariamente concretarsi in circostanze univoche ed episodi definiti, ma possono desumersi da una valutazione indiziaria fondata su circostanze di portata generale e di significato tendenziale, o su contesti significativi nel loro complesso (cfr. T.A.R. Trentino-Alto Adige (Bolzano) I, n. 83/2017; T.A.R. Emilia Romagna I, 8 febbraio 2017).

La motivazione del provvedimento deve contenere il riferimento ai necessari indici di pericolosità che consentano di affermare che la persona nei cui confronti viene emesso abbia posto in essere attività o comportamenti socialmente pericolosi, potenzialmente rivolti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica, e che, dunque, la medesima debba ritenersi, ai sensi della l. n. 1423/1956, un soggetto pericoloso per la sicurezza pubblica (ancora T.A.R. Trentino - Alto Adige (Bolzano) n. 414/2008; T.A.R. Umbria (Perugia) n. 434/2006; T.A.R. Campania (Napoli) n. 4520/2006).

Destinatari del provvedimento-ordine sono, quindi, solamente coloro che versano in una duplice condizione: appartengono a una delle categorie previste dall'art. 1, nella triplice tipologia indicata, e la loro pericolosità deve essersi manifestata in un luogo diverso da quello di residenza, intesa non in senso anagrafico, ma come luogo effettivo di operatività del centro di interessi del soggetto.

Una questione controversa è quella relativa alla possibilità che la citata autorità deleghi legittimamente il potere di applicare le misure di prevenzione, cui si collega il problema conseguente dell'individuazione dei limiti entro i quali sia concepibile l'esercizio di tale facoltà.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è, in maniera assolutamente prevalente, nel senso che l'attribuzione della competenza al Questore non debba intendersi legata al Questore persona fisica, ma nel senso di “capo dell'ufficio di Questura”, con la conseguenza che – in base al principio di divisione organica del lavoro e di sostituzione del superiore – ben possa costui farsi sostituire da un funzionario dipendente, anche quando si tratta dell'irrogazione delle ricordate misure di prevenzione (vedasi Cass. I, 19 febbraio 1969).

Al contrario, si è affermata l'illegittimità di un ordine di rimpatrio adottato non già da un funzionario delegato, bensì dall'autorità locale periferica di pubblica sicurezza, nonostante l'esistenza di un provvedimento di delega, essendo la stessa non consentita in siffatte ipotesi a causa della distinzione – sia di funzioni che di ambito territoriale di azione – tra autorità locale periferica e autorità centrale del capoluogo di provincia. Ciò diversamente dalla delega di firma nell'ambito dello stesso ufficio centrale, questa sì legittima trattandosi di competenza interna (così Cass. I, 21 novembre 1960).

In dottrina, mentre taluni autori escludono in radice l'ammissibilità della delega di firma per l'emissione dell'ordine di rimpatrio, osservando che essa comporta sempre anche una delega di potere, altri – pur non condividendo la giurisprudenza che riconosce la competenza di un funzionario che faccia le veci del Questore, in quanto lo vieterebbe il principio di stretta legalità – ammettono tuttavia le funzioni vicarie su designazione ministeriale e anche la delega di firma.

Altro orientamento, invece, non ritiene legittima la delega se non in favore del funzionario vicario (a colui, ovvero, che sia incaricato di sostituire il Questore in caso di impedimento) escludendola quindi con riferimento ad altri funzionari diversi, pur se appartenenti al medesimo ufficio; ciò in quanto – si è detto – la delega sarebbe consentita solo per atti destinati a spiegare la propria efficacia nell'ambito dell'amministrazione, mentre qualora si tratti di provvedimenti idonei a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi estranei, essa sarebbe vietata dalla necessità di osservare il principio di legalità e non potrebbe avere luogo quando, appunto come nell'ipotesi di cui si discute, non fosse espressamente prevista dalla legge.

A giudizio della Suprema Corte (Cass. n. 48421/2019) ai fini della valutazione di legittimità del provvedimento del questore di divieto di rientro nel territorio di un comune per un periodo di tre anni, previsto dall'art. 2 del medesimo decreto legislativo, è comunque sufficiente che nella copia dell'ordine questorile notificata all'interessato si faccia menzione della conformità all'originale, recante la sottoscrizione dell'autorità competente (data aggiornamento 10 gennaio 2023)

Il rimpatrio obbligatorio opera nei confronti di coloro che si trovino fuori dei luoghi di residenza; per “luogo di residenza” si deve intendere, secondo l'opinione prevalente, non quello che risulta dalle certificazioni anagrafiche, bensì quello effettivo in cui il soggetto dimora abitualmente.

In altri termini prevale, ai fini dell'individuazione della residenza di cui all'art. 2 della l. n. 159/2011, la nozione civilistica di cui all'art. 43 c.c., ossia il luogo di dimora abituale (Cass. I, 17 novembre 1972).

La ratio dell'istituto, infatti, ha lo scopo di rimandare il soggetto nel luogo ove ha il centro dei suoi interessi in cui sono (o si presume che siano) più facili il suo reinserimento sociale e il controllo da parte degli organi di pubblica sicurezza, mentre costituisce un corollario dello scopo principale il divieto di ritornare nel comune dal quale è disposto l'allontanamento.

In ordine all'interpretazione della nozione in esame, in giurisprudenza, accanto a chi sostiene la prevalenza in ogni caso del dato formale quale emergente dalla certificazione anagrafica (Cass. II, 13 febbraio 1986, Guarnotta), vi è un altro orientamento che afferma che le risultanze anagrafiche costituiscano una presunzione relativa, vincibile con gli ordinari mezzi di prova (Cass. I, 25 gennaio 1993, e più recentemente Cass. I, n. 23022/2009).

Aderendo alla prima tesi, il soggetto non potrebbe essere rimpatriato dal luogo di residenza solo anagrafica, mentre potrebbe esserlo da quello di dimora abituale effettiva, mentre sostenendo il secondo approccio ermeneutico l'interessato non potrebbe essere allontanato dal luogo ove risiede abitualmente, pur se non iscritto nella relativa anagrafe, bensì dal comune di residenza anagrafica non corrispondente al luogo di reale dimora.

I concetti di residenza e di domicilio, sulla base sia del codice civile sia della normativa anagrafica, si presentano quindi come ben distinti; a ciò giova aggiungere che il domicilio, in quanto sede dei propri affari e interessi, appartiene alla sfera della discrezionalità personale e della scelta individuale e che non esiste un registro anagrafico del domicilio, mentre esiste l'anagrafe delle persone resistenti in un dato Comune.

Di recente la Suprema Corte (Cass. n. 24163/2022) ha chiarito che le prescrizioni di fare rientro nel luogo di residenza e di non ritornare nel comune oggetto dell'ordine di allontanamento costituiscono condizioni imprescindibili e inscindibili per la legittima emissione del foglio di via obbligatorio, sicché il mancato accertamento del luogo di residenza del destinatario della misura, con conseguente omissione dell'ordine di rimpatrio, determina l'illegittimità del provvedimento, sindacabile dal giudice penale, da cui deriva l'insussistenza del reato di cui all'art. 76, comma 3, d.lgs. n. 159/2011.

Si è osservato che nel provvedimento, sotto il profilo documentale, sono concettualmente distinguibili due distinti momenti, corrispondenti ad altrettanti atti: l'ingiunzione espressa con l'ordine di rimpatrio, contenente il divieto di rientro nel comune dal quale l'interessato è stato allontanato senza autorizzazione o prima del termine stabilito, e l'ordine di rimpatrio, individuabile come l'esecuzione del provvedimento del Questore che regola le modalità del rimpatrio stesso e stabilisce anche il percorso stradale che il sottoposto è tenuto a seguire, nonché l'obbligo di presentazione all'autorità di P.S. del luogo di destinazione.

Si ritiene che i due atti, solo formalmente distinti, siano in realtà complementari, costituendo il f.v.o. un atto di natura meramente esecutiva; si tratta in entrambi i casi di atti amministrativi, soggetti al regime derivante da tale riconosciuta natura giuridica e in primo luogo redatti necessariamente per iscritto, non essendo ammissibile, neppure nel caso di urgenza, l'uso della forma orale.

In concreto, il foglio di via obbligatorio, costituente l'ordine di esecuzione del rimpatrio, va compilato sull'apposito modello (mod. 25) prescritto dall'ultimo comma dell'art. 295 del regolamento per l'esecuzione del T.U.L.P.S. (r.d. n. 635/1940), costituito da due parti uguali di cui una rimane presso l'ufficio e l'altra è consegnata al rimpatriando.

La giurisprudenza ha precisato che il provvedimento di rimpatrio deve dare contezza dell'appartenenza dell'interessato a una delle categorie indicate dalla legge, della sua residenza, dell'indicazione degli elementi sui quali è basata l'affermazione di pericolosità sociale per la sicurezza pubblica in relazione alla permanenza del soggetto in quel luogo e, pertanto, della concreta possibilità del mancato rispetto di leggi fondamentali che attengono alla vita dello Stato, alla vita e all'incolumità dei cittadini, nonché alla salvaguardia dei beni pubblici e privati. Infine, deve recare l'ordine al destinatario di allontanarsi e l'inibizione di far rientro nel medesimo comune.

L'atto deve essere motivato a pena di illegittimità con riferimento agli elementi di fatto dai quali possa desumersi la pericolosità attuale e concreta del soggetto e in particolare; l'inibizione conterrà poi l'indicazione del comune o dei comuni nei quali si è manifestata la pericolosità del soggetto (la legge ha usato l'espressione “luoghi”), ma non potrà estendersi ad altri diversi comuni, anche se viciniori a quelli di allontanamento.

La motivazione del provvedimento di rimpatrio si estende anche al correlato F.V.O., di tal che non sarà indispensabile ripeterla in questo.

In un interessante arresto della giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Umbria (Perugia), n. 720/2017) si è disposto l'annullamento di un provvedimento di f.v.o. rispetto al quale il ricorso gerarchico era già stato rigettato per difetto di istruttoria circa la situazione personale e familiare del sottoposto.

Innanzitutto, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, i giudici amministrativi hanno confermato che i provvedimenti di rimpatrio per motivi di sicurezza pubblica, quale il foglio di via obbligatorio, costituiscono manifestazione della più ampia discrezionalità amministrativa in quanto tipici atti con finalità preventiva basati su un giudizio prognostico di pericolosità sociale.

Di conseguenza, gli stessi sfuggono al sindacato giurisdizionale se non sotto i profili dell'abnormità dell'iter logico, dell'incongruenza e dell'irragionevolezza della motivazione o del travisamento della realtà fattuale (in tal senso, T.A.R. (Umbria) I, n. 412/2012).

Ebbene, proprio sulla scorta di tale ultimo assunto è stato censurato l'operato dell'Autorità di polizia: difatti, il gravato foglio di via obbligatorio, pur dando effettivamente atto dei numerosi precedenti di polizia a carico del ricorrente (tra cui quelli concernenti la violazione della normativa in materia di stupefacenti, nonché dell'assenza di interessi lavorativi o di studio presso il Comune di dimora abituale) è stato ritenuto viziato da eccesso di potere per difetto di istruttoria, nonché emesso in violazione dell'art. 8 della C.E.D.U. che tutela, quale diritto fondamentale della persona, l'integrità familiare.

L'art. 8 C.E.D.U., ricordano i giudici, salvaguarda l'unità familiare intesa quale vincolo tra genitori e figli o tra parenti legati da consanguineità e convivenza effettiva; pertanto, come ogni diritto fondamentale, essa non è soggetta a restrizioni salvo che le stesse siano previste dalla legge e soltanto per fini legittimi (assicurare la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui) nei limiti di quanto strettamente necessario per perseguirli (art. 8 §.2) (cfr. Cass. I, n. 48684/2015).

Secondo le conclusioni cui è giunto il collegio, quindi, l'avere ignorato le esigenze di assistenza di un familiare, specie se malato, ha costituito un'indebita ingerenza nella sua serenità familiare, concretizzatasi in un difetto d'istruttoria per non aver l'autorità di pubblica sicurezza valutato la particolare situazione familiare e di salute del padre del ricorrente, nemmeno in seguito a quanto già disposto dallo stesso Tribunale in sede cautelare.

Si osserva, quindi, che – fermo restando il necessario giudizio di pericolosità per la sicurezza pubblica – l'Autorità aveva, in aggiunta, l'onere di valutare anche la situazione familiare del destinatario della misura, pena l'eventuale illegittimità del provvedimento adottato nel caso in cui si traduca nella lesione del diritto fondamentale all'unità familiare dello stesso (sancito dall'art. 8 della C.E.D.U.).

Tale diritto, tuttavia, nel nostro ordinamento non deve intendersi in senso assoluto: pertanto, spetterà all'Autorità questorile provvedere a bilanciare motivatamente il diritto alla vita familiare con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l'esigenza di prevenire minacce all'ordine pubblico.

Relativamente alla durata del provvedimento, la non felice formulazione letterale della legge “potrebbe indurre a sostenere che siano consentiti il divieto a tempo indeterminato, salva la possibilità di preventiva autorizzazione, oppure il divieto a tempo determinato non suscettibile di alcuna autorizzazione a un momentaneo ritorno.

Dottrina e giurisprudenza, facendo leva sui lavori preparatori, hanno invece escluso l'alternatività sopra indicata e hanno interpretato la disposizione nel senso che l'inibizione non può avere mai durata superiore ai tre anni e che la preventiva autorizzazione, posta a favore del rimpatriato, opera entro tale termine, decorso il quale il provvedimento cessa di avere efficacia.

Ne consegue che appare opportuno che sia esplicitamente apposto il termine entro cui al rimpatriato è impedito di tornare nel comune di allontanamento, anche ribadendo i tre anni previsti dalla norma, proprio perché costituisce anch'esso un elemento sintomatico della pericolosità.

 

Il cd. “Decreto Caivano

Nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 15 settembre 2023 è stato pubblicato il Decreto- legge 15 settembre 2023, n. 123 (così detto Decreto Caivano), rubricato "Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale.”

La norma, approvata sull’onda emotiva di un grave fatto di cronaca che aveva interessato minori residenti nel rione denominato “Parco Verde” di Caivano, cittadina in provincia di Napoli nota perché vi hanno sede alcune delle più vaste e fiorenti attività di spaccio di stupefacenti d’Europa, oltre a prevedere novità in materia di offerta formativa e tutela dei rapporti dei minori con il mondo digitale e virtuale, si è caratterizzata per l’inasprimento di talune sanzioni penali (ad esempio, è stato aumentato da quattro a cinque anni di reclusione il massimo edittale per la fattispecie “lieve” di spaccio di droga di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/90) e per la volontà di rendere utilizzabili alcuni strumenti di prevenzione ordinamentali anche nei riguardi dei soggetti di età inferiore agli anni 18.

Ciò vale, come si vedrà, nel settore delle misure di prevenzione amministrative sia per il foglio di via obbligatorio (art. 3 del testo in commento) che per l’avviso orale (art. 2), entrambe rimesse alla competenza questorile: quanto a questo ultimo strumento, si è intervenuti sul ricordato articolo 2 sostituendone il comma 1 che adesso è così formulato “1. Qualora le persone indicate nell'articolo 1 siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino in un comune diverso dai luoghi di residenza o di dimora abituale, il questore, con provvedimento motivato, può ordinare loro di lasciare il territorio  del  medesimo comune entro un termine non superiore a quarantotto ore, inibendo  di farvi ritorno, senza preventiva autorizzazione, per  un  periodo  non inferiore a sei mesi e non superiore a quattro anni. Il provvedimento è efficace nella sola parte in cui dispone il divieto di ritorno nel comune, nel caso in cui, al momento  della  notifica,  l'interessato abbia già lasciato il territorio del comune dal quale il questore ha disposto l'allontanamento”.

Come può notarsi, la novella non incide sull’ambito soggettivo di applicazione della misura, che rimane invariato, ma riformula la disposizione tenendo conto dell’elaborazione giurisprudenziale innanzi citata, formatasi nel corso degli anni: in tal senso, con ogni probabilità, va letta la specificazione del luogo “di dimora abituale” accanto a quello già presente nella formulazione previgente (il “luogo di residenza”) al fine di tenere conto non solo e non necessariamente del dato anagrafico della residenza ma anche di quello, in concreto più importante, della dimora abituale; altra riformulazione concerne l’espunzione dall’art. 2 delle parole “foglio di via obbligatorio” presenti in precedenza accanto all’espressione “provvedimento motivato”, evidentemente al fine di rimarcare il carattere unitario dell’atto amministrativo questorile, di cui si ribadisce la necessità di motivazione e si chiarisce il contenuto, precisandosi che si tratta appunto di un ordine funzionale a costringere il soggetto pericoloso a lasciare un determinato territorio.

Altra novità importante concerne il dato temporale: da una parte, si è introdotto un termine entro il quale il pericoloso dovrà allontanarsi dal territorio inibitogli, evidentemente sia in modo da contemperare le esigenze di pubblica sicurezza con quelle di organizzazione personale dell’interessato e sia al fine di rendere accertabile in modo semplice e univoco il momento dal quale costui, non ottemperando, commette il reato di cui all’art. 75 dello stesso testo; dall’altra, è stato inserito un limite minimo di durata del f.v.o. (prima non previsto e oggi stabilito in sei mesi) e si è deciso di allungare il termine massimo di durata della misura, che era in precedenza di tre anni e oggi è stato portato a quattro anni.

Ulteriore novità riguarda la precisazione secondo la quale il provvedimento è efficace nella sola parte concernente il divieto di rientro qualora l’interessato, all’atto della notifica, avesse già lasciato il territorio: ciò a tutta evidenza proprio per evitare il rischio di problemi concreti di applicazione del divieto allorché non possa, nel singolo caso specifico, darsi seguito alla prima parte del provvedimento medesimo contenente l’ordine di allontanarsi del territorio inibito; infine, va segnalata una modifica non solo terminologica ma concettuale, laddove si è deciso di sostituire le parole “il questore può rimandarvele”, che ponevano l’accento su una sorta di esecuzione “coattiva” del provvedimento mediante il materiale allontanamento del pericoloso da un dato territorio,  con la più asettica espressione “può ordinare loro di lasciare il territorio” che invece lascia intendere che sarà sempre onere e dovere dell’interessato obbedire al provvedimento (pena l’inflizione di sanzioni penali) ma non potrà esservi un’esecuzione manu militari dello stesso.   La disciplina così delineata non ha subito modifiche per effetto della conversione, con legge n. 159 del 13 novembre 2023 (pubblicata in G.U. del 14 novembre 2023) del ricordato Decreto.

È stata modificata anche l’altra misura di prevenzione amministrativa, l’Avviso orale, stabilendo all’art. 3 comma 3 bis del CAM che detto avviso possa essere rivolto anche ai soggetti minori di  diciotto  anni che abbiano compiuto  il  quattordicesimo  anno  di  eta' e che, ai  fini dell'avviso orale, il  questore debba  convocare  il  minore,  unitamente  ad almeno un genitore o ad altra persona  esercente  la  responsabilita' genitoriale; si è previsto che in tali casi gli effetti dell'avviso orale cessani comunque al compimento della maggiore eta'.

Altra novità è costituita dall’inserimento nell’art. 3, dopo il comma 6, dei commi 6 bis, 6 ter e 6 quater a norma dei quali: nei casi di cui ai commi 1 e 3-bis, se il soggetto al quale e' notificato l'avviso orale risulta condannato, anche  con  sentenza non definitiva,  per  uno  o  piu'  delitti  contro  la  persona,  il patrimonio ovvero inerenti alle armi o alle sostanze stupefacenti, il questore puo' proporre al tribunale di cui al comma 6  l'applicazione del divieto di utilizzare, in tutto o in parte, piattaforme o servizi informatici e telematici specificamente indicati nonche'  il  divieto di possedere o di utilizzare telefoni  cellulari,  altri  dispositivi per le comunicazioni dati  e  voce  o  qualsiasi  altro  apparato  di comunicazione radio trasmittente, quando il suo utilizzo  e'  servito per la realizzazione o  la  divulgazione  delle  condotte  che  hanno determinato l'avviso orale. Alla  persona  avvisata  oralmente  viene notificata la proposta di cui al periodo precedente  e  data  notizia della facolta' di presentare, personalmente o a mezzo  di  difensore, memorie o deduzioni al  giudice  competente  per  l'applicazione  del divieto; il giudice provvede,  con  decreto  motivato,  entro  trenta giorni dal deposito della proposta. Il divieto e'  disposto  per  una durata non superiore a due anni, con  l'individuazione  di  modalita' applicative compatibili con le esigenze di salute, famiglia, lavoro o studio del destinatario del provvedimento. In caso di  rigetto  della proposta di cui al comma 6-bis,  e'  fatto  comunque  salvo  l'avviso orale emesso dal questore. Infine, il comma 6 quater stabilisce che contro il decreto di cui al comma  6-ter  e'  proponibile ricorso per cassazione, che però non  sospende  l'esecuzione  del decreto.

Trattasi di un’ipotesi per così dire “speciale” rispetto a quella di cui al comma 4 che si caratterizza per peculiarità sia sotto il profilo soggettivo (qui rileva la condanna, anche non irrevocabile, solo per alcune categorie di delitti di particolare allarme sociale mentre l’ipotesi “generale” fa riferimento in modo più ampio alla condanna, qui però necessariamente irrevocabile, per qualsiasi delitto non colposo) che oggettivo, avendo il divieto ad oggetto precipuamente il divieto di possedere o utilizzare piattaforme o servizi informatici o telematici ovvero telefoni cellulari et similia e purchè tali oggetti siano serviti per la divulgazione o la commissione delle condotte che hanno determinato l’applicazione della misura.

Molto significativa appare, poi, la previsione di una procedura giurisdizionale per l’applicazione del divieto, in cui l’autorità amministrativa chieda al tribunale di provvedere e siano salvaguardate le esigenze di difesa e di rappresentanza dell’interessato: trattasi, com’è chiaro, dell’adeguamento della norma al dictum della sentenza n. 2/2023 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 nella parte in cui includeva i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo.

La Consulta ha ritenuto fondate le questioni connesse alla violazione dell’art. 15 Cost.:  la Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata; al tempo stesso, in termini generali, le regole attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale ora in esame: anzi, sempre in termini generali, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare; esiste tuttavia un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione; esattamente questo accade, in forza di ciò che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia consente di fare al questore, oltretutto in una materia, quella delle misure di prevenzione, di particolare delicatezza, perché finalizzata a consentire forme di controllo, per il futuro, sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto, ma non deputate alla punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato (di recente, sentenza n. 180 del 2022).

Le esigenze di prevenzione – prosegue la Corte - ben possono giustificare incisive misure restrittive, quali quelle che il questore può assumere sulla base dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ma non possono che assoggettarsi all’evocato imperativo costituzionale; è difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare, «spazio vitale che circonda la persona» (sentenze n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), in quanto attinente alla sua dimensione sociale e relazionale; tuttavia, nel caso  della disposizione censurata a giudizio della Corte ciò non avviene proprio in quanto  la misura limitativa non era disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria.

Il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta infatti associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa (sentenze n. 113 del 1975 e n. 68 del 1964; si vedano, inoltre, le sentenze n. 177 del 1980 e n. 53 del 1968).

Analogamente a quanto la Consulta ha già stabilito con riguardo a misure di prevenzione restrittive della libertà personale, è stato dunque affermato che anche la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è «necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sentenza n. 11 del 1956). Come accade nell’ambito delle stesse misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (ai sensi, ad esempio, dell’art. 5, comma 1, cod. antimafia), ben può spettare anche al questore la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma non gli compete di adottare il provvedimento, poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione.

L’art. 3, comma 4, cod. antimafia è stato dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo, con la conseguenza che d’ora in poi per poter disporre tali misure sarà appunto necessario l’intervento dell’autorità giudiziaria.  

Gli strumenti di tutela previsti dall'ordinamento

Avverso il provvedimento del Questore, oltre alla richiesta di revoca avanzata dal sottoposto alla medesima autorità, sono esperibili i mezzi di tutela tipici degli atti amministrativi: è pertanto ammesso il ricorso gerarchico, sia per ragioni di merito che di legittimità, al Prefetto la cui determinazione, in virtù delle norme di semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi introdotte dal d.P.R. n. 1199/1971 e contrariamente a quanto previsto in precedenza dall'art. 6 del T.U.L.P.S. (che prevedeva, invece, l'ulteriore ricorso al Ministro), è definitiva.

Peraltro, è evidente che contro quest'ultimo provvedimento sono sempre esperibili il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica o il ricorso giurisdizionale, nel rispetto della regola dell'alternatività, secondo la quale electa una via non datur recursus ad alteram; tutto ciò salva la facoltà della diretta impugnativa in sede giurisdizionale, e cioè senza necessità di attivare prima il ricorso gerarchico, riconosciuta dall'art. 20 della legge istitutiva dei T.A.R.

Il sindacato da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria investe soltanto la legittimità dell'atto, il cui merito è valutabile esclusivamente nella competente sede amministrativa; è altresì pacifico che l'eventuale disapplicazione da parte del giudice del provvedimento illegittimo sia circoscritta al solo caso dedotto (Cass. I, 25 giugno 1973, in Giust. pen., 1975, III).

La conformità del rimpatrio con f.v.o. deve essere accertata dal giudice penale alla luce dei noti parametri dell'incompetenza, della violazione di legge e dell'eccesso di potere: in particolare, quest'ultimo vizio è suscettibile di cognizione da parte dell'A.G. non solo nella sua forma più tradizionale dello sviamento di potere, ma anche nelle diverse figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza amministrativa (travisamento dei fatti, manifesta ingiustizia, disparità di trattamento, errore sui presupposti di fatto o di diritto, motivazione insufficiente o aberrante perché contraddittoria rispetto alle premesse di fatto, etc.).

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