Richiesta di revoca della sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza per il venir meno dei presupposti genetici (ex tunc) (art. 11 d.lgs. n. 159/2011).InquadramentoL'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che il decreto applicativo della misura di prevenzione può essere revocato o modificato, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità che lo aveva proposto, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Ai fini della revoca della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, il giudice della prevenzione è tenuto a compiere una complessiva valutazione della persistente condizione di pericolosità sociale del sottoposto che – senza alcun automatismo valutativo e decisorio – tenga conto degli elementi originariamente acquisiti, correlandoli a quelli relativi all'evoluzione della personalità in relazione all'eventuale periodo di detenzione patito e alle ulteriori emergenze processuali. È stato pure sostenuto il principio secondo il quale, dall'unitarietà della valutazione personologica posta a fondamento del provvedimento applicativo, discende che la pericolosità dell'interessato o emerge all'esito della valutazione unitaria degli indizi o deve essere negata: il venir meno nel corso del procedimento di applicazione di uno degli elementi su cui questa si fondava non comporta una proporzionale riduzione della quantità (temporale o oggettiva) della misura. Tale comportamento, dunque, deve presentarsi come rivelatore dell'attenuazione o della scomparsa della pericolosità sociale tale da costituire indice, nel suo complesso, di riadattamento sociale, idoneo a non giustificare più il mantenimento di tutte le limitazioni della libertà personale in precedenza imposte. Ad esempio, evento rilevante ai fini della revoca della misura può essere il sopravvenire di una sentenza assolutoria perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, circostanza che fa venire meno il presupposto fattuale che ha fondato la misura, stigmatizzato nell'imputazione; al contrario, non è sufficiente a giustificare la revoca anticipata della misura il mero esercizio di attività lavorativa stabile. Formula
Al Sig. Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di.... Il sottoscritto Avv..... del Foro di.... con studio in.... alla via...., difensore di fiducia di.... nato a...., nei cui confronti è stato emesso in data.... dal Tribunale di.... decreto con il quale è stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di....; che con il citato decreto egli è stato ritenuto appartenente al clan camorristico....; che detto decreto è divenuto definitivo dal....; rilevato che l'esecuzione di detta misura è iniziata in data.... e che la stessa è ancora in corso, residuando anni due di sorveglianza speciale di P.S.; PREMESSO che la valutazione circa la pericolosità sociale va compiuta in modo specifico, soprattutto in ordine alle posizioni dei soggetti cui è stata attribuita una delle qualità soggettive prese in esame dall'art. 4 del Codice Antimafia; che se è vero che, secondo la Suprema Corte, ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, quando risulta adeguatamente dimostrata detta appartenenza, non è necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di attuale pericolosità, che potrebbe essere esclusa solo nel caso di recesso dall'associazione, del quale occorrerebbe acquisire positivamente la prova, non bastando a tal fine eventuali riferimenti al tempo trascorso dall'adesione o dalla concreta partecipazione ad attività associative (Cass. VI, n. 41977/2014), tuttavia non può trascurarsi la rilevanza di un precedente assolutorio in sede penale; che il prevenuto, infatti, è stato assolto in data.... dal delitto di cui all'art. 416-bis c.p. per quanto riguarda la sua partecipazione al citato sodalizio criminale; che tale pronuncia è intervenuta prima della conferma in appello della misura di prevenzione; che la pericolosità sociale del prevenuto deve ritenersi esclusa in radice proprio in forza della menzionata sentenza di assoluzione; CHIEDE La revoca anticipata con effetto ex tunc della misura in corso per il venir meno dei suoi presupposti applicativi, con particolare riferimento all'inesistenza originaria della pericolosità sociale del sottoposto. Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato (es. sentenza emessa in sede penale, verbali di udienze, etc.....) Con osservanza Luogo e data.... Firma.... CommentoLa modifica e la revoca della misura di prevenzione L'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che il decreto applicativo della misura di prevenzione può essere revocato o modificato, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità che lo aveva proposto, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Stante il silenzio del legislatore, deve osservarsi come – in assenza di previsioni normative specifiche – la modifica/revoca della misura sia consentita in ogni tempo, senza che si renda necessario il decorso di un certo lasso di tempo dall'inizio della sua esecuzione. Il decreto può anche venir modificato, pure per quanto attiene all'applicazione dell'obbligo o del divieto di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica, ovvero in caso di reiterate violazioni da parte del sottoposto degli obblighi inerenti alla misura. Si tratta, nel primo caso, di un'ipotesi di modifica in melius o di revoca della misura in corso, praticabile una volta che siano stati esperiti i mezzi di impugnazione e, quindi, a fronte di un provvedimento passato in giudicato (sia pure secondo le peculiarità proprie del giudicato rebus sic stantibus in materia di prevenzione) senza limiti temporali e in presenza di una specifica condizione, vale a dire per il mutamento delle condizioni iniziali di pericolosità personale che avevano determinato l'applicazione all'interessato della misura in corso. Di recente, la Suprema Corte ha sottolineato come la sospensione dell'esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per effetto della detenzione per espiazione della pena, non preclude all'interessato la proposizione dell'istanza di revoca, ai sensi del d.lgs. n. 159/2011, art. 11, comma 2 (Cass. V, n. 42678/2021). Il tema è stato affrontato nuovamente e in modo più approfondito da Cass. V, n. 23388/2022 che, nel ribadire il citato principio, ha precisato che l'istanza deve però essere sostenuta da un interesse concreto e attuale comprovato dal richiedente la revoca. Invero, non vi è dubbio che sul tema in esame un primo orientamento giurisprudenziale, prendendo atto che l'esecuzione della misura di prevenzione personale resta sospesa durante la detenzione, ai sensi del richiamato art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011, ritiene che solo nel momento in cui ne cessa l'espiazione sorge l'interesse – concreto e attuale – del proposto a sollecitare, anche attraverso una richiesta di revoca della misura, la verifica della permanenza della condizione di pericolosità sociale, che il Tribunale è comunque tenuto a effettuare anche d'ufficio (Cass. II, n. 35563/2021, AR.; VI, n. 26243/2020-01; I, n. 18243/2019; VI, n. 40270/2018). Si è osservato, sul punto, che fino a quando il proposto resta detenuto in espiazione pena egli non sarebbe titolare di alcun interesse a una rivalutazione della sua pericolosità (funzionale alla revoca della misura attualmente sospesa), che dovrebbe essere necessariamente reiterata e attualizzata al momento della scarcerazione perché possa essere dato legittimo corso all'esecuzione della sorveglianza speciale. A questo indirizzo se ne affianca un secondo (si veda la sentenza innanzi citata del 2021), e che è stato di seguito condiviso, che invece ritiene che non vi sia una preclusione assoluta alla richiesta di revoca della misura di prevenzione in costanza di detenzione. Per delineare i diversi ambiti operativi – della revoca della misura di prevenzione personale, previsto dall'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, e della sospensione dell'esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena, previsto dall'art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011, introdotto con la l. n. 161/2017 – è indispensabile tener conto della particolare natura del giudicato di prevenzione, la cui intangibilità opera rebus sic stantibus, ossia non impedisce né l'esame di nuove e diverse circostanze, sopravvenute o emerse successivamente, anche se anteriori, né la valutazione, nella nuova situazione, di tutte le circostanze, comprese quelle considerate nella precedente decisione (Cass. V, n. 16019/2015; S.U., n. 36/2000 – dep. 07/02/2001). Ciò posto, è da ritenere che tutte le esigenze di «rivalutazione» di una decisione definitiva emessa in sede di prevenzione personale – siano le stesse correlate alla emersione di elementi di fatto o ad eventi di natura normativa – debbano trovare sede ‘naturale' di verifica giurisdizionale nel procedimento con vocazione revocatoria disciplinato dall'art. 11 d.lgs. n 159/2011; donde, mediante la detta procedura, da un lato, possono essere sottoposti al vaglio giudiziario elementi fattuali sopravvenuti comprovanti un affievolimento ovvero il venir meno della pericolosità sociale del proposto, tali da giustificare una modificazione della misura di prevenzione ovvero la sua revoca, con efficacia ex nunc. D'altro canto, anche per le misure di sicurezza personali è pacifica la «rivedibilità anticipata» rispetto al momento di loro legale eseguibilità (ossia al termine della pena, con obbligo di valutazione ex officio della condizione di attuale pericolosità dell'interessato, secondo quanto previsto dall'art. 679 c.p.p.), ciò comportando che se ne possa disporre la revoca anche durante la fase di espiazione della pena in riferimento al profilo della persistenza della pericolosità sociale del soggetto destinatario (Cass. I, n. 49242/2017; I, n. 46986/2007; I, n. 46938/2004). Nulla esclude, infatti, che gli elementi che richiedano una rivalutazione poiché «è cessata o mutata la causa» genetica del provvedimento, come recita l'art. 11 5 cit., possano emergere anche in una fase anteriore all'esecuzione del provvedimento di applicazione della misura, come, ad esempio, l'affievolimento, se non addirittura il venir meno, della pericolosità sociale dell'interessato per effetto dell'esito positivo del trattamento risocializzante cui questi si sia sottoposto nel corso dell'espiazione della pena, tanto riverberandosi quantomeno sulla possibile caducazíone degli effetti delle misure di prevenzione, che, ai sensi dell'art. 67 d.lgs. n. 159/2011, discendono automaticamente dal provvedimento definitivo di loro applicazione. Proprio in relazione a tale profilo deve rilevarsi come l'interesse concreto e attuale può rinvenirsi – come nel caso della sentenza Sez. 5, Guidotto del 2021, relativa alla revoca della patente di guida come conseguenza della misura di prevenzione, in ragione della previsione dell'art. 120, d.lgs. n. 285/1992 – anche nel far venir meno, prima della cessazione della detenzione, le conseguenze del provvedimento applicativo delle misure di prevenzione, interesse che altrimenti verrebbe frustrato fino alla fine della detenzione. Pertanto anche delle misure di prevenzione personali è, dunque, consentita la revoca, ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159 cit., a prescindere dalla loro ineseguibilità, in ragione dello stato di detenzione in espiazione di pena del proposto. Ne consegue che tra la procedura ex art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011 e quella ex art. 11, comma 2, stesso decreto, non vi è alcun rapporto di pregiudizialità funzionale, nel senso che, solo dopo che sia stata valutata l'attualità della pericolosità sociale del proposto (al termine della sua detenzione) e posta in esecuzione la misura di prevenzione personale, sia possibile modificare il contenuto del provvedimento applicativo o instare per la sua revoca, dal momento che diverse ne sono le rispettive finalità. Quella di cui all'art. 11, comma 2, è, infatti, funzionale all'esigenza di assicurare che il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione personale risponda costantemente ai presupposti che ne legittimano l'adozione, ossia alla persistenza della pericolosità sociale del proposto, il quale, a prescindere dalla sua esecuzione, è, comunque, esposto agli effetti legali di esso; quella di cui all'art. 14, comma 2-ter – che è norma di chiusura del sistema – persegue, invece, l'obiettivo di evitare l'esecuzione automatica della misura di prevenzione personale, rimasta sospesa nel corso della detenzione dell'interessato in espiazione di pena, imponendo che, al termine di essa, l'esecuzione stessa sia subordinata alla positiva verifica dell'attualità della pericolosità sociale del 6 proposto, nei cui confronti il periodo detentivo espiato potrebbe avere sortito un effetto risocializzante tale da rendere incompatibile l'applicazione della misura precedentemente imposta. D'altro canto – rileva il Collegio – è evidente che l'interesse che sostiene l'istanza di revoca, pena l'inammissibilità della stessa, non può che essere un interesse concreto e attuale, che evidentemente non può coincidere con quello futuro ad evitare l'esecuzione della misura di prevenzione al termine della detenzione: dunque deve essere un interesse strettamente collegato all'effetto che la misura di prevenzione, per quanto non eseguita, già produce per il proposto detenuto e che giustifichi una valutazione immediata sulla permanenza delle pericolosità e la prova della sussistenza di un interesse concreto e attuale deve essere fornita dall'istante la revoca. Tale ultimo onere è richiesto, non a caso, anche per l'istanza di revoca proposta dopo la cessazione della misura di prevenzione personale (Cass. V, n. 47628/2019; VI, n. 42938/2018); i casi sono assimilabili per la circostanza che la misura non è (ancora o più) in esecuzione, il che richiede un supplemento di giustificazione, quanto all'interesse che la sostiene. In via generale, va rilevato che per l'accoglimento della richiesta di revoca o modifica, in virtù della cessazione ovvero dell'attenuazione della pericolosità sociale, la giurisprudenza richiede un mutamento della condotta del soggetto, unitamente con il decorso di un certo spatium temporis rispetto all'inizio dell'esecuzione della misura. In applicazione dei citati principi (e per distinguere l'area di operatività del citato rimedio rispetto a quello impugnatorio ex art. 10 del d.lgs. n. 159/2011) si è affermato (cfr. Cass. VI, n. 33706/2017) che il requisito dell'attualità della pericolosità deve essere accertato nel giudizio di impugnazione non in relazione al momento in cui questo ha luogo, ma a quello originario in cui è stata applicata la misura di sicurezza, potendo l'eventuale sopravvenienza di nuovi elementi di valutazione consentire all'interessato unicamente di proporre istanza di revoca o modifica, e non già legittimare un nuovo apprezzamento del giudice dell'impugnazione nei gradi successivi del procedimento. In giurisprudenza si chiarisce, infatti, che ai fini della revoca sia necessario sì il decorso di un certo lasso di tempo dall'adozione del provvedimento impositivo dell'obbligo, ma anche l'accertamento della cessazione o della modificazione delle cause che l'hanno determinato, che deve tenere conto sia della presenza o meno di pregiudizi penali o di polizia nel periodo successivo alla sottoposizione, ma anche, più in generale e nell'ottica del giudizio di prevenzione, di tutta la condotta della persona. Peraltro, la intervenuta assoluzione del soggetto proposto dal reato non comporta l'automatica revoca del provvedimento applicativo della sorveglianza speciale ai sensi dell'art. 11, a condizione che la verifica della persistenza della originaria pericolosità sociale venga eseguita in relazione alla specifica categoria di pericolosità soggettiva, tipizzata dalla legge, che era stata contestata al proposto e nel cui ambito lo stesso era stato inquadrato nel provvedimento genetico (in applicazione di tale principio la Suprema Corte ha valutato la richiesta di revoca che era stata rigettata in considerazione della pericolosità desunta da plurimi provvedimenti di D.A.Spo. emessi nei confronti del sottoposto, attestanti la propensione di costui a commettere reati che mettano in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubbliche (così Cass. VI, n. 20576/2020). In altre parole, non è consentito al giudice – chiamato a decidere sulla richiesta di revoca per mancanza originaria di uno o alcuni dei presupposti che avevano giustificato l'applicazione originaria della misura – valorizzare elementi fattuali sopravvenuti inquadrare l'interessato in una categoria di pericolosità del tutto diversa da quella in relazione alla quale la richiesta sia stata a suo tempo accolta, in quanto una siffatta soluzione finirebbe per tradursi in una violazione del diritto di difesa; ciò perché la decisione sulla richiesta di revoca ex tunc attiene ad una decisione che ha acquisito un tendenziale carattere di stabilità e non è possibile che “a colui che, a mente dell'art. 11 comma 2, abbia domandato la revoca di quel provvedimento “quando sia cessata o mutata la causa che lo aveva determinato” si risponda confermando – ora per allora – l'efficacia di quel provvedimento sulla base di elementi fattuali che non erano stati valutati nel originario procedimento, ovvero inquadrando l'istante in una categoria di pericolosità del tutto diversa da quella in relazione alla quale quella decisione applicativa era stata giustificata”. Si è inoltre affermato (cfr. Cass. I, n. 19657/2017) che, ai fini della revoca della sorveglianza speciale, il giudice della prevenzione è tenuto a compiere una complessiva valutazione della persistente condizione di pericolosità sociale del sottoposto che – senza alcun automatismo valutativo e decisorio – tenga conto degli elementi originariamente acquisiti, correlandoli a quelli relativi all'evoluzione della personalità in relazione all'eventuale periodo di detenzione patito e alle ulteriori emergenze processuali (in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha annullato con rinvio il decreto della corte di appello di rigetto della richiesta di revoca, fondato sui precedenti penali del sottoposto e sulla circostanza che lo stesso non aveva allegato alcun elemento nuovo idoneo a determinare una modifica dell'originario giudizio di pericolosità sociale, osservando che il tenore letterale dell'art. 11 non prevede tra i presupposti legittimanti la revoca quello degli elementi di novità processuale). Più recentemente si è chiarito che tale criterio interpretativo è valido laddove l'interessato abbia rappresentato il venir meno della sua pericolosità sociale per ragioni sopravvenute rispetto al momento dell'adozione del decreto applicativo, mentre il discorso si pone in termini diversi allorché la misura sia scaduta e l'interessato abbia chiesto di verificare se, in ragione di una circostanza sopravvenuta, vi siano le ragioni per rivedere il giudizio di pericolosità sociale formulato al momento genetico della misura; ciò al fine di evitare che possano prodursi ulteriori effetti derivanti dalla passata applicazione di quella misura, come ad esempio l'operatività dei divieti amministrativi di cui all'art. 67 del codice antimafia. In questa peculiare situazione – osserva la Corte – la valutazione cui è chiamato il giudice non riguarda la persistenza dell'attualità della pericolosità, ma se la circostanza evidenziata dal proposto sia tale da consentire di affermare che sia venuta meno la causa che aveva determinato l'iniziale applicazione di quella misura di prevenzione (cfr. Cass. VI, n. 20576/2020). È stato pure sostenuto il principio secondo il quale, dall'unitarietà della valutazione personologica posta a fondamento del provvedimento applicativo, discende che la pericolosità dell'interessato o emerge all'esito della valutazione unitaria degli indizi o deve essere negata: il venir meno nel corso del procedimento di applicazione di uno degli elementi su cui questa si fondava non comporta una proporzionale riduzione della quantità (temporale o oggettiva) della misura (in tal senso, Cass. VI, n. 2144/1997). Il successivo comportamento del sottoposto, dunque, deve presentarsi come rivelatore dell'attenuazione o della scomparsa della pericolosità sociale, tale da costituire indice, nel suo complesso, di riadattamento sociale idoneo a non giustificare più il mantenimento di tutte le limitazioni della libertà personale in precedenza imposte. Evento rilevante ai fini della revoca della misura può essere il sopravvenire di una sentenza assolutoria perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, circostanza che fa venire meno il presupposto fattuale che ha fondato la misura, stigmatizzato nell'imputazione (Cass. I, n. 112/1987, Ragosta, mentre alla soluzione opposta è giunta Cass. V, n. 40731/2006); al contrario, non è sufficiente a giustificare la revoca anticipata della misura il mero esercizio di attività lavorativa stabile (Cass. I, n. 41416/2004 e più recentemente Cass. I, n. 38397/2009). Anzi, sotto il primo profilo, va detto che allorché si determini una sostanziale inconciliabilità dei fatti posti a fondamento di un provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione con quelli stabiliti in una sentenza penale irrevocabile, la Corte Suprema ha precisato che spetta proprio al giudice della prevenzione, richiesto della revoca del provvedimento con effetto ex tunc in base a tale inconciliabilità, “il potere – dovere di accertare se quei fatti siano stati gli unici presi in esame nel momento di applicazione della misura e, dunque, il potere di respingere la richiesta di revoca qualora, certa quella inconciliabilità, emerga che anche altri erano stati i presupposti di fatto del provvedimento” (Cass. S.U., n. 18/1997). Quanto ai rapporti tra giudicato penale favorevole e revoca della misura di prevenzione personale, si recente la Suprema Corte (Cass. I, n. 34095/2022) ha chiarito che nel procedimento di revoca non può essere confermato l'inquadramento tipico di pericolosità del proposto ai sensi dell'art. 4 comma 1 lett. a) del Codice Antimafia quando in sede penale sia stata definitivamente esclusa la natura mafiosa dell'associazione a delinquere cui accedeva la suddetta fattispecie di pericolosità qualificata. Sul punto, si è rimarcato che, a fronte della emersione di un fatto nuovo potenzialmente incidente sul giudicato di prevenzione (sia esso rappresentato da un novum fattuale o da un giudicato penale contrastante con le affermazioni che hanno condotto alla emissione della misura di prevenzione), l'apertura dello spazio cognitivo della ‘revoca' o della ‘revocazione' (oggi formalizzata ai sensi dell'art. 28 d.lgs. n. 159/2011) consente al giudice della procedura de qua di realizzare, se del caso, un diverso inquadramento tipico della pericolosità soggettiva, sulla base delle fonti dimostrative disponibili e di quelle sopravvenute, sempre che venga rispettato il diritto al contraddittorio argomentativo con la parte interessata, in maniera del tutto «speculare» a ciò che avviene nel giudizio di revisione della condanna penale, disciplinato dagli artt. 630 e ss. c.p.p. Ciò perché l'essenza stessa del giudizio revocatorio – in qualsiasi settore dell'ordinamento processuale – è quella di prendere atto del novum potenzialmente incidente sul giudicato e di effettuare, con ampi poteri cognitivi, un «nuovo giudizio» che tenga conto del portato probatorio preesistente e dei fatti (di qualunque natura) sopravvenuti; lo spazio cognitivo del giudizio revocatorio include, pertanto, il diverso inquadramento tipico della condotta in sede di prevenzione così come risulta possibile – sempre rispettando il contraddittorio - una diversa qualificazione o considerazione di un elemento del reato in sede di giudizio di revisione del giudicato penale. Ad ulteriore sostegno della ritenuta possibilità del ‘diverso inquadramento tipico' – in sede di procedura revocatoria della misura di prevenzione-milita altresì il contenuto argomentativo di S.U. n. 3513/2022, Fiorentino, con cui è stata affermata la applicabilità dello strumento processuale di cui all'art. 28 d.lgs. n. 159/2011 nella ipotesi di domande di rimozione della confisca ancorate al novum giuridico rappresentato dalle ricadute di Corte cost. n. 24/2019; anche in tale arresto, infatti, si valorizza lo ‘spazio cognitivo' coessenziale alle procedure revocatorie, lì dove si afferma la necessità del giudice della fase revocatoria di porre in essere le opportune verifiche al fine di ‘imputare' – nei casi di ritenuta pericolosità mista (ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. a/b) – la statuizione di confisca alla fattispecie colpita dalla declaratoria di incostituzionalità (con esito restitutorio) o a quella rimasta in vita (con esito di rigetto della domanda) dopo la pronunzia n. 24/2019. Pertanto, in sede di procedimento di revoca della confisca di prevenzione è legittimo, previa instaurazione del contraddittorio, realizzare – in rapporto ai materiali cognitivi preesistenti ed a quelli sopravvenuti – un diverso inquadramento tipico del soggetto proposto. Diversamente, il Collegio ha ritenuto che il mantenimento della qualifica di pericolosità qualificata sia contrario alla lettera della legge (l'art. 4, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 159/2011) e al principio di non contraddizione dell'ordinamento giuridico: invero, la disposizione di legge dettata in sede di prevenzione, pur declinando il coefficiente soggettivo (appartenenza) in termini diversi rispetto alla nozione penalistica (partecipazione), richiede – a monte – la ricognizione certa della esistenza di un gruppo associativo che abbia le caratteristiche tipiche di cui all'art. 416-bis c.p.; dunque, rispetto alle caratteristiche ontologiche di un agglomerato associativo, l'avvenuta esclusione – nella sede a ciò deputata, ossia nel giudizio penale – della ‘mafiosità' del gruppo non è aspetto che possa essere superato da un ‘diversa valutazione' del giudice della prevenzione e ciò proprio in rapporto alla avvertita esigenza di rispetto dei principi di legalità e tassatività. Infatti, se è vero che la ben nota autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale consente, infatti, ‘'utilizzo degli indizi di appartenenza all'associazione mafiosa anche a fronte di un esito assolutorio, essendo diversi i registri probatori della responsabilità penale (fondata sul canone della certezza oltre ogni dubbio ragionevole) rispetto alle misura di prevenzione, per la quale è sufficiente l'espressione di un giudizio di pericolosità fondato su fatti meramente sintomatici dell'appartenenza (vicinanza, contiguità, etc.) e non della piena partecipazione al sodalizio criminale (l'unica penalmente rilevante), tuttavia, nella fattispecie, la forza del giudicato penale che ha radicalmente escluso l'esistenza stessa del sodalizio mafioso in contestazione non consente, in concreto, alcuna autonomia di valutazione, non potendosi qualificare come specifica ai sensi dell'art. 4 lett. a) del codice antimafia una pericolosità fondata sull'appartenenza ad un sodalizio mafioso ritenuto inesistente. Da ultimo la Suprema Corte (Cass., n. 4489/2022) ha sostenuto che “la sentenza definitiva di assoluzione, non dipendente da cause estintive, per una delle ipotesi di reato richiamate dall'art. 4, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, determina l'impossibilità di assumere, ai fini dell'applicazione della misura, il medesimo fatto di reato quale sintomo di pericolosità qualificata del proposto”. Tempo fa era stata posta la questione della compatibilità del nostro ordinamento di prevenzione con il diritto alla revisione di decisioni ingiuste e comunque assunte con gravi violazioni della procedura, tutelato dall'art. 4 prot. n. 7 CEDU, il cui testo, al comma 2, stabilisce che: “Le disposizioni di cui al paragrafo precedente (che concerne il ne bis in idem) non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l'esito del caso”. I giudici di legittimità, con sentenza del 2 marzo 2012, sez. I, n. 3157, hanno invece sostenuto che nessun contrasto sussiste, allo stato, tra la disciplina comunitaria e quella positiva di diritto interno che contempla appunto l'istituto della revoca della misura di prevenzione personale, intesa quale istituto previsto per far fronte al sopravvenuto mutamento delle condizioni che ne avevano originariamente giustificato l'applicazione. La seconda ipotesi di modifica è, invece, potenzialmente peggiorativa della situazione tratteggiata col decreto applicativo della misura: sul punto ci si è domandati se tale evenienza sia da ritenersi limitata alle due fattispecie previste dalla legge (grave pericolo per la sicurezza pubblica e ripetute violazioni delle prescrizioni), ovvero possa considerarsi legittima in ogni caso di aumentata pericolosità sociale del sottoposto. Secondo taluni l'art. 11, comma 2, è espressione di un principio più generale in relazione al quale le misure di prevenzione sono sempre soggette alla clausola rebus sic stantibus, di talché ogni successiva modificazione del quadro di pericolosità sociale costituisce elemento idoneo a determinare la modifica del relativo decreto applicativo. In tali casi più che di modifica del provvedimento si tratta di procedere ex novo all'applicazione di una nuova misura di contenuto più rigoroso rispetto a quella in esecuzione (Cass. I, n. 574/1982); incidentalmente, va ribadito che la modifica del luogo di soggiorno obbligato non costituisce mutamento della misura di prevenzione (Cass. I, n. 90/1976). Il decreto che accoglie la domanda di modifica o revoca della misura sostituisce integralmente quello originario, con effetti ex tunc (nel caso della revoca) qualora vi fosse stata una carenza originaria dei presupposti di legge, ovvero ex nunc se la revoca sia stata pronunciata sulla base di circostanze sopravvenute. Costituisce, infatti, ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la revoca o l'annullamento del decreto di sottoposizione a una misura di prevenzione operano ex tunc, e cioè dal momento dell'emanazione della misura, laddove sono pronunciati per motivi di legittimità, mentre hanno efficacia ex nunc, e cioè dal momento della rispettiva emanazione, allorché conseguono a sopraggiunte situazioni che fanno venir meno la pericolosità sociale del prevenuto (così, tra le molte, Cass. sez. fer., n. 35899/2004). Ne consegue che nell'ipotesi in cui il decreto di sottoposizione venga revocato a causa dell'originaria mancanza delle condizioni che ne legittimavano l'adozione, gli obblighi imposti restano caducati ex tunc, come se non fossero mai stati stabiliti, con la conseguente necessità di assolvere il sottoposto che sia stato tratto a giudizio per il reato conseguente all'inosservanza delle relative prescrizioni art. 75 del codice antimafia). Non sussiste, in caso di revoca con effetto ex tunc, alcun diritto alla riparazione (Cass. IV, n. 4662/2015) ed è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 643 c.p.p., per contrasto con artt. 3 e 24, comma 4, Cost., nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione anche in relazione alla revoca della misura di prevenzione personale o patrimoniale in rapporto al diverso trattamento sanzionatorio previsto per i casi di revisione della condanna penale, trattandosi di situazioni diverse, non comparabili, e non essendo irragionevole una scelta legislativa differenziata. Per quanto concerne le impugnazioni, come meglio si vedrà, mentre un primo orientamento riteneva che il provvedimento col quale il tribunale decide l'istanza di revoca o modifica fosse passibile solo di ricorso per Cassazione, come avviene in materia di esecuzione penale e in specie con applicazione dell'art. 666, comma 6 c.p.p., invece l'elaborazione giurisprudenziale più recente è nel senso che il provvedimento de quo è impugnabile mediante il ricorso in appello e, al suo esito, con il ricorso per cassazione (Cass. V, n. 1817/1997 e Cass. V, n. 13532/2011). Ciò in quanto, mancando una specifica regolamentazione del regime dei controlli, deve trovare applicazione – per ragioni sistematiche – la disciplina generale in materia di impugnazioni del provvedimento impositivo della misura ai sensi dell'art. 10 codice antimafia. Giova segnalare che la Suprema Corte, I Sezione Penale, ha affermato che la richiesta di dichiarazione di ineseguibilità di una misura di prevenzione personale (nella specie, deducendo la violazione del principio di specialità dell'estradizione) è equiparabile analogicamente a un'istanza afferente all'esecuzione della stessa, con la conseguenza che il relativo procedimento è disciplinato dall'art. 7 della l. n. 1423/1956 (oggi art. 11 d.lgs. n. 159/2011) e che, quindi, l'impugnazione proponibile avverso la decisione del primo giudice è esclusivamente il ricorso in appello. In sostanza, si è sostenuto che l'istanza formulata dall'interessato, volta a verificare l'eseguibilità del titolo (rappresentato dal decreto applicativo della misura) per l'asserita violazione del generale principio di specialità di cui all'art. 14 della Convenzione Europea di Estradizione, non rientra in nessuno dei modelli legali di riferimento nel tessuto normativo della l. n. 1423/1956, né in quello recepito dal Codice Antimafia, e non appare nemmeno valutabile nelle forme dell'incidente di esecuzione, atteso che la fase di esecuzione delle misure di prevenzione personali ha caratteristiche del tutto peculiari, come chiarito innanzi, in cui l'organo esecutivo è il Questore e il giudice interviene su istanza ai sensi degli artt. 7 e 7-bis l. n. 1423/1956 (oggi 11 e 12 d.lgs. n. 159/2011). Da ciò deriva – conclude la Corte – che in tali ipotesi l'unico modello di intervento esecutivo di tipo giurisdizionale è rappresentato dal citato art. 7 a norma del quale, tuttavia, le decisioni non sono immediatamente ricorribili in cassazione, ma vanno impugnate mediante il generale strumento dell'appello: ne consegue la riqualificazione del ricorso in appello e la trasmissione alla Corte territoriale di merito (cfr. Cass. I, n. 4001/2014). I rimedi esperibili avverso il provvedimento che decide l'istanza di revoca Il provvedimento che decide sulla richiesta di revoca della misura di prevenzione, che assume la forma del decreto, è impugnabile secondo la disciplina dettata dall'art. 4 della l. n. 1423/1956, ora sostituito dall'art. 10, comma 1, del codice antimafia. L'applicabilità dello schema procedimentale di cui all'art. 666 c.p.p. è stato oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale in ordine alla possibilità di proporre appello avverso l'atto conclusivo del giudizio: la tesi più risalente era nel senso dell'esperibilità unicamente del ricorso per cassazione, in base all'inquadrabilità dell'istituto della revoca nella fase esecutiva con la conseguente applicazione del sesto comma dell'art. 666 c.p.p. (così Cass. IV, n. 4/2000). Un secondo (e ormai consolidato) orientamento ritiene, invece, che il decreto che chiude il procedimento di revoca anticipata sia suscettibile in primis di appello, in armonia con il disposto generale del previgente art. 4 della l. n. 1423/1956 (oggi trasfuso nell'art. 10) in tema di impugnazioni avverso il provvedimento sull'originaria richiesta di applicazione della misura (cfr. da ultimo Cass. VI, n. 39763/2012). Deve reputarsi corretto questo approdo interpretativo fondato su una giusta interpretazione logico-sistematica delle norme in materia, con la conseguenza che il ricorso per cassazione che sia stato erroneamente proposto può essere qualificato – in forza del cd. favor impugnationis – come atto di appello con trasmissione del fascicolo alla corte di appello competente per il relativo giudizio. Altra questione controversa è quella concernente l'individuazione del giudice competente a valutare l'istanza di revoca allorché penda anche impugnazione: per un primo orientamento la competenza a decidere spettava al tribunale che aveva emesso il provvedimento oggetto della richiesta di revoca/modica anche qualora pendesse gravame, poiché il previgente art. 7 l. n. 1423/1956 non distingueva tra provvedimento definitivo e non definitivo. Invece, la tesi oggi prevalente è nel senso che la competenza sull'istanza di revoca o di modifica si radica in capo al giudice che ha emesso il decreto impositivo solo allorché lo stesso sia divenuto definitivo, mentre qualora esso sia stato impugnato competente a decidere non potrà che essere il giudice investito del gravame di merito (Cass. I, n. 18742/2010). In sostanza, il supremo collegio ha affermato che, in pendenza di impugnazione, non v'è ragione perché non provveda il giudice investito dell'appello il quale, con il gravame dell'interessato, è chiamato a riesaminare – nei limiti del devolutum – la pericolosità sociale del soggetto, nonché ad adottare le conseguenti statuizioni, anche attinenti alle prescrizioni. Quindi, dovrà pronunciarsi sull'istanza il giudice di primo grado qualora l'appello abbia confermato la decisione, mentre sarà competente la Corte di appello in caso di riforma, salvo che ciò abbia avuto ad oggetto unicamente l'entità della misura irrogata. Infine, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la competenza a decidere sull'istanza di revoca o modifica sia attribuita al giudice che ha emesso il provvedimento impositivo della misura nell'ipotesi in cui penda ricorso in cassazione, in quanto in detta fase il giudice di appello non è più investito di alcuna valutazione in ordine al riesame della pericolosità del proposto il quale, pertanto, non può essere privato di un grado di giudizio sull'istanza stessa. La Suprema Corte è tornata sulla questione (cfr. Cass. I, n. 37311/2015) evidenziando che l'impugnazione del provvedimento che decide sull'istanza di revoca o di modifica del decreto applicativo di misura di prevenzione è consentita sulla base della lettura logico-sistematica dell'art. 7, comma 3, l. n. 1423/1956 e successive modifiche, che esclude l'effetto sospensivo del ricorso contro il provvedimento di revoca o di modifica. Come si è visto, infatti, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, avverso il provvedimento che abbia disposto la revoca o la modifica di una misura di prevenzione, è esperibile l'appello e non il ricorso per cassazione (ex multis: Cass. I, n. 23955/2007; Cass. V, n. 43995/2009; Cass. V, n. 16421/2011). Non appare condivisibile il diverso, minoritario, indirizzo che propugna la proposizione, in via esclusiva, del ricorso per cassazione (Cass. V, n. 4/2000), ritenendo che l'istituto s'inquadri nella fase dell'esecuzione e che, quindi, debba trovare applicazione il disposto dell'art. 666, comma 6 c.p.p. A sostegno dell'ammissibilità dell'appello e non del ricorso immediato in cassazione depongono considerazioni di tipo logico-sistematico: in primo luogo, si osserva che l'istituto della revoca della confisca è disciplinato all'interno dell'autonomo sottosistema delle misure di prevenzione ed è connotato da una sua speciale funzione, come di desume dal fatto che esso opera rebus sic stantibus e consente il nuovo esame delle condizioni che avevano giustificato la misura ablativa. Pertanto, l'inquadrabilità dell'istituto nella fase esecutiva non comporta l'automatica applicabilità di tutte le disposizioni che regolano il procedimento di esecuzione nel codice di rito penale, essendo necessario verificare preliminarmente se esistano disposizioni proprie del sottosistema delle misure di prevenzione che possano trovare attuazione. L'art. 4, commi 5 e 11, l. n. 1423/1956 e successive modifiche, nel rinviare alle norme del codice di rito, precisa che le disposizioni richiamate vanno sì osservate, ma solo “in quanto applicabili” e anche il termine per proporre impugnazione non è quello generale previsto dal codice di rito per i provvedimenti adottati in fase esecutiva, ma è autonomamente disciplinato (la norma lo fissa in dieci giorni). Inoltre, nel sistema delle misure di prevenzione il giudizio sulla revoca della misura, involgendo nuovamente la questione di merito della pericolosità del proposto, impone che alle parti siano assicurate le medesime garanzie che connotano il momento processuale dell'originaria imposizione della misura, a partire dai tre gradi di giudizio attraverso i quali può articolarsi il relativo procedimento. Recentemente si è ribadito (Cass. I, n. 8530/2021) che la giurisprudenza di legittimità ha individuato nell'appello, oggi previsto dall'art. 10 del d.lgs. n. 159/2011, il mezzo di impugnazione avverso il provvedimento col quale il tribunale decide sull'istanza di revoca o di modifica della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza; in questi casi, pertanto, in conformità a quanto disposto dall'art. 568, comma 5, c.p.p., qualificata l'impugnazione come appello, la Corte procede alla trasmissione degli atti alla Corte di Appello per l'esame e la decisione nel merito. Va segnalata una recente pronuncia di legittimità che ha affrontato il tema dei rapporti tra il procedimento di riesame della pericolosità sociale stabilito dall'art. 14 del codice antimafia e quello di revoca o modifica della misura: com'è noto, nel primo caso la l. n. 161/2017 ha codificato l'obbligo del giudice della prevenzione di rivalutare la attualità della pericolosità sociale del sottoposto nell'ipotesi in cui la misura sia stata sospesa durante il tempo nel quale (comunque non inferiore a due anni) l'interessato sia stato sottoposto a detenzione per espiazione di pena; tale rivalutazione, da operarsi anche d'ufficio, va effettuata dopo la cessazione dello stato detentivo e ad essa si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni di cui all'art. 7 del d.lgs. n. 159/2011. All'esito di tale procedimento, osserva la Corte, il Tribunale può emettere solo due tipi di provvedimenti (quello con il quale ordina l'esecuzione della misura, se ritenga ancora persistente la pericolosità del sottoposto, ovvero quello con il quale la misura di prevenzione allorché ritenga invece cessata la pericolosità sociale dell'interessato); pertanto, la norma non prevede alcuna ulteriore e diversa possibilità di intervento del giudice sul decreto originariamente emesso, con la conseguenza che eventuali diverse richieste (come ad esempio quella di riduzione del periodo di originaria sottoposizione o di modifica del luogo di soggiorno obbligato) dovranno essere proposte nell'ambito del diverso procedimento di cui all'articolo 11 e non potranno trovare ingresso nell'ambito del giudizio tratteggiato dall'art. 14, funzionale unicamente a riesaminare la attualità della pericolosità sociale dell'interessato sottoposto ad una carcerazione non inferiore a due anni (così Cass. II, n. 20954/2020). |