Richiesta del sorvegliato speciale di modifica delle prescrizioni (art. 11 d.lgs. n. 159/2011)

Corinna Forte

Inquadramento

L'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che il decreto applicativo della misura di prevenzione può essere revocato o modificato, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità che lo aveva proposto, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato.

Il decreto può anche venir modificato, pure per quanto attiene all'applicazione dell'obbligo o del divieto di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica, ovvero in presenza di reiterate violazioni da parte del sottoposto degli obblighi inerenti alla misura.

Si tratta, nel primo caso, di un'ipotesi di modifica in melius o di revoca della misura in corso, praticabile una volta che siano stati esperiti i mezzi di impugnazione e, quindi, a fronte di un provvedimento passato in giudicato (sia pure secondo le peculiarità proprie del giudicato rebus sic stantibus in materia di prevenzione) senza limiti temporali e in presenza di una specifica condizione, vale a dire per il mutamento delle condizioni iniziali di pericolosità personale che avevano determinato l'applicazione all'interessato della misura in corso.

In via generale, va rilevato che per l'accoglimento della richiesta di revoca o modifica, in virtù della cessazione ovvero dell'attenuazione della pericolosità sociale, la giurisprudenza richiede un mutamento della condotta del soggetto, unitamente con il decorso di un certo spatium temporis rispetto all'inizio dell'esecuzione della misura.

La seconda fattispecie è, invece, potenzialmente peggiorativa della situazione tratteggiata col decreto applicativo della misura e occorre comprendere se ciò possa avvenire soltanto nelle due ipotesi previste dalla legge (grave pericolo per la sicurezza pubblica e ripetute violazioni delle prescrizioni), ovvero posa ritenersi legittima in ogni caso di aumentata pericolosità sociale del sottoposto.

Formula

Al Sig. Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di....

Il sottoscritto Avv..... del Foro di.... con studio in.... alla via...., difensore di fiducia di.... nato a...., nei cui confronti è stato emesso in data.... dal Tribunale di.... decreto con il quale è stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di....;

PREMESSO

che con il citato decreto egli è stato ritenuto appartenente al clan camorristico....;

che detto decreto è divenuto definitivo dal....;

rilevato che l'esecuzione di detta misura è iniziata in data.... e che la stessa è ancora in corso, residuando anni due di sorveglianza speciale di P.S.;

che con il citato decreto al prevenuto è stata imposta la prescrizione di non uscire dal proprio domicilio prima delle ore 07:00, né dopo le ore 21:00;

che egli ha finora rispettato scrupolosamente tale prescrizione;

che, tuttavia, il sottoposto ha ottenuto la possibilità di essere assunto dalla ditta.... con sede in.... al fine di esercitare mansioni di....;

che per svolgere tale attività lavorativa, necessaria per il suo reinserimento sociale, egli dovrà uscire di casa prima delle ore 07:00, come dimostra l'orario di lavoro allegato;

CHIEDE

La modifica del decreto indicato in epigrafe mediante l'autorizzazione del sottoposto a trattenersi fuori dalla propria abitazione oltre gli orari indicati nel provvedimento impositivo delle misure al fine di espletare attività lavorativa.

Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato (es. contratto di lavoro, orario dettagliato etc.....)

Con osservanza

Luogo e data....

Firma....

Commento

La modifica e la revoca della misura di prevenzione

L'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che il decreto applicativo della misura di prevenzione può essere revocato o modificato, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità che lo aveva proposto, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato.

Quanto alla competenza, la Suprema Corte (Cass. I, n. 39905/2018) ha chiarito che la competenza a decidere sulla richiesta di revoca o di modifica delle prescrizioni inerenti la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, applicata prima della modifica introdotta all'art. 5 d.lgs. n. 159/2011 dalla l. n. 161/2017, spetta all'organo giurisdizionale che ha emesso il relativo provvedimento, pur se diverso dal tribunale distrettuale, atteso che detta richiesta non introduce un nuovo procedimento da attribuirsi alla cognizione del predetto tribunale, ma attiene alla fase di esecuzione di un provvedimento già adottato, che resta disciplinata dall'art. 11, comma 2, del citato d.lgs.

Stante il silenzio del legislatore, deve osservarsi come – in assenza di previsioni normative specifiche – la modifica/revoca della misura sia consentita in ogni tempo, senza che si renda necessario il decorso di un certo lasso di tempo dall'inizio della sua esecuzione.

Il decreto può anche venir modificato, pure per quanto attiene all'applicazione dell'obbligo o del divieto di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica, ovvero in presenza di reiterate violazioni degli obblighi inerenti alla misura.

Si tratta, nel primo caso, di un'ipotesi di modifica in melius o di revoca della misura in corso, praticabile una volta che siano stati esperiti i mezzi di impugnazione e, quindi, a fronte di un provvedimento passato in giudicato (sia pure secondo le peculiarità proprie del giudicato rebus sic stantibus in materia di prevenzione) senza limiti temporali e in presenza di una specifica condizione, vale a dire per il mutamento delle condizioni iniziali di pericolosità personale che ne avevano determinato l'applicazione.

Importante è distinguere il procedimento di revoca/modifica da quello di rivalutazione della pericolosità sociale: sul punto, la Suprema Corte (Cass. II, n. 20954/2020) ha spiegato che il procedimento ex art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011 attribuisce al tribunale il potere di dare esecuzione alla misura ovvero di revocarla, a seconda dell'esito dell'accertamento circa la persistenza della pericolosità sociale compiuto dopo un periodo di detenzione di almeno due anni, ma non consente di modificare parzialmente la misura, anche in relazione al termine di durata, potendo tale modifica essere adottata solo con il procedimento di cui all'art. 11, comma 2, dello stesso decreto durante l'esecuzione della misura e, dunque, anche eventualmente dopo che il procedimento ex art. 14 cit. si sia concluso con un provvedimento che a tale esecuzione abbia dato luogo.

In via generale, va rilevato che per l'accoglimento della richiesta di revoca o modifica, in virtù della cessazione ovvero dell'attenuazione della pericolosità sociale, la giurisprudenza richiede un mutamento della condotta del soggetto, unitamente con il decorso di un certo spatium temporis rispetto all'inizio dell'esecuzione della misura.

In applicazione dei citati principi (e per distinguere l'area di operatività del citato rimedio rispetto a quello impugnatorio ex art. 10 del d.lgs. n. 159/2011) si è affermato (cfr. Cass. VI, n. 33706/2017) che il requisito dell'attualità della pericolosità deve essere accertato nel giudizio di impugnazione non in relazione al momento in cui questo ha luogo, ma a quello originario in cui è stata applicata la misura di sicurezza, potendo l'eventuale sopravvenienza di nuovi elementi di valutazione consentire all'interessato unicamente di proporre istanza di revoca o modifica, e non già legittimare un nuovo apprezzamento del giudice dell'impugnazione nei gradi successivi del procedimento.

La Suprema Corte chiarisce, infatti, che ai fini della revoca sia necessario sì il decorso di un certo lasso di tempo dall'adozione del provvedimento impositivo dell'obbligo, ma anche l'accertamento della cessazione o della modificazione delle cause che l'hanno determinato, che deve tenere conto sia della presenza o meno di pregiudizi penali o di polizia nel periodo successivo alla sottoposizione, ma anche, più in generale e nell'ottica del giudizio di prevenzione, di tutta la condotta della persona.

Si è inoltre affermato (cfr. Cass. I, n. 19657/2017) che, nell'ambito del giudizio di revoca, il giudice della prevenzione è tenuto a compiere una complessiva valutazione della persistente condizione di pericolosità sociale del sottoposto che – senza alcun automatismo valutativo e decisorio – tenga conto degli elementi originariamente acquisiti, correlandoli a quelli relativi all'evoluzione della personalità in relazione all'eventuale periodo di detenzione patito e alle ulteriori emergenze processuali (in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha annullato con rinvio il decreto della corte di appello di rigetto della richiesta di revoca, fondato sui precedenti penali del sottoposto e sulla circostanza che lo stesso non aveva allegato alcun elemento nuovo idoneo a determinare una modifica dell'originario giudizio di pericolosità sociale, osservando che il tenore letterale dell'art. 11 non prevede tra i presupposti legittimanti la revoca quello degli elementi di novità processuale).

È stato pure sostenuto il principio secondo il quale, dall'unitarietà della valutazione personologica posta a fondamento del provvedimento applicativo, discende che la pericolosità dell'interessato o emerge all'esito della valutazione unitaria degli indizi o deve essere negata: il venir meno nel corso del procedimento di applicazione di uno degli elementi su cui questa si fondava non comporta una proporzionale riduzione della quantità (temporale o oggettiva) della misura (in tal senso, Cass. VI, n. 2144/1997).

La condotta successiva del sottoposto, dunque, deve presentarsi come rivelatrice dell'attenuazione o della scomparsa della pericolosità sociale e costituire indice, nel suo complesso, di riadattamento sociale, idoneo a non giustificare più il mantenimento di tutte le limitazioni della libertà personale in precedenza imposte.

Evento rilevante ai fini della revoca della misura può essere il sopravvenire di una sentenza assolutoria perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, circostanza che fa venire meno il presupposto fattuale che ha fondato la misura, stigmatizzato nell'imputazione (Cass. I, n. 112/1987, mentre alla soluzione opposta è giunta Cass. V, n. 32522/2006); al contrario, non è sufficiente a giustificare la revoca anticipata della misura il mero esercizio di attività lavorativa stabile (Cass. I, n. 41416/2004 e più recentemente Cass. I, n. 37487/2009).

Anzi, sotto il primo profilo, va detto che allorché si determini una sostanziale inconciliabilità dei fatti posti a fondamento di un provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione con quelli stabiliti in una sentenza penale irrevocabile, la Corte Suprema ha precisato che spetta proprio al giudice della prevenzione, richiesto della revoca del provvedimento con effetto ex tunc in base a tale inconciliabilità, “il potere – dovere di accertare se quei fatti siano stati gli unici presi in esame nel momento di applicazione della misura e, dunque, il potere di respingere la richiesta di revoca qualora, certa quella inconciliabilità, emerga che anche altri erano stati i presupposti di fatto del provvedimento” (Cass. S.U., n. 18/1997).

È stata pure posta innanzi alla Cassazione la questione della compatibilità del nostro ordinamento di prevenzione con il diritto alla revisione di decisioni ingiuste e comunque assunte con gravi violazioni della procedura, tutelato dall'art. 4 prot. n. 7 CEDU, il cui testo, al comma 2, stabilisce che: “Le disposizioni di cui al paragrafo precedente (che concerne il ne bis in idem) non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l'esito del caso”.

I giudici di legittimità, con sentenza del 2 marzo 2012, I Sezione, n. 3157, hanno invece sostenuto che nessun contrasto sussiste, allo stato, tra la disciplina comunitaria e quella positiva di diritto interno, che regolamenta appunto l'istituto della revoca della misura di prevenzione personale, intesa quale istituto previsto per far fronte a ipotesi di sopravvenuto mutamento delle condizioni che avevano originariamente giustificato l'applicazione della misura.

La seconda ipotesi di modifica è, come anticipato, potenzialmente peggiorativa della situazione tratteggiata col decreto applicativo della misura: sul punto ci si è domandati se tale possibilità operi solamente in presenza di una delle due fattispecie previste dalla legge (grave pericolo per la sicurezza pubblica e ripetute violazioni delle prescrizioni), ovvero posa ritenersi legittima in ogni caso di aumentata pericolosità sociale del sottoposto.

Parte della dottrina aderisce alla tesi restrittiva, mentre altro indirizzo ritiene che l'art. 11, comma 2, sia espressione di un principio più generale in relazione al quale le misure di prevenzione sono sempre soggette alla clausola rebus sic stantibus, di talché ogni successiva modificazione del quadro di pericolosità sociale costituisce elemento idoneo a determinare la modifica del relativo decreto applicativo.

Secondo la giurisprudenza, peraltro, in tali casi più che di modifica del provvedimento si tratta di procedere ex novo all'applicazione di un'ulteriore misura di contenuto più rigoroso rispetto a quella in esecuzione (Cass. I, n. 574/1982); incidentalmente, va ribadito che secondo la giurisprudenza la modifica del luogo di soggiorno obbligato non costituisce mutamento della misura di prevenzione (Cass. I, n. 90/1976).

Il decreto che accoglie la domanda di modifica o revoca della misura sostituisce integralmente quello originario, con effetti ex tunc (nel caso della revoca) qualora vi fosse stata una carenza originaria dei presupposti di legge, ovvero ex nunc se la revoca sia stata pronunciata sulla base di circostanze sopravvenute.

Ne consegue che nell'ipotesi in cui il decreto di sottoposizione venga revocato a causa dell'originaria mancanza delle condizioni che ne legittimavano l'adozione, gli obblighi imposti restano caducati ex tunc, come se non fossero mai stati stabiliti, con la conseguente necessità di assolvere il sottoposto che sia stato tratto a giudizio per il reato conseguente all'inosservanza delle relative prescrizioni.

Per quanto concerne le impugnazioni, mentre un primo orientamento riteneva che il provvedimento col quale il tribunale decide l'istanza di revoca o modifica fosse passibile solo di ricorso per Cassazione, a somiglianza di quanto avviene in materia di esecuzione penale e in applicazione dell'art. 666, comma 6 c.p.p., invece l'elaborazione giurisprudenziale più recente è nel senso che il provvedimento de quo è impugnabile mediante il ricorso in appello e, al suo esito, con il ricorso per cassazione (Cass. V, n. 1817/1997 e Cass. V, n. 13532/2011).

Ciò in quanto, mancando una specifica regolamentazione del regime dei controlli, deve trovare applicazione – per ragioni sistematiche – la disciplina generale in materia di impugnazioni del provvedimento impositivo della misura ai sensi dell'art. 10 codice antimafia.

È interessante segnalare che la Suprema Corte, I Sezione Penale, ha affermato che la richiesta di dichiarazione di ineseguibilità di una misura di prevenzione personale (nella specie, deducendo la violazione del principio di specialità dell'estradizione) è equiparabile analogicamente a un'istanza afferente all'esecuzione della stessa, con la conseguenza che il relativo procedimento è disciplinato dall'art. 7 della l. n. 1423/1956 (oggi art. 11 d.lgs. n. 159/2011) e che, quindi, l'impugnazione proponibile avverso la decisione del primo giudice è esclusivamente il ricorso in appello.

In sostanza, si è ritenuto che l'istanza formulata dall'interessato, volta a verificare l'eseguibilità del titolo (rappresentato dal decreto applicativo della misura) per l'asserita violazione del generale principio di specialità di cui all'art. 14 della Convenzione Europea di Estradizione, non rientra in nessuno dei modelli legali di riferimento nel tessuto normativo della l. n. 1423/1956, né in quello recepito dal Codice Antimafia, e non appare nemmeno valutabile nelle forme dell'incidente di esecuzione, atteso che la fase di esecuzione delle misure di prevenzione personali ha caratteristiche del tutto peculiari, come chiarito innanzi, in cui l'organo esecutivo è il Questore e il giudice interviene su istanza ai sensi degli artt. 7 e 7-bis della l. n. 1423/1956 (oggi 11 e 12 del decreto n. 159).

Da ciò deriva – conclude la Corte – che in tali ipotesi l'unico modello di intervento esecutivo di tipo giurisdizionale è rappresentato dal citato art. 7, a norma del quale, tuttavia, le decisioni non sono immediatamente ricorribili in cassazione, ma vanno impugnate mediante il generale strumento dell'appello: ne consegue la riqualificazione del ricorso in appello e la trasmissione alla Corte territoriale di merito (cfr. Cass. I, n. 4001/2014).

La distinzione tra l'istanza di modifica delle prescrizioni di cui all'art. 11 e la richiesta di autorizzazione di cui all'art. 12 del d.lgs. n. 159/2011

In concreto potrebbe essere necessario tenere distinte l'istanza di revoca/modifica di cui all'art. 11 e la richiesta di autorizzazione di cui all'art. 12, come accade talora di fronte alla domanda del sottoposto volta a ottenere, ad esempio, l'autorizzazione a trattenersi fuori dalla propria abitazione oltre gli orari indicati nel provvedimento impositivo delle misure, al fine di svolgere attività lavorativa.

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare (Cass. I, n. 467/1992; Cass. I, n. 466/1992) che una richiesta del genere deve essere considerata come finalizzata a una vera e propria modifica del provvedimento di sottoposizione a una misura di prevenzione personale e non a un semplice mutamento delle modalità applicative di quest'ultimo.

L'allargamento in via permanente (e non per necessità contingenti come quelle cui si riferisce l'art. 5 l. n. 1423/1956, oggi trasfuso nell'art. 12) dell'orario durante il quale il sorvegliato speciale è autorizzato ad assentarsi dalla propria abitazione costituisce, infatti, un'attenuazione del contenuto precettivo e vincolante della misura di prevenzione imposta e quindi una modifica della stessa, possibile solo nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 7, comma 2 della stessa legge (oggi art. 11).

Secondo il citato art. 7, comma 2, infatti, il provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione “può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato quando ne sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato”, causa che si identifica nella ritenuta pericolosità sociale del proposto, per cui il mutamento di essa non può significare altro che riduzione, per fatti sopravvenuti, di tale pericolosità; solo a questa condizione, infatti, può derogarsi al principio della intangibilità del giudicato, operante anche in materia di misure di prevenzione (cfr., tra le tante, Cass. I, n. 28371988).

È evidente che il contenuto precettivo della misura di prevenzione applicata subisce una sostanziale modifica quando, essendo stato stabilito che il sottoposto possa stare fuori della propria abitazione per un certo numero di ore, si consenta poi allo stesso di restarvi, in via permanente, per un numero di ore maggiore.

Peraltro, tale consolidato orientamento è stato da ultimo affiancato da altra tesi, secondo la quale la richiesta di autorizzazione al lavoro ex art. 12 va tenuta distinta da quella di modifica delle prescrizioni ex art. 11 dello stesso testo, con la conseguenza che il giudice competente a provvedere in ordine a tale autorizzazione deve essere individuato in quello indicato nell'art. 12, comma 2 e, del decreto in esame e non in quello che ha emesso la misura di prevenzione, escludendo che detta autorizzazione possa essere considerata come modifica della misura ai sensi dell'articolo 11 del medesimo testo (in tal senso Cass. I, n. 23392/2020).

Va segnalato anche un recente contrasto interpretativo emerso nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità di concedere, o meno, la citata autorizzazione per ragioni di lavoro: infatti, in un primo precedente si afferma che l'art. 12 contiene una norma di stretta interpretazione, che va letta nel senso che al sottoposto possa essere concessa l'autorizzazione ad allontanarsi dal Comune di soggiorno obbligato solo allorché ricorrano gravi e comprovati motivi di salute o di famiglia e non pure per altre ragioni, come ad esempio quelle connesse ad esigenze lavorative (il principio è stato affermato da Cass. I, n. 17852/2020)

Detta disposizione – si osserva – è stata ritenuta conforme alla Costituzione in quanto consente di contemperare, derogando in via eccezionale al regime esecutivo della misura, in maniera adeguata esigenze diverse, ovvero da una parte la salute e dall'altra la sicurezza, attraverso un'articolata disciplina che prevede limiti temporali, procedure giudiziarie e adempimenti di pubblica sicurezza, adeguati alla particolarità della situazione; non è affatto irragionevole quindi la mancata assimilazione delle ragioni di sanità alle ragioni lavorative poiché le prime, tanto più se gravi come richiede la norma, sono tali da mettere a repentaglio un bene primario della persona (art. 32 Cost.), che può rischiare di essere pregiudicato in modo irreversibile, mentre le seconde, pur trovando riconoscimento anch'esse sul piano costituzionale (art. 4), possono essere valutate diversamente da quelle sanitarie alla stregua del bene che è in discussione e della rimediabilità, nel caso del lavoro, della perdita che si rendesse necessaria in conseguenza della sottoposizione a misura di prevenzione (così Corte cost. n. 193/1997).

Di diverso avviso una più recente sentenza, proveniente da altra sezione, ove si è al contrario sostenuto che l'autorizzazione all'allontanamento dal domicilio coatto può essere concessa alla persona sottoposta alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno anche per esigenze di lavoro, sempre che sussistano gravi e comprovati motivi che rendano assolutamente necessario detto allontanamento (così Cass. I, n. 23392/2020).

È quindi prevedibile che a breve la questione venga rimessa alle Sezioni Unite per sciogliere e risolvere il citato contrasto, che determina di fatto notevoli disparità di trattamento tra i sottoposti richiedenti l'autorizzazione al lavoro. Di recente, la Corte di cassazione ha ribadito che la richiesta del proposto di allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato per svolgere, in modo stabile e continuativo, attività lavorativa deve essere considerata una richiesta di vera e propria modifica del provvedimento di sottoposizione alla misura di prevenzione personale (Cass., I, n. 10356/2004). Il che non può che valere, evidentemente, anche con riguardo al caso speculare della richiesta di revoca dell'autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato per svolgere la suddetta attività lavorativa.

L'autorizzazione ad allontanarsi, per un'esigenza lavorativa stabile e continuativa, dal comune di soggiorno obbligato e la revoca di tale autorizzazione costituiscono, in effetti, rispettivamente, un'attenuazione e un (ri)aggravamento del contenuto precettivo vincolante della misura di prevenzione tali da modificare sostanzialmente e strutturalmente la stessa.

Ne consegue che tali modifiche rientrano nelle previsioni di cui al d.lgs. n. 159/2011, art. 11, comma 2, (corrispondente al previgente l. n. 1423/1956, art. 7, comma 2). Secondo detto art. 11, comma 2, infatti, il provvedimento applicativo di una misura di prevenzione “può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato”. Causa che si identifica nella pericolosità per la sicurezza pubblica del proposto, per cui il “muta(mento)” di tale causa altro non può significare che riduzione, o aumento, per fatti sopravvenuti, della suddetta pericolosità. Ciò che costituisce, appunto, il rispettivo presupposto della concessione e della revoca dell'autorizzazione ad allontanarsi, per un'esigenza lavorativa stabile e continuativa, dal comune di soggiorno obbligato.

Quanto precede si evince, del resto, oltre che dalla citata sentenza n. 10356 del 2004, anche da Cass. I, n. 9590/2000, relativa a un caso analogo, secondo cui, “(i)n tema di misure di prevenzione, l'autorizzazione permanente alla persona sottoposta a trattenersi fuori dalla propria abitazione per esigenze di lavoro, implicando necessariamente un giudizio di diminuita pericolosità, comporta una modificazione dell'originario provvedimento e, pertanto, è consentita solo nell'ambito delle previsioni di cui alla l. n. 1423/1956, art. 7, comma 2, (oggi, d.lgs. n. 159/2011, art. 11, comma 2), secondo il quale il provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione può essere revocato o modificato, quando ne sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato, dall'organo che lo emanò, vincolato ad osservare la procedura in camera di consiglio, idonea a garantire il contraddittorio tra le parti. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha annullato il provvedimento, adottato “de plano”, con il quale un sorvegliato speciale era stato autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione dalle ore 5 alle ore 21.30 di ogni giorno per coadiuvare il padre nell'esercizio della pastorizia)”.

Di recente è stato affrontato nuovamente il tema in esame e la Suprema Corte (Cass., II, n. 19329/2022) ha inteso, per le ragioni sin qui esposte, aderire ai due indicati precedenti della giurisprudenza di legittimità cassazione discostandosi, invece, da Cass. I, n. 2392/2020, che ha in generale ricondotto l'autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato per esigenze di lavoro nell'ambito della previsione di cui al d.lgs. n. 159/2011, art. 12.

Da quanto detto si trae conclusivamente che, poiché la revoca dell'autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato per svolgere, in modo stabile e continuativo, attività lavorativa implica, necessariamente, un giudizio di (ri)aumentata pericolosità e una modifica strutturale e permanente delle prescrizioni e, quindi, può essere disposta solo ai sensi del d.lgs. n. 159/2011, art. 11, comma 2, la stessa revoca deve essere disposta, in assenza di una specifica regolamentazione in tale art. 11, con l'ordinario procedimento di cui al d.lgs. n. 159/2011, art. 7 (che, per quanto non espressamente previsto, rinvia alle disposizioni dell'art. 666 c.p.p.), il quale impone che la decisione sia presa con la garanzia del contraddittorio tra le parti (Cass. II, n. 19329/2022).

Ciò posto, la procedura da seguire nel caso in cui venga richiesta una “modifica” ex art. 7, comma 2 l. n. 1423/1956 (oggi art. 11) non può che essere quella prevista dall'art. 4, comma 5 della stessa legge (adesso confluita nell'art. 12) con il richiamo agli artt. 636 e 637 c.p.p. abr., ai quali corrisponde oggi l'art. 678 del vigente codice di rito, che richiama a sua volta la disciplina prevista dall'art. 666 dello stesso codice.

Pertanto, il mutamento delle prescrizioni non potrà essere concesso all'esito di una procedura de plano, ma dovendo rispettare il disposto dei commi 3 e 4 dell'art. 666 c.p.p., che mirano ad assicurare quella garanzia del contraddittorio che costituisce il tratto peculiare del procedimento in camera di consiglio regolato dall'art. 127 c.p.p.

Ricapitolando, va sottolineato che l'elemento distintivo tra l'autorizzazione di cui all'art. 12 e la modifica di cui all'art. 11 è ravvisabile nel tipo di giudizio che il collegio è chiamato a formulare, atteso che solo la seconda implica e richiede un giudizio di diminuita pericolosità sociale del sottoposto; ancora, mentre la domanda tesa a soddisfare esigenze di carattere temporaneo va inquadrata nell'ambito dell'art. 12, invece una richiesta che implichi una valutazione circa la persistenza della pericolosità dell'interessato deve essere qualificata come richiesta di modifica delle prescrizioni originarie ed è quindi vincolata al rispetto delle regole processuali di cui all'art. 11, comma 2 (così Cass. I, n. 9590/2001).

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