Richiesta di riesame della pericolosità sociale (art. 14 d.lgs. n. 159/2011)InquadramentoAi sensi dell'art. 14, comma 2-ter, del d.lgs. n. 159/2011, l'esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena. Dopo la cessazione dello stato di detenzione, se esso si è protratto per almeno due anni, il tribunale verifica, anche d'ufficio, sentito il pubblico ministero che ha esercitato le relative funzioni nel corso della trattazione camerale, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato, assumendo le necessarie informazioni presso l'amministrazione penitenziaria e l'autorità di pubblica sicurezza, nonché presso gli organi di polizia giudiziaria. Se persiste la pericolosità sociale, il tribunale emette decreto con cui ordina l'esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all'interessato, salvo quanto stabilito dal comma 2 del presente articolo. Se invece la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione. Con sentenza n. 291/2013 la Corte costituzionale ha accolto la questione sollevata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dichiarando l'illegittimità dell'art. 15 del d.lgs. n. 159/2011 e dell'art. 12 della l. n. 1423/1956 nella parte in cui non prevedevano che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale restasse sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona a esso sottoposta, l'organo che aveva adottato il provvedimento di applicazione dovesse valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato al momento dell'esecuzione della misura. La Corte ha ricostruito il procedimento di revisione della pericolosità all'esito della cessazione della causa di sospensione mediante il richiamo all'art. 679 c.p.p., a norma del quale “quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell'art. 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti”. L'interpolazione operata dalla Consulta è stata, quindi, recepita con alcuni aggiustamenti nel nuovo comma inserito dalla legge di riforma del Codice Antimafia (l. n. 161/2017). Formula
Al Sig. Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di.... Il sottoscritto Avv..... del Foro di.... con studio in.... alla via...., difensore di fiducia di.... nato a...., nei cui confronti è stato emesso in data.... dal Tribunale di.... decreto con il quale è stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di....; PREMESSO che con il citato decreto egli è stato ritenuto appartenente al clan camorristico....; che detto decreto è divenuto definitivo dal....; che la sua esecuzione non è mai materialmente iniziata, essendo nelle more il predetto detenuto prima in custodia cautelare e poi in espiazione di pena; che, infatti, il sottoposto è stato anche condannato con sentenza n..... emessa in data.... dal Tribunale di.... per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.; che egli ha interamente scontato la pena, superiore ad anni due di reclusione, ed è stato scarcerato solo in data....; CHIEDE Di riesaminare, alla luce della sentenza n. 291/2013 della Corte Costituzionale e previa sospensione dell'esecuzione della misura in atto, la sua pericolosità sociale in ragione della lunga carcerazione patita. Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato (es. sentenza, nota della Direzione del carcere, valutazioni psicologiche, nota dell'UEPE) Con osservanza Luogo e data.... Firma.... CommentoCon sentenza n. 291/2013 la Corte costituzionale ha accolto la questione sollevata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dichiarando l'illegittimità dell'art. 15 del d.lgs. n. 159/2011 e dell'art. 12 della l. n. 1423/1956 nella parte in cui non prevedevano che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale rimanesse sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona a esso sottoposta, l'organo che aveva adottato il provvedimento di applicazione dovesse valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato al momento dell'esecuzione della misura. La Consulta, invero, aveva avuto modo di affermare, in più occasioni, che la comune finalità delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione – volte entrambe a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e a favorirne il recupero all'ordinato vivere civile al punto da poter essere considerate come “due species di un unico genus” – non implica, di per sé sola, un'indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline, posto che le due categorie di misure restano comunque distinte per diversità di struttura, settore di competenza, campo e modalità di applicazione. Nella specie, risultava tuttavia dirimente la considerazione che tra i due modelli che erano stati posti in raffronto – quello delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione della verifica della pericolosità sociale anche al momento dell'esecuzione, e quello delle misure di prevenzione, che considera sufficiente la verifica operata in fase applicativa, salva l'eventuale iniziativa dell'interessato intesa a contrastarla – l'unico rispondente ai canoni dell'eguaglianza e della ragionevolezza era il primo. Già in linea generale, infatti, il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell'atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta a un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, conclude la Corte, che non può darsi per scontato a priori l'esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell'interessato. Ciò, quantunque la pericolosità sociale debba risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione. Il giudizio di riesame della pericolosità: giudice competente, modalità e contenuto istruttorio La Corte ha ricostruito il procedimento di revisione della pericolosità all'esito della cessazione della causa di sospensione mediante il richiamo all'art. 679 c.p.p., a norma del quale “quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell'art. 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti”. Il riferimento al testo, oggi formalmente abrogato e trasfuso senza modifiche nell'art. 15 del Codice Antimafia, dell'art. 12 della l. n. 1423/1956 lascia immaginare che secondo la Corte detta disciplina si applichi anche alle misure di prevenzione irrogate prima della novella e a quelle conseguenti a proposte depositate prima della sua entrata in vigore, circostanza questa che appare, peraltro, del tutto ragionevole trattandosi di un necessario adeguamento della disciplina alle garanzie costituzionali. In ordine all'individuazione del giudice competente, la Consulta ha avuto modo di precisare che il riferimento del Tribunale rimettente al “giudice dell'esecuzione” come organo competente a verificare la persistenza della pericolosità non apparisse, in effetti, corretto sul piano sistematico, giacché in materia di misure di prevenzione personali non è prevista una fase giudiziaria di esecuzione essendo questa demandata, in via esclusiva, all'autorità di pubblica sicurezza. È noto, infatti, che il vigente art. 11 del Codice Antimafia attribuisce le funzioni esecutive al Questore territorialmente competente tanto che in dottrina si è affermato che nella materia de qua non esiste propriamente un'esecuzione giudiziaria, essendo tale fase interamente affidata all'autorità di P.S. Di qui, dunque, l'esigenza – fatta propria dalla Corte – di riferirsi a tal fine all'organo che ha emanato il provvedimento di applicazione della misura, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 7, comma 2, della l. n. 1423/1956 (oggi art. 11 del decreto n. 159/2011) in rapporto alla revoca o alla modifica del provvedimento stesso; peraltro, è a dirsi che non muta la sostanza, dovendo detta formula essere interpretata – alla luce dei correnti orientamenti giurisprudenziali – in senso sintonico al disposto dell'art. 665, comma 1 e 2, c.p.p. in tema di individuazione del giudice competente a decidere gli incidenti di esecuzione. Si osserva, tuttavia, che il parallelismo tra l'art. 7 della l. n. 1423/1956 e l'art. 679 c.p.p. trova un punto debole nella circostanza che nel primo caso è competente il giudice (in composizione collegiale) che ha emesso il decreto applicativo della misura, mentre nel secondo è individuato come competente il Magistrato di Sorveglianza (giudice monocratico), i cui provvedimenti sono di regola reclamabili innanzi al Tribunale di Sorveglianza in composizione collegiale. Il problema non potrebbe essere risolto onerando del giudizio di riesame sulla pericolosità il solo giudice relatore o estensore del provvedimento, apparendo del tutto eccentrico nel sistema rimettere a un organo monocratico la rivalutazione del medesimo dato – ovvero la pericolosità sociale e, in specie, la sua attualità – sul quale si era espresso in epoca antecedente il Tribunale in composizione collegiale. Sembra più coerente e ragionevole, quindi, lasciare che, come nel giudizio ex art. 7 di revoca anticipata, sia chiamato a decidere lo stesso giudice (collegiale) che ha emesso la misura della cui concreta esecuzione si discute. La Suprema Corte (Cass. I, n. 49148/2018) all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 161/2017 ha affermato che la competenza a decidere sulla domanda di rivalutazione dell'attualità della pericolosità sociale di un soggetto sottoposto a misura di prevenzione emessa prima del 19 novembre 2017 e rimasta sospesa in conseguenza dello stato di detenzione del destinatario appartiene al giudice che ha emesso il provvedimento, senza che acquisisca rilievo l'eventuale diversa attribuzione di competenza conseguente alla modifica dell'art. 5 del d.lgs. n. 159/2011, operata dalla l. n. 161/2017. La Corte ha anche sottolineato che resterà rimessa all'applicazione giudiziale l'individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterazione della verifica della pericolosità sociale potrà essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell'esecuzione della misura di prevenzione (si pensi al caso limite in cui la persona alla quale la misura è stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni di pena detentiva). Sul punto potrebbe, quindi, ritenersi che il diniego da parte del giudice di accedere alla riverifica della pericolosità nelle ipotesi in questione, apprezzamento che – come si vede, essendo connesso alla valutazione di un dato innanzi tutto quantitativo, ovvero la durata più o meno lunga della detenzione – non potrà che essere elastico e lasciato alla prudente (e motivata) discrezionalità dell'A.G. procedente, sarà comunque sindacabile in sede di impugnazione del relativo provvedimento, cui parrebbero applicabili per analogia le regole disegnate dalla legge e dalla giurisprudenza in tema di revoca anticipata. Quanto all'oggetto del giudizio di verifica della pericolosità, deve ritenersi che il Tribunale non possa esimersi dallo svolgere degli accertamenti al fine di comprendere l'effettiva valenza risocializzante, nel caso di specie e tenuto conto anche del grado di pericolosità tratteggiato nel decreto applicativo della misura, del trattamento penitenziario. A tal fine è certamente utile acquisire, richiedendoli al Direttore della Casa Circondariale in cui il prevenuto ha trascorso il periodo di detenzione più significativo e/o più recente, a titolo esemplificativo, la relazione di sintesi e osservazione del trattamento penitenziario effettuato, le relazioni comportamentali periodiche relative al periodo di trattamento, l'indicazione se il prevenuto abbia o meno beneficiato di permessi premio, atti di eventuali procedimenti disciplinari che lo abbiano visto coinvolto, l'esito di misure alternative alla detenzione di cui abbia beneficiato, l'indicazione se il detenuto sia o meno stato ammesso al lavoro esterno ai sensi dell'art. 21 Ordinamento Penitenziario e le conclusioni dell'osservazione psichiatrica in ipotesi espletata. Potrà essere opportuno, altresì, richiedere all'U.E.P.E. territorialmente competente di trasmettere un'aggiornata relazione socio-familiare sul prevenuto, nonché alla Cancelleria dell'ufficio di verificare se costui sia stato sottoposto a misure di sicurezza e, in caso positivo, acquisire il relativo provvedimento, nonché eventuale atto di revoca delle stesse. All'esito il giudice potrà provvedere nel senso di revocare o non revocare anticipatamente la sorveglianza (a questo punto mai eseguita in concreto) a seconda che ritenga ancora sussistente o meno l'attuale pericolosità sociale dell'interessato, già cristallizzata nel decreto applicativo; nel fare ciò dovrà sicuramente tenere conto – in una valutazione sinottica e comparativa – dell'epoca di emissione della misura e del lasso di tempo decorso fino al momento dell'effettiva potenziale sottoposizione, del tipo di pericolosità ritenuta (semplice o cd. qualificata, dovendosi probabilmente esercitare maggiore cautela in presenza di soggetti indiziati di appartenere a sodalizi mafiosi) e del grado di pericolosità, connesso all'effettivo disvalore delle condotte tenute e alla concreta possibilità che l'interessato tenga in futuro comportamenti pericolosi per la società, nonché ovviamente degli esiti delle indagini delegate in riferimento alla vita carceraria del prevenuto. Un'ultima questione di non poco momento è quella concernente la possibilità per l'A.G. di decidere de plano in base alle informazioni assunte, ovvero alla necessità di fissare un'udienza camerale e sentire in contraddittorio le parti sul punto. Appare senz'altro preferibile questa seconda strada, sia per ragioni di coerenza rispetto allo strumento, richiamato dalla Corte al fine di delineare le specifiche procedimentali del giudizio di riesame della pericolosità, della revoca/modifica di cui al previgente art. 7 della l. n. 1423/1956, sia che perché risulta necessario che la decisione circa l'attualità della pericolosità avvenga all'esito di un contraddittorio che consenta il ragionevole dispiegarsi delle ragioni dell'accusa e della difesa, come del resto era già accaduto nel momento genetico della misura allorché il Tribunale valutò, nel contraddittorio appunto, la sussistenza delle condizioni di legge per l'irrogazione della misura. Qualunque soluzione diversa, invero, risulterebbe poco confacente con il procedimento di progressiva – e ormai quasi completamente realizzata – giurisdizionalizzazione delle misure di prevenzione personali. Da segnalare come, in un interessante precedente, la Corte di Cassazione si sia soffermata sull'ampiezza del sindacato del giudice in sede di riesame della pericolosità sociale del sottoposto (Cass. I, n. 19657/2017). I giudici di legittimità ricordano che, a seguito della sentenza n. 291/2013 della Consulta, il giudice competente per l'esecuzione della misura preventiva già inflitta non può prescindere dal tener conto del (lungo) periodo di detenzione subìta dal prevenuto; la Corte costituzionale ha, infatti, affermato con chiarezza il potere-dovere del giudice di procedere anche d'ufficio alla rivalutazione della pericolosità sociale dell'ex detenuto. Dall'altra parte, sottolinea la Corte di cassazione, la legge non prevede, tra i presupposti per la revoca della misura di prevenzione, la produzione o l'allegazione di fatti nuovi rispetto a quelli che hanno legittimato l'applicazione della misura nel “primo” giudizio. Nel valutare la persistenza della pericolosità, bisogna perciò considerare il contesto probatorio che ha determinato, a suo tempo, l'applicazione della misura personale; ma occorre farlo alla luce della lunga detenzione, la quale può determinare una decisiva incrinatura dell'originario corredo fattuale. In altre parole, la Suprema Corte censura qualsiasi automatismo nel respingere le istanze di revoca delle misure preventive; occorrerà, al contrario, tenere conto del periodo trascorso in carcere, dell'incidenza che questo abbia avuto sulla condizione e sulla persona del proposto, della scemata pericolosità in conseguenza della sanzione penale. Altrimenti, il giudice dell'esecuzione della misura muove in effetti da una presunzione assoluta di pericolosità, in contrasto netto con i principii delineati dalla Corte costituzionale. Sull'altro versante, però, la Corte di cassazione nega che il prevenuto possa ottenere la revoca della misura unicamente in considerazione della lunga detenzione patita, giacché la pronuncia della Consulta escluderebbe automatismi in entrambi i sensi. Per un verso, infatti, il giudice dell'esecuzione non può omettere di valutare l'incidenza della pena espiata sulla persistente pericolosità del prevenuto; per altro verso, comunque quest'ultimo non può semplicemente far leva sulla pena subìta per ottenere la revoca della misura. Ad avviso della Cassazione, la giurisprudenza costituzionale introduce semplicemente l'obbligo di una seconda valutazione rigorosa e “neutra”, a garanzia tanto del prevenuto quanto dell'interesse collettivo. Si delineerebbe, quindi, una sorta di presunzione relativa della (perdurante) pericolosità, che l'interessato può vincere nel giudizio che precede l'esecuzione. In un interessante arresto di legittimità (Cass. II, n. 20954/2020) si è affermato che il procedimento ex art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011 attribuisce al tribunale il potere di dare esecuzione alla misura ovvero di revocarla, a seconda dell'esito dell'accertamento circa la persistenza della pericolosità sociale compiuto dopo un periodo di detenzione di almeno due anni, ma non consente di modificare parzialmente la misura, anche in relazione al termine di durata, potendo tale modifica essere adottata solo con il procedimento di cui all'art. 11, comma 2, dello stesso decreto durante l'esecuzione della misura e, dunque, anche eventualmente dopo che il procedimento ex art. 14 cit. si sia concluso con un provvedimento che a tale esecuzione abbia dato luogo. Nella citata sentenza si permette che il procedimento di cui si discute, avviato su istanza dell'interessato, è quello di cui all'art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011, norma introdotta nel cosiddetto Codice Antimafia dall'art. 4 della l. n. 161/2017; come è noto, essa ha introdotto l'obbligo del giudice di rivalutare l'attuale pericolosità sociale del soggetto che è stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nell'ipotesi in cui, come nel caso in esame, la misura sia stata sospesa durante il tempo in cui l'interessato è stato sottoposto a detenzione per espiazione di pena. Tale rivalutazione, alla quale il Tribunale deve procedere “anche di ufficio” – con il che ammettendosi che il procedimento possa avviarsi su istanza di parte – va effettuato “dopo la cessazione dello stato detentivo” e ad esso, per quanto compatibili, si applicano le disposizioni di cui all'art. 7 del medesimo d.lgs. n. 159/2011, intese a regolare le modalità della procedura, in particolare attraverso la previsione di una udienza che assicuri il contraddittorio tra le parti. All'esito dell'accertamento, secondo quanto espressamente si prevede, il Tribunale può emettere solo due provvedimenti, aventi la forma del decreto: – quello con il quale “ordina l'esecuzione della misura” di prevenzione, nel caso in cui ritenga che persista la pericolosità sociale del soggetto; quello con il quale “revoca” la misura di prevenzione nel caso opposto in cui ritenga “cessata” la pericolosità sociale dell'interessato; come si vede, la norma non prevede alcun intervento del Tribunale sulla durata della misura originariamente stabilita nel decreto impositivo rimasto sospeso a causa dell'intervenuta detenzione. Siffatto intervento – che costituisce una “modifica” della misura – è, invece, espressamente previsto e reso possibile dall'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159/2011. Tuttavia, tale procedimento è diverso da quello introdotto dall'art. 14, comma 2-ter dello stesso decreto. Il procedimento ex art. 11, comma 2, del Codice Antimafia, infatti, presuppone una misura in corso di esecuzione e regola i casi nei quali, per l'appunto durante l'esecuzione della misura, si verifichino eventi tali da giustificare una revoca o una modifica della misura stessa, evidentemente anche in relazione al termine di durata. Diverso è il caso all'esame, laddove la misura non è in corso di esecuzione, per essere stata sospesa in ragione di quanto detto. In quest'ultima evenienza, a garanzia dell'interessato, il legislatore ha introdotto l'obbligo di una nuova verifica della pericolosità sociale, nell'attualità, nei termini di cui all'art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159/2011, per assicurare che la futura esecuzione della misura sia ancorata alla effettiva persistenza del presupposto fondamentale ed imprescindibile della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, che il lungo periodo di carcerazione, superiore a due anni, potrebbe avere eliso. Solo una volta che sia stata accertata, in esito al procedimento ex art. 14 citato, la persistenza della pericolosità sociale e si sia, pertanto, ordinata, da parte del Tribunale, l'esecuzione della misura di prevenzione dopo l'intervenuta scarcerazione dell'interessato, quest'ultimo o la stessa autorità proponente potranno chiedere la revoca o la modifica secondo quanto prevede l'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159/2011. In quel caso, pertanto, il provvedimento impugnato è stato annullato con rinvio affinché si svolgesse un nuovo giudizio nel rispetto del principio di diritto enunciato dalla S.C. Le modifiche introdotte con l. n. 161/2017 La norma citata, vigente dal novembre 2017, ha codificato il dictum della sentenza n. 291/2013 della Corte Costituzionale nella parte in cui impone il riesame, anche officioso, dell'attualità della pericolosità del sottoposto al momento della ripresa dell'esecuzione della misura, sempre che vi sia stata sospensione per un apprezzabile lasso di tempo (che la Corte aveva rimesso alla valutazione caso per caso del giudice e che, invece, la l. n. 161 quantifica in almeno due anni). In specie, si segue la linea interpretativa della giurisprudenza di legittimità secondo la quale l'esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare; probabilmente, sarebbe stato opportuno prevedere la sospensione anche in presenza di altre misure incompatibili, come ad esempio il divieto di dimora nel comune in cui è stato imposto l'obbligo di soggiorno. Il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi; è stato correttamente richiamato tale adempimento, che costituisce l'unico documento che attesta, con certezza, l'effettiva soggezione del prevenuto alla misura. Si è, quindi, affermato in via normativa che occorre una (eventualmente nuova) redazione di apposito verbale di sottoposizione, ovvero di risottoposizione, alla misura di prevenzione al termine di quella cautelare al fine di poter considerare nuovamente decorrente il termine della prima. Il tema del rapporto tra riesame di pericolosità e sottoposizione concomitante a misure cautelari personali, la Suprema Corte (Cass. I, n. 29475/2019) ha avuto modo di chiarire che tale circostanza, incompatibile con la misura di prevenzione, non consente, all'esecuzione di quest'ultima, di ritenere superata o attenuata la presunzione di attualità della pericolosità sociale. (Fattispecie relativa a giudizio di pericolosità qualificata, desunto da sentenza di condanna non definitiva per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., fino alla cui irrevocabilità il ricorrente era stato sottoposto alla misura della custodia in carcere, protrattasi per circa sei anni, in cui la Corte ha ritenuto legittimo il provvedimento di rigetto dell'istanza di revoca considerando sia l'irrilevanza del periodo trascorso in custodia cautelare ai fini del riesame della pericolosità che il periodo di pochi mesi di detenzione del ricorrente in esecuzione della pena). Invero, si specifica che opera il principio di diritto secondo cui, in materia di misure di prevenzione personali, la concomitante sottoposizione del proposto a misura cautelare personale, detentiva o non detentiva, incompatibile con la misura di prevenzione, non consente, all'atto dell'esecuzione di quest'ultima, di ritenere superata o attenuata la presunzione di attualità della pericolosità sociale (Cass. I, n. 2797/2017). In tal senso occorre ora tener conto delle implicazioni scaturenti dalla disciplina di recente introduzione, sulla cui rilevanza, anche ermeneutica, rispetto al complessivo assetto, si segnala l'indirizzo espresso dal consesso di legittimità nella sua composizione più autorevole quando, affermando il principio secondo cui non è configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dall'art. 75 del d.lgs. n. 159/2011, nei confronti del destinatario di una tale misura, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza della rivalutazione dell'attualità e della persistenza della pericolosità sociale, da parte del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura, ha in motivazione sottolineato che rileva al riguardo il disposto dell'art. 14, comma 2-ter, del d.lgs. n. 159/2011, introdotto dall'art. 4, comma 1, della l. n. 161/2017, norma la quale – nel dare attuazione al contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013 ha stabilito che la verifica della pericolosità debba avvenire ad opera del tribunale, anche d'ufficio, dopo la cessazione della detenzione per espiazione di pena che si sia protratta per almeno due anni (S.U. n. 51407/2018). Si è, dunque, considerato che la riforma ora citata, nel recepire l'indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui la sorveglianza speciale può essere deliberata anche nei confronti di soggetto ristretto in carcere, ha avallato l'interpretazione del succitato quadro normativo secondo cui la detenzione di lunga durata – che sia, però, determinata da espiazione di pena – determina una sospensione dell'esecuzione della misura che non cessa con la fine della detenzione, ma permane fino a quando il tribunale competente non accerti la persistenza delle pericolosità dell'interessato; al fine di diradare le inevitabili incertezze che la pratica aveva visto affiorare in merito, la norma ha positivizzato il concetto di “consistente lasso di tempo” tra deliberazione della misura e sua applicazione individuandolo in quello di due anni. Notevole è, per quanto qui rileva, la constatazione che il comma 2-bis della stessa disposizione prevede che l'esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare: in questo caso, però, il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere senz'altro dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi. Tale assetto normativo, volto a completare il quadro di regole sciogliendo i residui dubbi interpretativi posti dalla giurisprudenza, va dunque interpretato, nel solco ora richiamato, differenziando la detenzione determinata da custodia cautelare, in sé implicante la persistenza della pericolosità del soggetto, dalla detenzione patita per espiazione di pena, quest'ultima soltanto, ove durata per il lasso minimo suindicato, comportando l'esigenza della verifica dell'attualità della pericolosità sociale del prevenuto. Ancora, l'esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena. Il legislatore ha poi inteso codificare la prassi dei giudici di merito, funzionale ad acquisire elementi di valutazione in merito alla condotta del sottoposto durante il periodo di detenzione. Se la pericolosità sociale è cessata, il Tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste la pericolosità sociale, il Tribunale ordina l'esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all'interessato. Quindi il Tribunale, qualora confermi la già ritenuta valutazione di attualità della pericolosità del sottoposto, diviene per la prima volta – in qualche modo – organo dell'esecuzione della misura (funzione normalmente attribuita al Questore, com'è noto) dovendo emettere un vero e proprio ordine di esecuzione. Come accennato, il riferimento all'ordine di esecuzione pare infatti comportare che il soggetto, all'atto della scarcerazione, non possa essere sottoposto se non dopo l'adozione di tale ordine. Si è, sul punto, osservato che la prosecuzione della sorveglianza speciale più correttamente avrebbe dovuto essere correlata – come nel caso del comma 2-bis – al verbale di sottoposizione conseguente all'ordine di esecuzione e non alla comunicazione, che produce effetti precipuamente ai fini del decorso dei termini di impugnazione. Manca invece, anche nel nuovo testo, una disciplina più chiara ed esplicita della fase esecutiva della misura, che poteva essere ottenuta ad esempio stabilendo che il Questore competente per territorio avrebbe dovuto provvedere agli adempimenti di cui all'art. 14, curando l'esecuzione della misura e computando gli eventuali periodi di sospensione. È rilevante evidenziare come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 162 del 17 ottobre 2024, abbia dichiarato l'illegittimità dell'articolo 14, comma 2 ter, del Codice Antimafia limitatamente alle parole “se esso si è protratto per almeno due anni”. Il Tribunale di Oristano ha sollevato questione di legittimità della norma in esame per contrasto con gli articoli 3, comma 1,13 comma 1 e 27 comma 3 della Costituzione nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell'esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per esecuzione di pena, il tribunale verifica la persistenza della sua pericolosità sociale soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni, questione dirimente nel caso concreto dato che il giudice era chiamato a valutare la rilevanza penale dei plurimi comportamenti del soggetto che, dopo un periodo di detenzione non superiore a due anni, era stato sottoposto a misura di prevenzione le cui prescrizioni aveva violato. La Consulta ha ritenuto fondata la questione in riferimento a tutti i parametri evocati: - quanto al profilo della parità di trattamento rispetto alla contigua materia delle misure di sicurezza, si è osservato che la limitazione temporale cristallizzata nella riforma del 2017 non appare in linea con la sentenza 291 del 2013 in quanto la presunzione in questione risulta intrinsecamente irragionevole e foriera di irragionevole disparità di trattamento rispetto alla materia di sicurezza, per come disciplinata dall'articolo 679 comma 1 del codice di procedura penale, e non vi è alcuna ragione per ritenere che, nell'arco di un intero biennio, la personalità di un individuo non possa subire significative modificazioni quando si tratti di persona detenuta in esecuzione di pena e, dunque, sottoposta a trattamenti che per vincolo costituzionale sono finalizzati alla sua rieducazione; - in ordine al tema dell'articolo 13, si evidenzia che l'esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza comporta certamente restrizioni della libertà personale e la disciplina censurata prevede, invece, meccanismi di tutela giurisdizionale successivi e solo eventuali (perché attivabili solo su istanza di parte) su un requisito centrale ( quello della pericolosità dell'interessato) la cui effettiva e persistente sussistenza al momento dell'esecuzione della misura deve essere considerata condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue; - d'altra parte, la subordinazione della rivalutazione della pericolosità alla richiesta dell'interessato fa ricadere su quest'ultimo gli eventuali ritardi della decisione del tribunale, restando nel frattempo eseguibile la misura nei suoi confronti con conseguente indebita limitazione della sua libertà personale ai sensi del ricordato articolo 13; - infine, con riferimento al principio della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all'articolo 27, si osserva che la presunzione legislativa in questione muove dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l'attitudine antisociale di chi vi è sottoposto, presupposto che appare incompatibile con la disposizione ricordata; - al contrario, l'ordinamento deve muovere dalla prevista dell'idoneità anche delle pene detentive di breve durata non superiore ai due anni a svolgere la ricordata funzione rieducativa nei confronti del condannato, dovendosi lasciare la porta aperta a verifiche caso per caso circa il raggiungimento dell'obiettivo di rieducazione ovvero la persistenza della situazione di pericolosità sociale dell'interessato, da contenere mediante l'esecuzione della misura di prevenzione disposta in precedenza. A conclusione di tale complesso ragionamento la Corte ha ritenuto indispensabile rimuovere l'inciso relativo al termine biennale chiarendo che, in conseguenza di ciò, dopo la cessazione dello stato di detenzione il tribunale sarà tenuto a verificare, anche di ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato con le modalità prescritte dalla disposizione in esame; fino a tale rivalutazione la misura precedentemente disposta dovrà considerarsi ancora sospesa e le prescrizioni con essa imposte non potranno bere effetto nei confronti dell'interessato. Si è, infine, precisato che resta ferma per il tribunale la possibilità di procedere alla rivalutazione della pericolosità dell'interessato in momenti immediatamente precedenti alla sua scarcerazione ovvero di omettere la rivalutazione quando la misura sia stata adottata nell'imminenza della scarcerazione stessa, tenendo conto dell'evoluzione della personalità dell'interessato durante l'esecuzione della pena. |