Reclamo avverso gli atti dell'amministratore giudiziario (art. 40 d.lgs. n. 159/2011)

Corinna Forte

Inquadramento

Ai sensi dell'art. 40 d.lgs. n. 159/2011, l'amministratore giudiziario non può stare in giudizio, né contrarre mutui, stipulare transazioni, compromessi, fideiussioni, concedere ipoteche, alienare immobili e compiere altri atti di straordinaria amministrazione anche a tutela dei diritti dei terzi senza autorizzazione scritta del giudice delegato.

Questi, in base alle modifiche apportate con la l. n. 228/2012, con l'autorizzazione scritta del giudice delegato, può locare o concedere in comodato i beni immobili, prevedendo la cessazione nei casi previsti dal comma 3-ter e comunque in data non successiva alla pronuncia della confisca definitiva.

In caso di beni immobili concessi in locazione o in comodato sulla scorta di titolo di data certa anteriore al sequestro, l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, pone in essere gli atti necessari per ottenere la cessazione del contratto alla scadenza naturale.

Avverso gli atti dell'amministratore giudiziario compiuti in assenza di autorizzazione scritta del giudice delegato il pubblico ministero, il proposto e ogni altro interessato possono avanzare reclamo, nel termine perentorio di quindici giorni dalla data in cui ne hanno avuto effettiva conoscenza, al giudice delegato che, entro i dieci giorni successivi, provvede ai sensi dell'art. 127 c.p.p. (così art. 40 d.lgs. n. 159/2011, come modificato dalla l. n. 161/2017).

In caso di sequestro di beni in comunione indivisa, l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, può chiedere al giudice civile di essere nominato amministratore della comunione.

Il tribunale, se non deve provvedere alla revoca del sequestro e alle conseguenti restituzioni, su richiesta dell'amministratore giudiziario o dell'Agenzia, decorsi trenta giorni dal deposito della relazione di cui all'art. 36 d.lgs. n. 159/2011, destina alla vendita i beni mobili sottoposti a sequestro se gli stessi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento o di rilevanti diseconomie; se i beni mobili sottoposti a sequestro sono privi di valore, improduttivi, oggettivamente inutilizzabili e non alienabili, il tribunale dispone la loro distruzione o demolizione.

I proventi derivanti dalla vendita dei beni affluiscono, al netto delle spese sostenute, al Fondo unico giustizia per essere versati all'apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato.

Formula

N..... RGMP

TRIBUNALE DI....

SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE

Alla c. a. del sig. Giudice Delegato Dott.....

Il sottoscritto Avv..... del Foro di.... con studio in.... alla via...., difensore di fiducia di.... nato a...., nei cui confronti è stato emesso in data.... dal Tribunale di.... decreto con il quale è stato disposto il sequestro di prevenzione dei beni a lui intestati, nominando amministratore giudiziario il dott..... nato a.... e con studio in....

PREMESSO

che l'amministratore giudiziario riveste la qualifica di pubblico ufficiale e deve adempiere con diligenza ai compiti del proprio ufficio;

che nel caso di specie ciò non è avvenuto, giacché la negligenza dell'amministratore ha determinato consistenti danni per i beni in sequestro;

che, in particolare, si rappresenta la seguente situazione:....

che in particolare l'amministratore ha contratto il seguente mutuo.... dell'importo di Euro.... garantito da ipoteca sull'immobile in sequestro sito in........ in catasto al....;

che ha proceduto a ciò senza autorizzazione scritta del giudice delegato;

che di ciò il proposto ha avuto conoscenza solo in data....;

che non risulta trascorso il termine perentorio di quindici giorni;

AVANZA RECLAMO

avverso il citato atto e chiede che la S.V., entro dieci giorni, fissi udienza camerale ai sensi dell'art. 127 c.p.p. per la rimeditazione della decisione assunta dall'amministratore senza previa autorizzazione scritta.

Con osservanza

Luogo e data....

Firma....

Commento

Ordinaria e straordinaria amministrazione: le novità della l. n. 161/2017

L'art. 40 d.lgs. n. 159/2011, riproduttivo del primo comma dell'art. 2-septies della l. n. 575/1965, richiede l'autorizzazione scritta del giudice delegato per gli atti di straordinaria amministrazione e, tra questi, il legislatore include: la determinazione di stare in giudizio (attivamente o passivamente), di contrarre mutui, di stipulare transazioni, compromessi, fideiussioni, di concedere ipoteche, alienare immobili.

La disposizione opera in presenza di beni sequestrati diversi dalle aziende, per le quali invece il riferimento testuale è l'art. 41.

Il testo normativo propone un modello che vede capace l'amministratore giudiziario per il compimento di tutti gli atti di ordinaria gestione, senza che occorra la preventiva autorizzazione del giudice delegato; al contrario, dovrà essere oggetto di espressa e preventiva autorizzazione (scritta) l'attività di straordinaria amministrazione.

Fermo restando che nulla pare vietare una ratifica successiva da parte del giudice delegato, ci si è chiesti quale sia la sorte di un atto di straordinaria amministrazione compiuto dall'amministratore senza prima essersi munito della citata autorizzazione.

Ciò premettendo che la legge nulla dice sul punto.

Invero, se si ritenesse che l'autorizzazione assume il rilievo di un requisito di efficacia dell'atto, dovrebbe concludersi che il negozio concluso dall'amministratore sia valido, ma inefficace.

Se, invece, si volesse sostenere che l'autorizzazione ha un ruolo fondamentale di concorso alla formazione della volontà negoziale, allora l'atto dovrebbe essere addirittura invalido per difetto di completamento di uno dei requisiti essenziali del negozio stesso, vale a dire la manifestazione della volontà negoziale.

In merito alle diverse tipologie di atti di straordinaria amministrazione,

si ritiene generalmente che l'elencazione prima riportata sia solo esemplificativa e non tassativa, grazie alla presenza dell'inciso normativo “e compiere altri atti di straordinaria amministrazione” che figura nel testo.

Per individuare gli atti di straordinaria amministrazione può in generale farsi riferimento alla disposizione contenuta nell'art. 35 della l. fall., facendovi così rientrare la riduzione di crediti, la ricognizione di diritti di terzi, la cancellazione di ipoteche, la restituzione di pegni e lo svincolo di cauzioni a titolo oneroso.

Il tutto, com'è evidente, solo con riferimento agli atti strettamente inerenti al bene oggetto della misura di prevenzione, mentre

nella procedura fallimentare si determinano lo “spossessamento” generale del fallito e l'attribuzione al curatore del potere di gestire tutti i suoi diritti patrimoniali.

Da ciò deriva che non sembra che l'amministratore giudiziario (o l'Agenzia) possa, per esempio, accettare eredità o donazioni, perché la misura di prevenzione colpisce i singoli beni del proposto e non comporta l'acquisizione alla procedura dei beni futuri, a differenza di quanto previsto dall'art. 42, comma 2 l. fall. per il fallito.

La norma non attribuisce (né all'amministratore, fino al decreto di confisca di secondo grado, né all'Agenzia, per la fase successiva) alcun rimedio espresso avverso il provvedimento con cui il giudice delegato respinge la richiesta di autorizzazione a compiere un atto di straordinaria amministrazione; anche questa lacuna normativa potrebbe essere superata interpretando estensivamente (come già accadeva per l'art. 2-sexies, comma 5 l. n. 575/1965) l'art. 38, comma 1, e ritenendo che l'Agenzia (anche su richiesta dell'amministratore) possa chiedere la revoca dell'atto al Tribunale.

Da segnalare, ancora, alcune importanti specificazioni apportate alla norma dalla novella vigente dal 9 novembre 2017.

In particolare, ai sensi del comma 3-bis l'amministratore giudiziario, con l'autorizzazione scritta del giudice delegato, può locare o concedere in comodato i beni immobili, prevedendo la cessazione nei casi previsti dal comma 3-ter e comunque in data non successiva alla pronuncia della confisca definitiva.

La citata disposizione statuisce, a sua volta, che l'amministratore giudiziario, anche su proposta dell'Agenzia, può – in via prioritaria – concedere in comodato i beni immobili ai soggetti indicati nell'art. 48, comma 3, lettera c), con cessazione alla data della confisca definitiva.

Infine, in caso di beni immobili concessi in locazione o in comodato sulla scorta di titolo di data certa anteriore al sequestro, l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, pone in essere gli atti necessari per ottenere la cessazione del contratto alla scadenza naturale.

Come si vede, quindi, si è voluto indirizzare in modo chiaro il lavoro dell'A.G. e dell'amministratore, prevedendo esplicitamente la possibilità di vendere, locare o dare in comodato gratuito gli immobili in sequestro, già peraltro ammessa nella prassi sempre subordinando tali atti alla necessaria previa autorizzazione scritta del giudice delegato.

Peraltro, si è ribadita l'intenzione del legislatore di addivenire a una gestione il più possibile razionale ed efficace della procedura di prevenzione, stabilendo che i beni immobili dovranno arrivare alla confisca definitiva liberi da vincoli e pesi, ivi compresa anche la possibile pendenza di contratti di godimento a loro riferiti, che ben potrebbe influire negativamente sulla loro efficiente destinazione agli scopi previsti dal sistema.

Il controllo giurisdizionale sugli atti di amministrazione giudiziaria

Nel vigore della l. n. 575/1965 (prima delle interpolazioni attuate a far data dall'anno 2008 con il cd. “primo pacchetto sicurezza”) era difficile comprendere se e quanto i soggetti coinvolti nella procedura (proposto e del terzo intestatario) potessero opporsi rispetto a una determinata scelta imprenditoriale assunta contro la loro volontà dall'amministrazione giudiziaria o dal giudice delegato.

Trattandosi di una gestione per conto di chi spetta, il sistema di diritto civile sembrava, proprio argomentando dall'istituto della rappresentanza, non attribuire a costoro azioni autonome, soprattutto considerata la presenza dell'amministratore giudiziario, assimilabile a una sorta di curatore dell'eredità giacente.

Non si era mancato di osservare, poi, come l'individuazione di strumenti extraprocedimentali, tecnicamente idonei ad assicurare una specifica tutela alle posizioni giuridiche incise dalla decisione del giudice delegato o dell'amministratore giudiziario, potesse determinare un conflitto tra provvedimenti del giudice penale e di quello civile, che andavano il più possibile scongiurati.

Non si riteneva, quindi, di poter assicurare tutela a posizioni asseritamente lese da atti dell'amministrazione giudiziaria, attraverso istituti diversi da quello dell'istanza rivolta giudice delegato; era, tuttavia, intuibile come, in caso di rigetto (attesa la non autonoma impugnabilità del decisum), colui che reclamava la violazione della relativa posizione soggettiva rischiasse di vedersi privato di una tutela effettiva.

Benché in materia non vi fossero precedenti specifici, si era, da parte di taluno, immaginato un spazio per il ricorso ad altra autorità giudiziaria richiedendo, laddove ne sussistessero i presupposti, anche i provvedimenti urgenti ex art. 700 c.p.c.; il ricorso alla tutela cautelare atipica poneva, certo, problemi di non facile soluzione su cui la giurisprudenza non sembrava affatto pacifica (nel senso dell'ammissibilità, Cass. I, n. 5670/1990).

Il problema si è accentuato alla luce dell''istituzione dell'Agenzia per la gestione dei beni, ente che ha, com'è noto, natura pubblica, con la conseguenza che gli atti da essa compiuti potranno ricadere anche nella giurisdizione del giudice amministrativo, salvo il caso in cui si tratti di atti o di assunti iure privatorum.

Forse intuendo la rilevanza della questione il legislatore, in sede di conversione del d.l. 4/2010, ha previsto (art. 9 l. n. 50/2010) un Foro esclusivo, che attrae tutte le controversie derivanti dall'applicazione del decreto istitutivo dell'Agenzia, in uno a quelle cautelari; le relative questioni sono rilevabili d'ufficio e attribuite alla competenza del Tribunale Amministrativo del Lazio, con sede in Roma.

Inoltre, si è ritenuto di dover predisporre forme di controllo sulle decisioni di amministrazione giudiziaria articolando due diversi livelli di tutela.

Il primo è quello che il sistema contempla all'art. 40, comma 4, del d.lgs. n. 159/2011, come modificato di recente con la l. n. 161/2017, che disciplina il controllo sugli atti dell'amministratore giudiziario e tratteggia l'ambito oggettivo entro cui è ammissibile il reclamo.

Il testo previgente parlava di “atti compiuti in violazione del decreto” per circoscrivere delimitare l'area entro cui si poteva intervenire chiedendo una verifica al giudice delegato.

Si trattava di una categoria aperta e decisamente ampia, la cui stessa genericità avrebbe potuto rischiare di introdurre applicazioni distorte, che potevano tradursi in ostacoli nella gestione dei beni; l'istanza di reclamo al giudice delegato, infatti, poteva essere utilizzata in maniera tale da ostacolare il regolare svolgimento della stessa fase di amministrazione.

La novella del 2017 ha opportunamente riscritto la disposizione, limitando il novero degli atti reclamabili solo a quelli compiuti “in assenza di autorizzazione scritta del giudice delegato”; quindi, eventuali impugnazioni per motivi diversi dovranno essere respinte in prima battuta senza scendere nel merito della questione controversa.

Nella vecchia formulazione il rischio di comportamenti strumentali era ancor più evidente ove si riflettesse sulla categoria dei titolati al ricorso; erano e sono, infatti, autorizzati al reclamo il P.M., il proposto ed “ogni altro interessato”.

La disposizione non fa riferimento alla qualità formale del terzo, partecipe del procedimento, nella sua qualità di “intestatario”; da ciò discenderebbe la chiara conseguenza che anche il terzo non intestatario del bene, che deduca la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile, o che potenzialmente rischi di subire atti pregiudizievoli, possa agire con il reclamo ex art. 40 d.lgs. n. 159/2011.

Si pensi, ad esempio, ai terzi creditori o a coloro che siano portatori di interessi di contenuto opposto a quelli cristallizzati nell'atto di amministrazione impugnato.

Non è, del resto, remoto il rischio che attraverso la censura dell'atto di amministrazione giudiziaria si miri a contestare e recuperare riconoscimenti di crediti che, di converso, sono stati esclusi nella sede naturale (quella di cui agli artt. 52 e ss.).

Da ciò consegue che lo strumento del reclamo incontra come limite strutturale quello di non poter, attraverso surrettizie rivisitazioni della questione, determinare conseguenze di riammissione di crediti o di posizioni già escluse nel procedimento di verificazione tipicamente deputato a quella finalità.

Competente a decidere è il giudice delegato.

L'istanza va presentata entro quindici giorni, decorrenti dall'effettiva conoscenza dell'atto (il testo previgente prevedeva il più breve termine di dieci giorni e non indicava precisamente il dies a quo del suo decorso, che quindi poteva essere inteso anche come il momento di compimento dell'atto impugnabile).

Il dies di decorrenza era, infatti, fissato in maniera generica, optando per un riferimento sommario al compimento dell'atto, senza indicare per ciascuna delle parti la data di decorrenza.

Senza dubbio appare più opportuno – nell'ottica di una lettura razionale della disposizione e in applicazione di un criterio di effettività della tutela giurisdizionale – far decorrere il termine dal momento in cui ciascuna delle parti ne abbia avuto cognizione.

Si potrebbe indubbiamente discutere se occorra la prova di una conoscenza formale dell'atto, ovvero se basti la certezza che esso di fatto sia stato conosciuto dalla parte; sembra, dal tenore della formulazione (si parla di conoscenza “effettiva”), che – anche laddove la parte abbia avuto conoscenza informale o aliunde del compimento dell'atto – sia tenuta comunque al rispetto del termine.

Senza dubbio un problema nasce qui dal fatto che l'amministrazione giudiziaria non è una fase esposta ontologicamente al contraddittorio ma, anzi, le scelte di gestione sono, in definitiva, sottratte alla parte interessata e in particolare al proposto e al terzo.

Ciò non rende immediatamente conoscibili gli atti stessi e, laddove essi siano conosciuti, non sono rari i casi in cui non si sia partecipi di tutti gli aspetti della singola operazione.

Quanto alla procedura di reclamo, è a dirsi che il richiamo alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio autorizza il collegio ad “assumere informazioni” e ammette sui decreti, resi all'esito della camera di consiglio, forme di impugnazione.

Molto importante da punto di vista procedimentale è, poi, la modifica apportata dalla l. n. 161/2017 alla procedura di reclamo avverso gli atti dell'amministratore: prima, infatti, venivano richiamati gli artt. 737 e ss. del c.p.c. (procedimenti in camera di consiglio), mentre oggi il rinvio testuale è al procedimento camerale tratteggiato dall'art. 127 del c.p.p.

Invero, il procedimento delineato dal c.p.c. non si svolge nelle forme della pubblica udienza, inizia con un ricorso (notificato solo se vi siano controinteressati) e viene deciso con un decreto motivato, con ordinanza o con sentenza (a seconda del contenuto dell'istanza); decreto ed ordinanza sono passibili di reclamo entro 10 giorni innanzi al giudice superiore.

La norma prevede, poi, che il giudice possa assumere informazioni (art. 738 c.p.c.) e stabilisce che i provvedimenti così emanati siano modificabili e revocabili in ogni tempo (art. 742 c.p.c.).

Al contrario, il procedimento camerale penale disegnato dall'art. 127 c.p.p. consente una migliore gestione del contraddittorio, imponendo l'avviso alle parti almeno 10 giorni prima della data fissata per l'udienza; tale modulo procedimentale appare inoltre, molto più idoneo a garantire gli interessi in gioco, prevedendo la nomina di un difensore di ufficio, la possibilità di presentare memorie in cancelleria fino a cinque giorni prima dell'udienza, la partecipazione dell'interessato se voglia comparire e la possibilità di ottenere un rinvio dell'udienza in caso di legittimo impedimento del proposto.

Come si vede, risulta assolutamente opportuno il richiamo alle regole del c.p.p., necessarie ed utili per assicurare il diritto di difesa al cospetto di interessi di notevole rilevanza e la possibilità per gli interessati di partecipare attivamente al procedimento nel quale verranno valutate le loro istanze.

Nella giurisprudenza di legittimità si è recentemente chiarito, in ordine alla disciplina anteriore alla novella, che l'intervento del giudice delegato in sede di reclamo proposto ai sensi dell'art. 40, comma 4, d.lgs. n. 159/2011 è circoscritto agli atti di gestione dei beni sequestrati compiuti dall'amministratore giudiziario in violazione delle direttive impartite dal giudice delegato laddove, invece, la regolamentazione dei rapporti giuridici relativi all'amministrazione dell'azienda sulla base delle norme dettate dal codice civile comporta che sia il giudice civile a dirimere le contestazioni formalizzate nel corso della gestione di tali rapporti (Cass. VI, n. 8523/2017).

Dunque, il legislatore ha inteso circoscrivere l'intervento del giudice delegato in sede di reclamo ai soli casi di violazione, da parte dell'amministratore giudiziario, delle disposizioni in precedenza impartitegli (cfr. Cass. I, n. 6325/2015, ma si vedano anche, in senso conforme, già Cass. I, n. 6348/1997; Cass. V, n. 11426/2015).

Il che trova la sua evidente ragion d'essere nella collocazione in seno al procedimento di prevenzione della misura genetica e nella strettamente connessa funzione di generale coordinamento e controllo della gestione del bene che spetta al giudice delegato laddove, per il resto, l'esplicita previsione normativa della regolazione dei rapporti giuridici inerenti all'amministrazione dell'azienda a mente delle norme dettate dal codice civile non può che comportare che sia il giudice civile chiamato a dirimere le questioni e le contestazioni che siano formalizzate nel corso della gestione di tali rapporti.

In senso contrario, non potrebbe d'altro canto invocarsi il disposto del comma 2 dello stesso art. 40, secondo il quale il giudice delegato può adottare, nei confronti della persona sottoposta alla procedura e della sua famiglia, i provvedimenti in tema di alimenti di cui all'art. 47 della l. fall., sia perché si è qui in presenza di diritti personalissimi, per i quali il legislatore ha inteso prevedere una disciplina ad hoc (la cui ragionevole maggiore celerità è strettamente connessa all'intento di meglio assicurare l'effettività della tutela) e sia perché, appunto, si è al cospetto di una espressa previsione normativa, ovviamente circoscritta all'ambito suo proprio.

Della reclamabilità ex art. 40 degli atti di gestione, compiuti in esecuzione delle direttive impartite dal giudice delegato all'amministratore, si è recentemente occupata la Suprema Corte, chiarendo che tali atti non possono essere oggetto di reclamo ai sensi dell'art. 40, comma 4, del d.lgs. n. 159/2011 (fattispecie relativa all'impugnazione dell'atto di revoca di tre collaboratori operativi – cd. coadiutori – disposta dagli amministratori giudiziari di beni sottoposti a sequestro di prevenzione sulla base delle direttive del giudice delegato; cfr. Cass. I, n. 52984/2017).

In motivazione si è precisato che gli stessi provvedimenti di revoca dell'amministratore giudiziario non sono suscettibili di reclamo o impugnazione, anche ai sensi dell'art. 111 Cost.; la tassatività dei mezzi di impugnazione e la garanzia procedimentale offerta dall'art. 35 all'amministratore di esporre le sue ragioni nella fase propedeutica al provvedimento sono stati ritenuti, in un quadro di considerazioni più complesso, argomenti persuasivi per concludere nel senso indicato (così Cass. I, n. 28644/2017; Cass. VI, n. 4964/2014).

Né va obliterata la non secondaria precisazione che l'impugnabilità della revoca avrebbe presupposto l'esistenza (non riscontrabile nello specifico caso) di un diritto al mantenimento dell'incarico da tutelare innanzi al giudice del grado ulteriore, fatto che avrebbe comportato l'incongruo effetto di ritenere la sussistenza di un obbligo, in capo al giudice della procedura, di prosecuzione dell'attività con l'amministratore verso cui si è interrotto il rapporto fiduciario; ciò, fermo restando che l'estromissione dalla gestione del patrimonio oggetto della misura di prevenzione determinata dalla revoca ha effetto pieno in senso endoprocedimentale, ma non elide la facoltà che compete al soggetto estromesso – il quale ritenga che il provvedimento di sostituzione o revoca, per i suoi contenuti, abbia leso altre sue posizioni soggettive meritevoli di tutela secondo l'ordinamento (fra cui i diritti della personalità) – di agire secondo le regole del diritto comune con l'azione risarcitoria.

Queste considerazioni – ha affermato la Suprema Corte – non possono non valere a fortiori per l'atto di revoca dei coadiutori dell'amministratore, ossia dei soggetti dai quali, previa autorizzazione del giudice delegato, l'amministratore giudiziario può farsi coadiuvare, sotto la sua responsabilità, sia che si tratti di tecnici, sia che si tratti di altri soggetti qualificati, anche nei loro confronti applicandosi, fra l'altro, il divieto di cui al comma 3 dello stesso art. 35.

La reclamabilità degli atti dell'amministratore, quindi, come si è già puntualizzato, è limitata ai soli casi di violazione, da parte dell'amministratore giudiziario, delle disposizioni normative e, con esse, delle direttive in precedenza impartitegli, in coerenza con la ratio di garantire, nell'ambito del procedimento di prevenzione, il coordinamento e il controllo della gestione del compendio che spetta al giudice delegato che lo attua, per tale sfera, in sede di reclamo (v. anche Cass. VI, n. 8523/2017).

Resta impregiudicato, al di fuori di tale ambito, il corso dei rapporti giuridici inerenti all'amministrazione del compendio amministrato, in primis quello di natura aziendale, disciplinato secondo le regole del codice civile (arg. ex art. 41, comma 4, d.lgs. n. 159/2011), con facoltà del soggetto che ritenga leso un suo diritto di chiedere tutela nella correlativa sede giurisdizionale.

L'atto dell'amministratore emesso in attuazione delle direttive del giudice delegato, insomma, esula dall'ambito regolato dall'art. 40, comma 4, cit.

Tali considerazioni, come accennato, non contrastano con il richiamo all'art. 47 l. fall. perché per tale sfera di rapporti è – in coerente seguito all'interpretazione della norma antecedente di cui il richiamato T.U. è tributario, vale a dire l'art. 2-ter l. n. 575/1965 – consolidato l'indirizzo secondo cui sono opponibili davanti al tribunale della prevenzione, nelle forme dell'incidente di esecuzione, i provvedimenti che il giudice delegato adotti in tema di alimenti e di abitazione nella casa di proprietà, nei confronti del proposto e dei componenti della sua famiglia.

Invero, sempre per tale ambito, pur non essendo stato previsto espressamente il mezzo impugnatorio, ma in presenza della necessità di scongiurare ingiustificate disparità di trattamento con la richiamata disciplina concorsuale e lasciare l'interessato in una situazione di carenza di tutela, si è affermata l'interpretazione – finalizzata a consentire una forma di controllo da parte di autorità giudiziaria diversa da quella che ha imposto il provvedimento sfavorevole anche in riferimento alle decisioni assunte dal giudice delegato o dall'amministratore giudiziario nel procedimento di prevenzione in merito alla gestione dei beni sequestrati – secondo cui l'unica forma di contestazione proponibile va individuata nell'opposizione al tribunale della prevenzione nelle forme dell'incidente di esecuzione.

Posto ciò, quale che sia la giuridica possibilità di estendere ad atti diversi da quelli regolati dal comma 2 dell'art. 40 cit. lo strumento di tutela dell'incidente di esecuzione avverso i provvedimenti del giudice delegato, è certo che tale tutela non compete al coadiutore che venga attinto dall'atto di revoca dell'incarico emesso dall'amministratore giudiziario nei suoi confronti in attuazione della direttiva del giudice delegato.

Invero, anche questo atto – al pari della revoca dell'amministratore giudiziario – costituisce manifestazione della potestà conferita agli organi del procedimento di prevenzione di far cessare il rapporto con quel collaboratore per essere venuto meno il relativo rapporto fiduciario, rispetto al quale il coadiutore non può vantare alcun diritto al mantenimento di quell'incarico, pure esso di matrice pubblicistica, in un quadro normativo di tassatività dei mezzi di impugnazione che, nel procedimento di prevenzione, non contempla l'obbligo per i suoi organi di prosecuzione dell'attività con quel coadiutore qualora venga a mancare il legame fiduciario sotteso alla sua nomina (per la natura di pubblico ufficiale del coadiutore giudiziario, cfr. Cass. VI, n. 33724/2010).

Pure qui, naturalmente, l'estromissione dall'incarico di coadiutore ha effetto pieno sempre in ambito endoprocedimentale, essendo impregiudicata la facoltà del collaboratore cessato di far valere secondo le regole del diritto comune la tutela delle sue posizioni soggettive che reputi ingiustamente lese dall'atto.

Diverso è, invece, il tema dell'impugnabilità degli atti del giudice delegato, rispetto al quale va preliminarmente osservato che, posto che i provvedimenti ex art. 47 del r.d. n. 267/1942, sono passibili di reclamo al Tribunale o alla Corte di appello in virtù della previsione di cui all'art. 26 della medesima legge fallimentare, deve riconoscersi, onde evitare disarmonie di sistema ed ingiustificate disparità di trattamento con la disciplina fallimentare, la possibilità di impugnazione dei provvedimenti del giudice delegato emessi ai sensi dell'art. 40 del predetto decreto, individuando nell'opposizione, da rivolgere al giudice della prevenzione nelle forme dell'incidente di esecuzione, il mezzo di tutela più adeguato (in questo senso cfr., tra le altre, Cass. V, n. 13832/2018; Cass. I, n. 6325/2015).

Con riferimento ad ipotesi differenti da quella appena menzionata, convivono, nella giurisprudenza di legittimità, diversi orientamenti.

Il più restrittivo – espresso, tra le altre; da Cass. I, n. 19460/2018 – muove dal presupposto che il principio di tassatività delle impugnazioni osta in radice, in materia di misure di prevenzione, all'impugnabilità, in difetto di un'espressa previsione al riguardo, dei provvedimenti del giudice delegato; tale indirizzo si incentra, in specie, sull'inquadramento sistematico che contrappone il regime delle direttive impartite dal giudice delegato all'amministratore giudiziario ai sensi dell'art. 40, comma 1, d.lgs. n. 159/2011, da ritenersi inoppugnabili, ai provvedimenti indicati nell'art. 47, comma 1, r.d. n. 267/1942, assunti dal giudice delegato, ai sensi dell'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, impugnabili con atto di opposizione al tribunale in composizione collegiale nelle forme dell'incidente di esecuzione, e colloca in posizione autonoma gli atti dell'amministratore giudiziario compiuti in assenza di autorizzazione scritta del giudice delegato, davanti al quale sono impugnabili.

Di opposto tenore sono le indicazioni che si traggono da altro filone interpretativo che ha ritenuto piuttosto come, unitamente all'esigenza di garantire l'uguaglianza fra settori ordinamentali diversi, occorra, comunque, riconoscere la possibilità di impugnazione dei provvedimenti del giudice delegato, che incidano su interessi meritevoli di tutela, anche al di fuori del perimetro dell'art. 40 comma 2, in modo da garantire una forma di controllo sull'attività del giudice delegato che incida proprio su tali situazioni giuridiche; in proposito, è stato, in alcune decisioni, stabilito che gli atti gestori del giudice delegato e del tribunale che sono destinati a divenire definitivi e ad incidere su diritti soggettivi, assumono, in concreto, natura di sentenza, sì da rendere ammissibile la proposizione, avverso di essi, di ricorso straordinario per cassazione ai sensi degli artt. 111 Cost. e 568, comma 2, c.p.p. (così, tra le altre, Cass. I, n. 35536/2019).

Parzialmente diversa è la ricostruzione privilegiata da altre pronunzie (Cass. V, n. 24663/2018) che ritengono la sussistenza di un principio di ordine generale, nel senso della possibilità. di presentare opposizione al Tribunale della prevenzione contro i provvedimenti del giudice delegato incidenti su posizioni giuridiche qualificate.

La Corte di recente (Cass. I, n. 21121/2021) ha affermato che quest'ultima opzione meglio risponda alle esigenze di salvaguardia dei soggetti coinvolti, in quanto – a differenza di quanto accade ammettendo la proposizione del solo ricorso per cassazione exartt. 111 Cost. e 568, comma 2, c.p.p. – garantisce il riesame, nel merito, della decisione impugnata e non riduce lo spettro dei vizi deducibili in sede di legittimità alla sola violazione di legge. L'opposizione attraverso promozione di incidente di esecuzione ai sensi dell'art. 666 c.p.p. assicura, invero, il doppio grado di giurisdizione di merito, che bene si coniuga con l'incidenza di provvedimenti di natura dispositiva su interessi giuridicamente rilevanti e la conseguente necessità di un pieno dispiegamento della tutela giurisdizionale. Per contro, l'esclusione del ricorso all'incidente di esecuzione si tradurrebbe nella sottrazione ai soggetti legittimati – difficilmente giustificabile sul piano sistematico soprattutto nelle fattispecie, quale quella qui in esame, nelle quali l'atto della cui impugnabilità si discute è stato emesso da un giudice monocratico ed al di fuori del contraddittorio – della possibilità di fruire di un grado di merito, ove poter dibattere con ampie facoltà deduttive e nella pienezza del contraddittorio, senza dover, invece, incontrare le limitazioni del giudizio di legittimità in materia di misure di prevenzione patrimoniale.

L'individuazione del rimedio nell'incidente di esecuzione si palesa, d'altro canto, coerente con il carattere residuale e «di chiusura» del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., volto ad assicurare protezione a situazioni giuridiche che non abbiano trovato aliunde riconoscimento.

La soluzione prospettata trova, come detto, fondamento nel rango delle situazioni giuridiche coinvolte dal provvedimento dell'organo della procedura di prevenzione patrimoniale: ineludibile appare, pertanto, l'individuazione di un percorso ermeneutico volto a circoscrivere con sufficiente precisione l'ambito di quelle che, in quanto coinvolte dal provvedimento del giudice delegato, consentono la proposizione dell'incidente di esecuzione, cioè ad assegnare maggiore concretezza all'espressione, a più riprese evocata dalle pronunzie richiamate, di «interesse meritevole di tutela».

Tale inciso, invero – lungi dal ricomprendere, in senso lato, qualsiasi interesse, purché lecito – va riferito, secondo la ricostruzione che si intende qui accreditare, alle situazioni giuridiche di diritto soggettivo suscettibili di patire un pregiudizio diretto e definitivo per effetto di provvedimenti del giudice delegato alla gestione della fase esecutiva delle misure di prevenzione patrimoniale che, per tale ragione, devono essere assoggettati ad impugnazione.

Segnatamente, guardando al contenuto dei provvedimenti emessi dal giudice delegato, occorre distinguere fra atti di gestione in senso stretto ed atti di natura dispositiva: gli atti di pura gestione – e, di conseguenza, le spese di gestione ad essi collegate – sono quelli che consentono la fisiologica prosecuzione dell'attività imprenditoriale e che risultano funzionali al perseguimento dello scopo di lucro e di massimizzazione dell'utile d'impresa (rientrano in tale categoria, ad esempio, la scelta dell'amministratore giudiziario di attivare le procure di licenziamento di uno o più dipendenti, la decisione di dismettere beni aziendali, la nomina di un legale che curi gli interessi dell'impresa in un determinato contenzioso).

Tali atti, pur riverberando i propri effetti sulla sfera patrimoniale dell'imprenditore preposto, non determinano un pregiudizio diretto e definitivo, sicché non emerge, rispetto ad essi, la necessità di apprestare un efficace strumento di controllo giurisdizionale.

Natura propriamente dispositiva deve essere, invece, attribuita a quegli atti che incidano in modo decisorio e definitivo su situazioni giuridiche soggettive, per identificare i quali, ferma la sopra prospettata distinzione di carattere definitorio, è possibile avvalersi degli esiti, cristallizzati in apposita pronunzia del massimo organo nomofilattico (S.U., Sentenza n. 27073/2016); affinché, peraltro, un provvedimento non avente veste di sentenza sia impugnabile in cassazione ai sensi dell'art. 111, comma settimo, Cost. non è sufficiente che abbia carattere decisorio, occorre anche che non sia soggetto a un diverso mezzo d'impugnazione, dovendosi altrimenti esperire anzitutto tale mezzo – appello, reclamo o quant'altro – sicché il ricorso per cassazione riguarderà il successivo provvedimento emesso all'esito. In ciò consiste il requisito della definitività.

La natura dell'atto si riflette, dunque, sul regime di impugnazione, onde deve, logicamente, inferirsi che gli atti di pura gestione, non vulnerando in via definitiva e decisoria i diritti soggettivi del soggetto interessato, restano inoppugnabili, mentre quelli a contenuto dispositivo sono soggetti a riesame da svolgersi, in forza del meccanismo sopra enucleato, attraverso l'opposizione nella forma dell'incidente di esecuzione.

Il secondo modello di controllo sugli atti di amministrazione giudiziaria è scritto nell'art. 38 del d.lgs. n. 159/2011; si tratta, comunque, di uno strumento soggettivamente limitato, in quanto autorizzata ad avvalersene è unicamente l'Agenzia.

In particolare, l'Agenzia può chiedere che siano revocati o modificati gli atti di amministrazione assunti dal giudice delegato quando ritenga che essi possano recare pregiudizio alla destinazione o all'assegnazione del bene. Si discute se del collegio, che cura la verifica, sia autorizzato ad esser parte lo stesso giudice delegato del cui atto si discute.

Parrebbe preferibile – in ossequio al principio di terzietà, in generale, dell'organo decidente – optare per la soluzione negativa.

Non può, tuttavia, trascurarsi che non è certo che ci si trovi di fronte a un mezzo di gravame in senso stretto, premessa che ben potrebbe ammettere l'ipotesi che possa partecipare al collegio anche il giudice delegato che ha emesso il provvedimento da valutare.

Ciò perché lo strumento di verifica in esame, circoscritto unicamente all'Agenzia, potrebbe inscriversi in quella categoria di istituti che ammettono l'autorità giurisdizionale e l'Agenzia a un'interlocuzione costante, in funzione della corretta gestione del bene e della sua destinazione finale; tale prospettiva aprirebbe a una lettura non contenziosa dell'istituto e a una forma di controllo sull'atto di amministrazione che si sposta anche sul piano della pura opportunità, piano da verificare e valutare solo con la “partecipazione” necessaria anche dell'organo che abbia assunto il provvedimento.

La norma è, peraltro, modificata già per effetto della l. n. 161/2017.

Scompare, infatti, nella nuova versione dell'art. 38 la facoltà dell'Agenzia di chiedere al tribunale la revoca o la modifica dei provvedimenti di amministrazione adottati dal giudice delegato quando ritenga che essi possono recare pregiudizio alla destinazione o all'assegnazione del bene.

Si consente solo all'Agenzia di proporre al tribunale tutti i provvedimenti necessari per la migliore utilizzazione del bene, in vista della sua destinazione o assegnazione.

Ciò probabilmente al fine di coordinare la disposizione con quella che ha spostato in avanti (dalla confisca di primo grado a quella di appello) il momento in cui l'Agenzia subentra pleno iure nell'amministrazione dei beni: sarebbe stato, infatti, irragionevole e foriero di problemi in concreto consentire a tale ente di sindacare i provvedimenti adottati dal giudice delegato in una fase nella quale l'Agenzia non ha uno specifico potere di amministrazione, ma può al massimo svolgere compiti di ausilio del tribunale.

Restano, invece, fermi gli obblighi di comunicazione all'Agenzia per via telematica dei provvedimenti di modifica o revoca del sequestro e quelli di autorizzazione al compimento di atti di amministrazione straordinaria (già previsti dal comma secondo dell'art. 38, nel testo precedente); si prevede, altresì, che l'Agenzia effettui le comunicazioni telematiche con l'autorità giudiziaria attraverso il proprio sistema informativo, inserendo tutti i dati necessari per consentire quanto previsto dagli articoli 40, comma 3-ter, e 41, comma 2-ter.

All'esito del giudizio di appello, dunque, l'amministrazione dei beni è oggi conferita all'Agenzia, che ne cura la gestione fino all'emissione del provvedimento di destinazione.

La communio pro indiviso

L'art. 40 chiude la serie di innovazioni trattando della communio pro indiviso.

In caso di sequestro di beni in comunione indivisa, l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, può chiedere al giudice civile di essere nominato amministratore della comunione.

L'amministrazione della cosa comune e le scelte relative avverranno, peraltro, secondo le disposizioni dettate dagli artt. 1100 e ss. c.c. e in particolare del disposto di cui all'art. 1105 c.c., che fissa il principio della prevalenza della maggioranza dei partecipanti.

Pertanto, ove siano attinti dalla misura tutti i titolari di quota e, pertanto, il vincolo reale abbia fatto subentrare l'amministratore giudiziario nella posizione di tutti i quotisti, non vi sono ragioni specifiche in virtù delle quali l'amministratore giudiziario dovrebbe rivolgersi al giudice civile per ottenere la nomina di amministratore della comunione.

In questa ipotesi, invero, egli già cumula la totalità delle quote e ben può operare garantendo la regola maggioritaria che la norma impone.

Al contrario, il problema della necessità del ricorso all'autorità giudiziaria civile si può porre nei casi in cui il sequestro non abbia colpito la quota di maggioranza, ma si sia limitato a una quota minoritaria ovvero a che non superi il 50% della partecipazione.

In questo caso si può rendere necessario anche il ricorso alla nomina di un amministratore terzo per evitare possibili criticità o situazioni di stallo nella gestione.

Peraltro, non può probabilmente ritenersi che la norma in commento costituisca in capo all'amministratore giudiziario un titolo di preferenza, garantendogli proprio per la particolare condizione del bene – che risulta pro quota sottoposto a sequestro – una posizione differenziata e qualificata anche in funzione della assunzione del ruolo di amministratore della comunione.

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