Risarcimento del danno non patrimoniale: rilevanza dell’elemento soggettivo e del disvalore della condotta

10 Ottobre 2023

Lo scritto esamina i diversi modi in cui la gravità della condotta, e in particolare l’elemento psicologico, pur apparentemente estranei alla funzione strettamente reintegrativa del risarcimento, incidono sia sulla individuazione delle fattispecie risarcibili che sulla quantificazione del danno non patrimoniale.

Originaria funzione del risarcimento del danno non patrimoniale

Il percorso evolutivo del risarcimento del danno non patrimoniale è caratterizzato da incertezze e da scarsa linearità.

Il punto di partenza è però efficacemente cristallizzato nella relazione del Guardasigilli all’art. 2059 c.c. in cui si afferma che la finalità compensativa del dolore subìto e l’assenza di parametri certi giustificano la riparazione solo nel campo dei reati, rafforzando l’efficienza della sanzione afflittiva che passa in primo piano rispetto alle esigenze del soggetto danneggiato.

Da tale postulato la giurisprudenza ha dedotto che, più grave è la condotta di reato, maggiore è il pregiudizio morale, facendo ricorso a una presunzione che ha facilitato certamente il compito di liquidazione di un danno confinato nella sfera dell’intimo dell’individuo.

Prima dell’arresto delle Sezioni Unite del 2008, con le sentenze di San Martino, le pronunce della Corte di Cassazione mutuavano direttamente, ai fini della liquidazione del danno, i parametri della determinazione della pena e in particolare l’intensità del dolo e il grado della colpa (art. 133, n. 3 c.p.).

La liquidazione del danno non può che avvenire con criteri equitativi tenendo conto della gravità del reato e del patema d’animo subito dalla vittima”, avverte Cass. n. 14758/2000, mettendo in rilievo sia il nesso causale tra gravità del reato ed entità del danno subito da una vittima di tentata concussione sia la condotta della vittima stessa (“se vessatoria era stata la condotta dei convenuti non lineare e sincera era stata quella dell’attore”).

In altro caso si considera la rilevanza della circostanza attenuante della provocazione (art. 62, n. 2, c.p.) ai fini della liquidazione, sotto il profilo dell'intensità del dolo della condotta dell’autore dell’illecito.

Nei reati non dolosi il grado della colpa rileva pure quale profilo soggettivo della condotta del danneggiante, da tenere distinto dalla colpa avente incidenza causale ai sensi dell’art. 1227 c.c. (Cass. n. 15103/2002).

Anche nel caso di danno all’integrità psicofisica si tiene conto della gravità dell'illecito penale, oltre che di tutti gli elementi della fattispecie concreta, sebbene il criterio della determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, non sia considerato di per sé illegittimo (Cass. n. 10035/2004).

L’intervento delle sezioni unite: la gravità della condotta quale criterio di ammissibilità del risarcimento dei danni non patrimoniali

Le sentenze di San Martino del 2008 per la prima volta operano una lettura dell’art. 2059 c.c. omogenea rispetto ai principi generali dell’art. 2043 c.c. che regolano l’illecito aquiliano, caratterizzato dalla lesione ingiusta di interessi tutelati dall’ordinamento.

Il risarcimento del danno non patrimoniale non è più confinato ai casi tassativi previsti dalla legge, ma è riconosciuto anche in quelli in cui l’illecito abbia violato diritti inviolabili della persona, selezionati dall’interprete.

Se spesso le condotte di reato sono lesive di diritti fondamentali della persona, non è detto che la violazione di tali diritti integri necessariamente gli estremi di reato, ma, ciò nonostante, le lesioni devono essere risarcite.

Per esempio, il mobbing può risolversi in una mera condotta di inadempimento da parte del datore di lavoro, poiché le condotte che lo caratterizzano assumono solo eventualmente rilevanza penale, integrando i reati di lesioni, minacce, violenza privata, stalking. Ciò nonostante, è ammesso il risarcimento del danno, sempre che sia provato, quando la condotta del datore di lavoro, protratta nel tempo, si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, per la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. (Cass. n. 18836/2013).

La particolare qualificazione dell’elemento psicologico in termini di intenzionalità è indicativa del fatto che la lesione dei diritti del lavoratore rileva nella misura in cui si risolva in un sentimento di svilimento e assoggettamento in una relazione intersoggettiva; in altri termini la sofferenza morale deriva in gran parte dall’atteggiamento prevaricatore dell’autore della condotta.

In un caso di risarcimento del danno alla identità sessuale in conseguenza di una condotta omofobica e discriminatoria, la Corte di Cassazione (Cass. n. 1126/2015) ha messo esplicitamente in rilievo il ruolo della particolare gravità della condotta ai fini della quantificazione del danno, traendone conferma, sia pur a contrario, dalle stesse Sezioni Unite del 11 novembre 2008 secondo cui “La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. (…) . La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza”.

Il dolo in questi casi è elemento imprescindibile dell’illecito, perché caratterizza la potenzialità lesiva della condotta illecita, non diversamente dai casi in cui le condotte assumono gli estremi di reato (diffamazione, violenza o minaccia).

Lesione dell’integrità psicofisica e gravità della condotta

Invece la condotta può essere indifferentemente dolosa o colposa nel caso di lesione dell’integrità psicofisica, riconosciuta espressamente dall’art. 32 Cost. come diritto fondamentale dell’individuo e alla cui compromissione anche minima consegue l’integrazione di reato e l’attribuzione del diritto al risarcimento.

Nel corso degli anni nella giurisprudenza di legittimità è tornata progressivamente all’attenzione dell’interprete la duplice componente del danno all’integrità psicofisica, quella biologica (dinamico-relazionale), che emerge dall’accertamento medico legale, e quella della sofferenza interiore (danno morale), e al contempo si è cercato un modus operandi per una corretta personalizzazione del danno, scevra da facili automatismi.

Nella c.d. “Ordinanza decalogo” n. 7513/2018 la Corte di Cassazione ha affermato che l’attribuzione di un’ulteriore somma per il risarcimento del pregiudizio che non ha fondamento medico legale (c.d. sofferenza interiore) non costituisce un’indebita duplicazione e che ai fini della relativa liquidazione è possibile fare ricorso al ragionamento probatorio di tipo presuntivo.

Un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale, quale autonoma componente del danno alla salute, viene considerato quello della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva: “tanto più grave, difatti, sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall'aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa.” (così ancora Cass. n. 25164/2020).

Si deve quindi riconoscere che il danno morale che normalmente si accompagna al prodursi di una lesione all’integrità psicofisica coincide con la percentuale forfettaria indicata nella tabella del Tribunale di Milano (incremento per sofferenza), stante la normale corrispondenza in termini di proporzionalità diretta tra gravità della lesione e sofferenza soggettiva.

Nel caso di condotta dolosa può tuttavia verificarsi un’eccezione a tale regola.

La Corte di Cassazione, in una vicenda in cui un soggetto aveva aggredito la vittima alle spalle nel corso di un diverbio accesosi durante una partita amatoriale di calcio, mordendogli l’orecchio e causandogli il distacco parziale del lobo superiore, con danno biologico del 10%, avvisa della necessità di valutare se il fatto illecito violento, di natura dolosa, da cui è derivata la lesione alla persona, meriti una particolare e separata valutazione in termini di danno morale, e la fattispecie dunque integri le ipotesi particolari che giustificano, in ipotesi, anche uno sconfinamento dai parametri tabellari ordinari (Cass. n. 32787/2019).

In questo caso la natura dolosamente aggressiva della condotta conduce a presumere una sofferenza morale maggiore rispetto a quella attribuita in misura standard dalle tabelle, anche se non viene ravvisata la lesione di ulteriori interessi costituzionalmente rilevanti, probabilmente in quanto la condotta è indirizzata unicamente alla aggressione fisica.

La lesione del diritto alla salute può accompagnarsi però alla compromissione di interessi ulteriori rispetto alla mera menomazione dell’integrità psicofisica.

In un caso di atti di libidine su minore che avevano provocato una lesione dell’integrità psichica clinicamente rilevante, la Cassazione ha affermato che il danno morale non era una mera quota del danno alla salute, ma scaturiva dalla lesione di beni giuridici diversi, tutelati da norme diverse della Costituzione.

La regula iuris della unitarietà del danno non patrimoniale non esonerava il giudice dal dovere di un esame analitico delle varie voci di danno giuridicamente rilevanti, non potendosi stabilire a priori la liquidazione del danno morale in una frazione del danno biologico, essendo il danno morale non soltanto pretium doloris, ma anche la risposta satisfattiva alla lesione della libertà e dignità umana che vengono incise da una condotta intenzionalmente prevaricatrice (Cass. n. 13530/2009).

Nei casi di violenza sessuale l’integrità psicofisica risulta solo uno dei beni della vita compromessi, venendo comunque in rilievo sempre la lesione della libertà.

In alcune pronunce risarcitorie penali, emesse a seguito di costituzione di parte civile, i giudici hanno anzi al contrario considerato il danno biologico, e in particolare il danno psichico, come componente di quello morale, prescindendo dai parametri tabellari utilizzati dalla giurisprudenza civile (v. Cass. pen. n. 46170/2014 in un caso di violenza sessuale su minore in cui il giudice di merito aveva considerato unitariamente il danno biologico subito, in termini di compromissione della vita familiare ed affettiva, perdita dell'infanzia, pregiudizio di serena crescita e di progressivo sviluppo psicofisico, e Cass. pen. n. 10802/2018 in cui pure in fattispecie analoga si afferma che occorre tenere conto dell'intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale del minore, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonché dell'incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima).

Questo approccio però non appare in armonia con l’evoluzione della giurisprudenza civile che richiede l’individuazione del o dei beni lesi come presupposto per la successiva individuazione delle conseguenze dannose correlate a ciascuno di essi.

Il riconoscimento dei diritti costituzionali tutelati ex art. 2 Cost. è strumentale all’affermazione e alla tutela della pari dignità umana, ma la dignità in sé non costituisce un interesse fondamentale autonomo, quanto invece il corollario di quei diritti.

(Segue) conseguenze nella applicazione delle tabelle

Analizzando la casistica della giurisprudenza di merito si può avere un’idea più concreta di come, a fronte di illeciti dolosi, sono stati incrementati i valori massimi scaturenti dall’applicazione delle tabelle riguardanti la lesione dell’integrità psicofisica o anche è stata riconosciuta un’altra voce di danno, determinata in via equitativa, per la sofferenza connessa alla lesione di diritti costituzionalmente tutelati diversi dal diritto all’integrità biologica, nei casi in cui il danno alla salute era minimale rispetto al danno più rilevante alla libertà sessuale, alla libertà personale, all’onore, alla reputazione, ecc.

In un caso di violenza sessuale su minore che aveva riportato un disturbo post-traumatico da stress cronico con invalidità temporanea protrattasi per due anni e postumi permanenti nella misura del 18%, la gravità della condotta dolosa, determinando una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche e delle conseguenze dinamico-relazionali patite dalla vittima, ha giustificato un incremento della liquidazione in misura doppia rispetto alla personalizzazione massima prevista dalle tabelle milanesi in materia di danno biologico, sia temporaneo che permanente. Poiché le condotte di reato avevano causato non solo una lesione all'integrità psicofisica della minore, bensì anche la lesione del diritto all'autodeterminazione sessuale, è stato liquidato un ulteriore danno la cui gravità è stata commisurata alla gravità dell’abuso, commesso con violenza su una persona minore nell'ambito di un contesto familiare e con abuso della propria qualità di parente (Trib. Milano, G.I. D. Spera, sent. n. 6963/2021).

In altro caso di lesioni dolose aggravate ai sensi dell’art. 61 n.1 c.p. (motivi abietti e futili), si è proceduto unicamente a una personalizzazione del danno da sofferenza soggettiva interiore nei termini della personalizzazione massima prevista dalle tabelle milanesi in materia di danno biologico (pari al 50%), sia temporaneo che permanente, (Trib. Milano n. 2894/2023), non essendo emersa invece la lesione di ulteriori interessi rilevanti.

Anche l’intensità della colpa ha assunto talvolta particolare rilievo ai fini della liquidazione del danno.

Il Tribunale di Torino, in un tragico caso di morte di un ragazzo a causa del crollo in un'aula scolastica di un controsoffitto, ha osservato come “la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell'evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, e dunque pur sempre in un'ottica riparatoria o compensativa e non sanzionatoria” (Trib. Torino, sez. IV, 3 giugno 2015).

Nella sentenza citata si fa riferimento alla evitabilità di un’assurda tragedia per iniziativa di chi ricopriva una posizione di garanzia e un ruolo istituzionale, circostanza che non poteva non aggravare lo strazio dei superstiti.

Nel caso in esame, dovendosi procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale subito dai congiunti sia in termini di danno psichico che di perdita del rapporto parentale, i pregiudizi esistenziali, relazionali e morali conseguenti alla morte del congiunto sono stati valorizzati nella liquidazione oltre i massimi tabellari del danno da perdita del rapporto parentale e non anche per la personalizzazione del danno alla salute, separatamente liquidato, anche ai fini di evitare una non consentita duplicazione risarcitoria.

Recupero della funzione sanzionatoria?

La personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale passa quindi spesso attraverso il riferimento ai profili soggettivi (dolo o colpa grave) o in generale alla gravità della condotta per il cui apprezzamento soccorrono automaticamente i criteri di cui all’art. 133, comma 1, c.p.

Nella già menzionata sentenza della Cass. n. 1126/2015, in tema di condotta omofobica, la gravità dell’offesa è definita quale elemento di “indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno” alla libertà di orientamento sessuale e alla privacy.

La vittima era un soggetto il quale, durante la rituale visita di leva sostenuta presso l'ospedale militare, a seguito della dichiarazione di essere omosessuale, era stato esonerato dal servizio; il provvedimento era stato poi trasmesso all'Ufficio della Motorizzazione Civile ai fini della revisione della patente di guida, mediante sottoposizione a un nuovo esame di idoneità psico-fisica, poi concluso con esito positivo.

La Corte di Cassazione, riformando la sentenza della Corte d’Appello che aveva ridotto il quantum della liquidazione, anche sul presupposto della mancata deduzione di specifici elementi di sofferenza, ha condiviso invece il rilievo attribuito dal giudice di primo grado ai comportamenti delle due amministrazioni che avevano gravemente offeso e oltraggiato la personalità della vittima in uno dei suoi aspetti più sensibili e indotto nella stessa “un grave sentimento di sfiducia nei confronti dello Stato, percepito come vessatorio, nell'esprimere e realizzare la sua personalità nel mondo esterno".

Parte della dottrina, nella tendenza espressa dalla giurisprudenza ad aumentare la posta del danno morale in funzione della gravità della condotta e dei profili soggettivi della stessa, ha ravvisato il mascheramento della sostanziale irrogazione di sanzioni pecuniarie punitive. E’ stato quindi evidenziato che, alla funzione tradizionale della responsabilità civile, si è affiancata una funzione sostanzialmente punitiva, alla cui ammissibilità in astratto non si sono opposte le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 16601/2017 e che in definitiva recupera l’autonoma ragion d’essere dell’art. 2059 c.c..

Effettivamente appare chiaro che in concreto, per quantificare il danno non patrimoniale, l’attenzione dell’interprete non si focalizza nell’immediato sull’apprezzamento dell’intensità della sofferenza, ma si incentra sul livello di antigiuridicità della condotta.

Ciò non significa però che la gravità dell’offesa (cioè, appunto, il livello di antigiuridicità della condotta) assuma necessariamente una rilevanza autonoma, quanto che la stessa costituisce un parametro per l’applicazione del ragionamento probatorio di tipo presuntivo, pure avallato dalla giurisprudenza di legittimità, stante l’indubbia difficoltà di accertare e misurare la sofferenza interiore della vittima.

Da tale modus operandi emerge soprattutto che una componente rilevante della sofferenza interiore è il sentimento di subire un’ingiusta e grave offesa a un diritto fondamentale, considerazione che giustifica l’autonoma previsione dell’art. 2059 c.c. accanto alla norma generale di cui all’art. 2043 c.c., ma non elide la necessità a livello teorico dell’esistenza di un danno conseguenza, seppure portando a un rilevante sgravio dell’onere probatorio.

La giurisprudenza di legittimità appare infatti allo stato consolidata nel mantenere almeno a livello teorico la rilevanza autonoma del danno conseguenza ai fini della liquidazione del danno.

In conclusione

La rilevanza della gravità della condotta ai fini della liquidazione del risarcimento inizialmente era un corollario del necessario collegamento tra danno non patrimoniale e reato, ma anche successivamente all’arresto delle Sezioni Unite del 2008 tale parametro ha continuato ad avere un ruolo fondamentale nella selezione dei danni risarcibili.

Il dolo in particolare caratterizza condotte che, pure non costituendo reato, sono idonee a ledere interessi fondamentali della vita, oppure giustifica un incremento dei valori tabellari o caratterizza condotte di reato plurilesive.

Anche il grado della colpa ha assunto spesso un ruolo rilevante nella personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale.

Il meccanismo di personalizzazione passa però attraverso il criterio presuntivo che lega l’intensità della sofferenza morale alla gravità della condotta e non giustifica un ritorno al danno in re ipsa né presuppone necessariamente un recupero della funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non patrimoniale.

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