La rilevanza penale del mobbing1. Bussole di inquadramentoLa nozione Il termine mobbing (da “to mob”, letteralmente accalcarsi intorno a qualcuno) fu coniato nel 1971 dall'etologo KONRAD per descrivere “il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell'atto di respingere un rapace loro predatore”, ed è stato successivamente mutuato per designare quel fenomeno che si concretizza in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito (mobbing ambientale) o dal suo capo (mobbing gerarchico), e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Si distinguono: (a) mobbing verticale, caratterizzato dall'attività di un superiore gerarchico, mirante ad indurre il lavoratore alle dimissioni (ad es., per personale antipatia, ovvero per presunta incompetenza od improduttività), e che di solito coinvolge anche i colleghi (side mobbers), i quali preferiscano aiutare il superiore o comunque non difendere il collega per non trovarsi poi nella sua stessa situazione; (b) mobbing orizzontale, caratterizzato dall'attività dei colleghi in danno di un lavoratore di pari grado, emarginato per incompatibilità ambientale o caratteriale (ad es., per motivi sessuali, etnici o religiosi, per interessi sportivi diversi, o perché diversamente abile); (c) mobbing misto; (d) mobbing strategico, caratterizzato da un'attività vessatoria e dequalificante, mirante ad avvicendare la vittima (generalmente un soggetto che occupa posizioni direttive o comunque di vertice). Il mobbing implica l'esistenza di uno o più soggetti attivi (cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili) e di uno o più soggetti passivi (che di tali comportamenti siano destinatari e vittime), in relazione ai quali si distinguono ulteriormente: – mobbing discendente (dal superiore al subordinato); – mobbing ascendente (dal subordinato al superiore: ad es., false accuse di mobbing posso trasformarsi, a loro volta, in un temibile strumento di mobbing). Con riguardo ai soggetti attivi, possono assumere rilievo condotte – commissive od, in ipotesi, omissive – consistenti sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali, che si caratterizzano entrambi per la peculiarità di poter risultare, se singolarmente considerati, leciti, legittimi o comunque irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di poter acquisire rilievo, se valutati complessivamente, quali segmenti della condotta finalizzata alla persecuzione ed emarginazione della vittima. Con riguardo ai soggetti passivi, vanno considerate le diverse conseguenze che essi patiscono per effetto di condotte mobbizzanti, che svariano dall'insorgere di disturbi di vario tipo ed, a volte, di patologie psicotiche (c.d. sindrome da stress postraumatico), al compimento di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro (dimissioni o licenziamento), all'adozione, da parte della vittima, di altre condotte giuridicamente rilevanti, eventualmente anche illecite (ad es., reazioni violente alle persecuzioni ed all'emarginazione). Nell'ambito del fenomeno, si distingue, infine, il mobbing di genere, caratterizzato da discriminazioni di natura sessuale: e capita perlopiù alle donne (specialmente a seguito di matrimonio, al rientro dalla maternità, in presenza della necessità di una maggiore presenza di famiglia per provvedere ad attività assistenziali in favore di familiari anziani e/o ammalati, nonché – più frequentemente – a seguito del rifiuto di avances di natura sessuale) di essere oggetto di vessazioni e/o discriminazioni di tal natura. Mobbing e straining Dal mobbing viene talora differenziato il c.d. straining, che si concretizza in “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante [o meglio, da effetti duraturi]: la vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer), e lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante”. La sua rilevanza giuridica è stata, peraltro, riconosciuta finora soltanto in sede civile, dapprima da una decisione del Tribunale di Bergamo (21 aprile 2005, in wikilabour.com) a lungo rimasta isolata, e poi successivamente anche in sede di legittimità. In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità civile, lo “straining” costituisce una forma attenuata di “mobbing”, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie (Cass. civ., sez. lav., n. 18164/2018). Con riguardo al predetto fenomenio, si è inizialmente osservato che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva, in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”); a tal fine, il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (Cass. civ., sez. lav., n. 3291/2016). Si è successivamente precisato che il c.d. “straining” è ravvisabile allorquando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”, e non quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda (Cass. civ., sez. lav., n. 2676/2021); e si è ribadito che rientra nell'obbligo datoriale di protezione di cui all'art. 2087 c.c. la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo “straining” sia in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente, sia in caso di una condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute (Cass. civ., sez. lav., n. 33428/2022). La nozione di mobbing nella giurisprudenza civile: cenni Secondo la giurisprudenza civile, che si è interessata fin qui, in assoluta prevalenza, di fenomeni di mobbing verticale, il mobbing consiste in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nel contesto lavorativo, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per dare vita a forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui possono conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (Cass. civ., sez. lav., n. 3785/2009). Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro assumono, pertanto, rilievo: (a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti od anche leciti, se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intenti vessatori. Si è, in proposito, precisato che integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, eventualmente anche legittimi: Corte cost., n. 359/2003, nonché Cass. civ. S.U., n. 13537/2006), diretti alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa, in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c., la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica) (Cass. civ., sez. lav., n. 22858/2008); (b) l'evento, consistente nella lesione della salute o della personalità del dipendente; (c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico ed il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; (d) l'elemento soggettivo, ovvero l'intento persecutorio. Anche più recentemente si è ribadito che, ai fini della configurabilità di una condotta di mobbing occorre dimostrare che i comportamenti datoriali costituiscano il frutto di un disegno persecutorio unitario, preordinato alla prevaricazione, ovvero l'esistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli posti in essere in danno della vittima, non essendo sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime (Cass. civ., sez. lav., n. 10992/2020 e n. 3692/2023). La nozione di mobbing nella giurisprudenza penale: cenni Dal canto suo, la giurisprudenza penale, mutuando la nozione di mobbing fornita dalla giurisprudenza civile, ha ribadito che il fenomeno può realizzarsi con comportamenti anche soltanto provvedimentali dotati di idoneità offensiva, e si caratterizza per la sistematicità e protrazione nel tempo della condotta persecutoria e/o discriminatoria, come tale qualificabile in virtù delle sue connotazioni emulative e pretestuose (Cass. V, n. 29373/2007). I riferimenti alla protrazione nel tempo della condotta, ed alla necessità che essa sia finalizzata all'emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal mobber sul luogo di lavoro, costituiscono ormai ius receptum. Si ribadisce anche in sede penale che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati (Cass. VI, n. 28553/2009: fattispecie nella quale, in fase cautelare, l'indagato, direttore generale di un'azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti urbani è stato ritenuto responsabile dei reati di maltrattamenti, lesioni personali e violenza privata). 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Il mobbing ha rilevanza penale? Se si, quale reato può integrare?
L'orientamento per il quale il mobbing può integrare il reato di cui all'art. 572 c.p. Pur in difetto di una norma che incrimini il mobbing quale autonomo reato, la giurisprudenza penale tradizionale aveva tendenzialmente ricondotto il fenomeno ai reati di percosse (art. 581 c.p.) o lesioni (art. 582 c.p.), ovvero di violenza privata (art. 610 c.p.), a seconda dei casi, consumata o tentata, pur ammettendo che i segmenti della condotta che lo origina possano integrare anche altre fattispecie di reato, ad es. la diffamazione ex art. 595 c.p. Ben presto è tuttavia emersa la consapevolezza della possibile sussumibilità dei fenomeni di mobbing nell'ambito delineato dall'art. 572 c.p., collocato tra i delitti contro la famiglia (in particolare, tra quelli contro l'assistenza familiare), rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, e che incrimina, tra gli altri (al comma 1), “chiunque (...) maltratta (...) una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata (...) per l'esercizio di una professione o di un'arte”. In proposito, si era inizialmente osservato che “l'esercizio della funzione correttiva con modalità afflittive e deprimenti della personalità, nella molteplicità delle sue dimensioni, contrasta con la pratica pedagogica e con la finalità di promozione dell'uomo ad un grado di maturità tale da renderlo capace di integrale e libera espressione delle sue attitudini, inclinazioni ed aspirazioni. Pertanto, quando un siffatto esercizio, nel contesto della famiglia ovvero di rapporti di autorità o di dipendenza, si ripeta con abituale frequenza nei confronti dello stesso soggetto, l'intento correttivo resta escluso, e si versa nell'ipotesi criminosa dell'art. 572 c.p.” (Cass. VI, n. 2609/1997: principio affermato in relazione al comportamento tenuto da ospiti-datori di lavoro di una persona extracomunitaria, alla quale, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, non veniva corrisposta retribuzione, ed era stato sistematicamente imposto di non uscire, di non comunicare con alcuno, di lavarsi e vestirsi in giardino, di non guardare la televisione – forse unico atto non del tutto deprecabile –). Nel ribadire le predette conclusioni, era stata anche focalizzata la distinzione tra le fattispecie di cui agli artt. 572 e 571 c.p.: “Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 c.p., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili, ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale” (Cass. VI, n. 10090/2001: la fattispecie esaminata riguardava un datore di lavoro ed il suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati – incaricati di vendite porta a porta – a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro – e quindi di fatto non disponibili –, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi). Quest'ultima decisione si segnala anche per aver ritenuto l'imprenditore-datore di lavoro responsabile di concorso doloso nel reato di violenza privata (art. 610 c.p.) continuata commesso dal preposto, in applicazione dell'art. 40, comma secondo, c.p., a norma del quale non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo: ed invero, la giurisprudenza sembra ormai ferma nel ritenere che, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antiinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo verificatosi in danno della vita o dell'incolumità del lavoratore può essergli addebitato, in ragione della previsione generale di cui all'art. 40, comma secondo c.p. (Cass. S.U. , n. 5/1999; Cass. IV, n. 9745/2021). La riconducibilità del mobbing al reato previsto e punito dall'art. 572 c.p. è stata ribadita da Cass. VI, n. 737/2007, relativa ad un caso nel quale l'accusa riguardava una ipotesi articolata di mobbing in danno di alcuni componenti del corpo di polizia municipale, sostanziatasi in attività vessatorie, inflizione di provvedimenti disciplinari, trasferimenti ad altre mansioni di minor rilievo, abbassamento delle note caratteristiche ed altro, finalizzate a smantellare l'attività posta in essere dai predetti pubblici ufficiali ed i controlli di legalità ad essi demandati, nei settori dell'edilizia e dell'ospitalità alberghiera, oggetto di particolare interesse da parte di un gruppo organizzato facente capo al sindaco e ad alcuni privati imprenditori edili. Nella stessa linea interpretativa si sono successivamente poste Cass. V, n. 33624/2007, per la quale il fenomeno del mobbing “appare più prossimo alla fattispecie di cui all'art. 572 c.p., la cui integrazione richiede, comunque, la ravvisabilità dei parametri di frequenza e durata nel tempo delle azioni ostili al fine di valutarne il complessivo carattere persecutorio e discriminatorio”, che, nella specie, in relazione alla presunta condotta mobbizzante che si assumeva tenuta da un preside di scuola in danno di una insegnante, si è ritenuto essere stati non compiutamente contestati, ed ancora, con motivazione ampia e convincente, Cass. III, 5 giugno 2008, in Dir. e prat. lav., 2008, 2521 ss., per la quale rientra nel rapporto d'autorità di cui all'art. 572 c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo. In applicazione del principio, in un caso nel quale le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto di lavoro, ed erano consistite in ripetute e petulanti molestie sessuali ed in un abuso sessuale, posti in essere sul luogo di lavoro dal datore di lavoro in danno di una propria dipendente, nonché nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga, l'imputato è stato riconosciuto responsabile dei reati di violenza sessuale e maltrattamenti. Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro, in relazione a fenomeni di mobbing, si riteneva necessario che il soggetto attivo si trovasse in una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare (Cass. VI, n. 43100/2011: fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell'ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C., in applicazione del principio, ha escluso la configurabilità del reato previsto dall'art. 572 c.p.). Orientamento contrario L'orientamento, che ben poteva definirsi in precedenza dominante, è stato inizialmente disatteso da Cass. VI, n. 26594/2009, per la quale “Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”. In applicazione del principio, è stata, pertanto, esclusa la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni (la vittima era stata destinataria, nel clima esasperato delle tensioni verificatesi nell'ambiente di lavoro, di ripetute censure ad opera dei suoi superiori, da lei percepite come penalizzanti per la propria professionalità e mortificanti della sua dignità di persona) subite dalla dipendente ad opera di un dirigente di una azienda di grandi dimensioni. La decisione ha precisato che, in difetto della possibilità di attribuire rilievo penale alle condotte accertate, sarebbe certamente percorribile “la strada del procedimento civile, costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro”; ha anche osservato che “la responsabilità datoriale ha natura contrattuale ex art. 2087 c.c., norma questa in stretto collegamento con quelle costituzionali poste a difesa del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e del rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana nell'esplicazione dell'iniziativa economica (art. 41 Cost.). Il legittimo esercizio del potere imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile nell'inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l'insorgenza o l'aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l'eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare”. Nel medesimo senso, Cass. VI, n. 685/2011, nell'escludere la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal capo squadra nei confronti di un operaio, ha ritenuto che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Il contrasto A conclusioni ancora diverse era, peraltro, giunta Cass. VI, n. 28553/2009, relativa ad una estesa serie di comportamenti mobbizzanti in ambiente lavorativo, verificatisi presso una azienda municipalizzata per lo smaltimento di rifiuti urbani, concretizzatisi in molteplici attività dei vertici aziendali volte a conseguire l'acquiescenza dei lavoratori (in particolare presso un termo-valorizzatore) alle carenze degli impianti di sicurezza e di prevenzione degli infortuni, sottoponendo gli stessi lavoratori a ripetuti provvedimenti di dequalificazione, di depotenziamento dei rispettivi ruoli ed a minacce di sanzioni disciplinari ingiustificate, qualificati come maltrattamenti (art. 572 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.). Orientamento attualmente dominante: la necessità di un rapporto para-familiare A partite dal 2012, è divenuto dominante l'orientamento per il quale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, anche nel testo modificato dalla l. n. 172 del 2012, esclusivamente quando s'inquadrino nel contesto di un rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente che – per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro – assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato, anche alternativamente: – da relazioni intense ed abituali; – da consuetudini di vita tra i soggetti; – dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra; – dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, che risultino nel complesso assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. In tal senso, si sono pronunciate: – Cass. VI, n. 16094/2012, che, in applicazione del principio, ha escluso la configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p. in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un'ATER nei confronti di una dipendente; – Cass. VI, n. 28603/2013, che, pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali; – Cass. VI, n. 13088/2014, che ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un'articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati; – Cass. VI, n. 24642/2014, che ha escluso la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale; – Cass. VI, n. 14754/2018, che ha escluso la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri. Mobbing e violenza privata I fenomeni di mobbing possono integrare anche il reato di violenza privata ex art. 610 c.p.La giurisprudenza ( Cass. VI, n. 31413/2006 ), in riferimento ad un caso di c.d. mobbing strategico, nel quale i datori di lavoro avevano costretto o cercato di costringere (a seconda dell'esito delle coazioni poste in essere) taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro demansionamento, costituito dal declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio, mediante minaccia di destinarli, altrimenti, ad una forzata ed umiliante inerzia in un ambiente di lavoro appositamente predisposto (secondo quanto emerso dall'istruttoria svolta, si trattava di “una specie di lager”, fatiscente ed emarginato dal resto del contesto aziendale), nella prospettiva pur sempre di un susseguente licenziamento, ha ritenuto configurabile a carico dei datori di lavoro il reato di violenza privata, consumata o tentata. Mobbing ed abuso di ufficio Si è talora ritenuto che le condotte di mobbing possano integrare la diversa fattispecie di cui all'art. 323 c.p. (abuso di ufficio), ove ne ricorrano i presupposti. In particolare, secondo Cass. VI, n. 40891/2007, “In materia di abuso d'ufficio, integra il requisito della violazione di legge il mutamento di destinazione di una dipendente comunale dallo svolgimento delle mansioni di coordinatrice economa a quelle di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di sosta, deliberato dal Sindaco in violazione dell'art. 56 d.lgs. n. 29 del 1993 sui dipendenti delle pubbliche amministrazioni e dell'art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel d.P.R. n. 593 del 1993”; le predette disposizioni, pur consentendo che un dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di qualifica immediatamente inferiore, richiedono, tuttavia, l'occasionalità della destinazione e la possibilità che ciò avvenga con criteri di rotazione. Mobbing e stalking Un orientamento giurisprudenziale (Cass. V, n. 31273/2020) ha ritenuto che integra il delitto di atti persecutori (stalking) ex art. 612-bis c.p. la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente, preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro, tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p. Nel caso esaminato, il lavoratore era stato esposto a plurimi atti vessatori, quali il fisico impedimento a lasciare la sede di lavoro e l'abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, tale da far insorgere nello stesso uno stato di ansia e di paura ed indurlo a modificare le proprie abitudini di vita. 3. Azioni processualiUlteriori attività difensive Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Istanza di revoca o sostituzione di misura cautelare (art. 299); Richiesta di riesame di un'ordinanza che applica una misura coercitiva (art. 309); Appello contro un'ordinanza in materia cautelare (art. 310); Ricorso per cassazione contro un'ordinanza in materia cautelare (art. 311); Richiesta di presentazione spontanea per rilasciare dichiarazioni (art. 374); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1); Richiesta dell'indagato di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (art. 447, comma 1). ProcedibilitàIl delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, ex art. 572 c.p., è sempre procedibile d'ufficio. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) Il termine-base di prescrizione del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, nelle forme non aggravate di cui al comma 1, è pari a quattordici anni, in forza del comma 6 dell'art. 157 c.p. (in vigore dal 23 ottobre 2012), che prevede il raddoppio del termine ordinario di prescrizione (pari a sette anni, in ragione della pena edittale detentiva massima). In presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, tale termine può essere aumentato nella misura di un quarto, fino ad un massimo di diciassette anni e sei mesi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Qualora ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale, di cui al comma 2 dell'art. 572 c.p., il termine base di prescrizione è di ventuno anni, per effetto del raddoppio ex art. 157, comma 6, c.p., del termine ordinario pari alla pena detentiva massima di dieci anni e sei mesi di reclusione, ai sensi dell'art. 572, comma 2, c.p.; anche in questo caso il termine-base è suscettibile di aumento, nella misura di un quarto, in presenza di eventi interruttivi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), fino al termine massimo di ventisei anni e tre mesi, oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Nei casi di cui al comma 4 dell'art. 572 c.p., infine, che prevede le circostanze aggravanti indipendenti ad effetto speciale in caso di lesioni personali gravi o gravissime ovvero di morte della persona offesa, derivate dal fatto, il termine ordinario di prescrizione, raddoppiato ai sensi dell'art. 157, comma 6, c.p., è rispettivamente pari a diciotto (lesioni personali gravi), trenta (lesioni personali gravissime) e quarantotto anni (morte della persona offesa). I medesimi termini sono suscettibili di aumento, nella misura di un quarto, in presenza di eventi interruttivi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), fino al termine massimo rispettivamente di ventidue anni e sei mesi, trentasette anni e sei mesi e sessant'anni, oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Con riferimento ai fatti commessi a partire dal 1° gennaio 2020, ai sensi dell'art. 161-bis c.p., il termine di prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado, fermo restando che, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento. A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), inoltre, per tutti i casi di truffa (commessa, o meno, on-line, e, quindi, aggravata, o meno, ex art. 61, comma 1, n. 5, c.p.) costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: – del giudizio di appello entro il termine di due anni; – del giudizio di cassazione entro il termine di un anno; salva proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare; salva sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.; salva diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo Con riguardo al delitto di maltrattamenti in famiglia: – è consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380, comma 1, lett. l-ter, c.p.p.); – è sempre consentito il fermo (art. 384 c.p.p.). Misure cautelari personali Nei casi di maltrattamenti contro familiari o conviventi, aggravati o meno, essendo il delitto, anche nella sua forma base, punito con pena edittale massima superiore ai tre anni di reclusione, sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; è sempre applicabile altresì la misura della custodia cautelare in carcere, poiché l'art. 280, co. 2, c.p.p. consente l'applicazione della predetta misura ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Con particolare riferimento alla misura cautelare della custodia in carcere, non opera nei casi di cui all'art. 572 c.p. la norma di cui al comma 2-bis dell'art. 275 c.p.p., nella parte in cui non consente la custodia in carcere quando il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica nei casi di cui al comma 1, non aggravati, e di cui al comma 4, primo periodo (se dal fatto deriva una lesione personale grave), mentre decide in composizione collegiale nei casi aggravati di cui al comma 2, nonché nel caso di cui al comma 4, secondo periodo (se ne deriva una lesione gravissima) (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.). È invece competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5 c.p.p.) nei casi di cui all'ultimo periodo del comma 4 dell'art. 572 c.p., se dal fatto deriva la morte della persona offesa, essendo il delitto in questo caso punito con la pena della reclusione non inferiore ai ventiquattro anni (da dodici a ventiquattro anni). La competenza per territorio va invece individuata, stante la natura di reato abituale, nel luogo di realizzazione dell'ultimo dei molteplici fatti caratterizzanti il reato (Cass. VI, n. 24206/2019). Citazione a giudizio Per il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi è sempre prevista l'udienza preliminare. Composizione del tribunale Della configurabilità o meno delle circostanze aggravanti di cui all'art. 572, comma 2 e comma 4, secondo periodo, c.p., si deve tenere conto agli effetti previsti dall'art. 33-bis, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica): il processo per il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi di cui al comma 1 e i casi aggravanti ai sensi del comma 4, primo periodo (se dal fatto deriva una lesione personale grave), si svolgerà sempre dinanzi al tribunale in composizione monocratica mentre aggravati ai sensi del comma 2, nonché nel caso di cui al comma 4, secondo periodo (se ne deriva una lesione gravissima), dinanzi al tribunale in composizione collegiale, in ragione dell'aumento di pena oltre i dieci anni di reclusione. 4. ConclusioniI maltrattamenti, come l'abuso dei mezzi di correzione (rispettivamente, artt. 572 e 571 c.p.), erano disciplinati, nel Codice Zanardelli del 1889, tra i delitti contro la persona, e solo la fattispecie corrispondente all'odierno art. 571 incriminava condotte poste in essere in danno di una persona sottoposta all'autorità dell'agente ovvero a quest'ultimo affidata per l'esercizio di una professione o di un'arte (artt. 390 e 391 c.p. del 1889). Dalla Relazione del Guardasigilli al Re sul Progetto del codice penale del 1930 emerge con evidenza che, dopo avere adeguato la previsione del delitto di maltrattamenti alla previsione del delitto di abuso dei mezzi di correzione, ampliando la prima fino a ricomprendere anche condotte stricto iure extrafamiliari, si era preferito collocare entrambe le disposizioni tra i delitti contro la famiglia, per sottolineare il rilievo centrale che si intendeva attribuire a quest'ultima, intesa come società coniugale e parentale, quale oggetto (anche) di tutela penale. Tuttavia, la collocazione di una disposizione non sembra vincolare in assoluto l'interprete: d'altro canto, la giurisprudenza ha già riconosciuto, ad es., quanto meno il carattere plurioffensivo di alcuni delitti contro la famiglia, attribuendo rilevanza non solo alla famiglia, ma anche alla persona maltrattata, proprio in relazione proprio al delitto di cui all'art. 572 c.p.; inoltre, Cass. S.U., n. 8413/2008 (v. supra, Casistica: “Omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza in danno di più soggetti: unità o pluralità di reati?”) ha ritenuto che “La condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza ex art. 570 c.p. in danno di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare non configura un unico reato, bensì una pluralità di reati in concorso formale o, ricorrendone i presupposti, in continuazione tra loro”, decisione altrimenti incomprensibile, ove dovesse ritenersi che la norma incriminatrice tuteli la sola famiglia. La genesi dell'art. 572 c.p., unita in parte qua alla considerazione della sua formulazione letterale, induce quindi a ritenere che nell'ambito della fattispecie, con riferimento alle condotte poste in essere in ambiente di lavoro, il legislatore non abbia inteso tutelare soltanto la famiglia, ma anche la persona del lavoratore, pur accorpando – per ragioni pratiche – previsioni a tutela di beni in parte disomogenei nell'ambito di una stessa norma, collocata tra i delitti contro la famiglia in omaggio al bene giuridico cui si intendeva attribuire rilievo maggiore. Alla luce di questa premessa, appare, a nostro avviso, non condivisibile l'orientamento che limita la riconducibilità del mobbing al delitto di maltrattamenti nei soli casi in cui, tra mobber e soggetto mobbizzato, intercorrano rapporti personali di natura para-familiare, poiché (a prescindere dall'abnormità del rilievo che l'esistenza di un rapporto di soggezione di una parte nei confronti dell'altra sarebbe connaturale alle caratteristiche proprie del consorzio familiare), l'art. 572 c.p. appare ricomprendere più ampiamente i fenomeni di mobbing; tuttavia, il riferimento operato dall'art. 572 c.p. all'«affidamento per l'esercizio di una professione o di un'arte», consente la riconducibilità al delitto di maltrattamenti dei fenomeni di c.d. mobbing verticale, non anche (ad eccezione dei casi di rapporti di tirocinio) dei fenomeni di mobbing c.d. orizzontale. Nei casi in cui il fenomeno non risulti riconducibile ai maltrattamenti, in presenza di lesioni (anche di natura meramente psichica) causalmente ricollegabili a condotte mobbizzanti poste in essere sul luogo di lavoro in danno dei lavoratori, dolosamente o colposamente non impedite dal datore di lavoro (o dal preposto) per violazione delle norme antinfortunistiche innanzi riepilogate (colpa specifica), sarebbe sicuramente configurabile il reato di lesioni dolose (art. 582 c.p.) o di lesioni colpose commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 590, comma terzo, c.p.); fuori dai casi di mobbing di genere, potrà all'uopo attribuirsi rilievo unicamente all'omesso colposo impedimento di fenomeni di mobbing in danno di lavoratori “esposti a rischi particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004 ... nonché quelli connessi ... all'età ed alla provenienza da altri paesi” (art. 28 d.lgs. n. 81 del 2008). Con riferimento alla responsabilità da reato degli enti, in difetto – ancora una volta – di una previsione ad hoc, può assumere rilievo unicamente l'art. 25-septies, comma 3, D. Lgs. n. 231 del 2001, che prevede ipotesi di responsabilità degli enti in dipendenza del reato di cui all'art. 590, comma terzo, c.p. Ove si ritenga la ritenuta riconducibilità dei più frequenti fatti di mobbing all'art. 572 c.p. (che comunque appare all'evidenza, per il riferimento all'ambiente di lavoro, lex specialis), tali condotte non sarebbero riconducibili all'art. 612-bis c.p., poiché il reato di stalking è configurabile con clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), laddove quello di cui all'art. 572 c.p. è punito con pena più elevata (da tre a sette anni di reclusione, in luogo che da un anno a sei anni e sei mesi di reclusione: il divario aumenta a dismisura per le fattispecie aggravate da un evento lesivo ex art. 572, comma secondo, c.p., che ben può consistere nel grave stato di ansia o di paura di cui all'art. 612-bis cit.). All'ambito di cui all'art. 612-bis c.p. sembrerebbero poter essere ricondotti al più i fenomeni di mobbing orizzontale esulanti dall'ambito dell'art. 572 c.p., che (a giustificazione sistematica del più mite trattamento sanzionatorio) sarebbe ben possibile ritenere meno gravi di quelli di mobbing verticale. |